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CHI CREDE SI INCONTRA
Partecipano: Shodo Habukawa, Monaco Buddista e Docente alla Koyasan University; Tareq Oubrou, Imam della Moschea di Bordeaux; S. Em. Card. Jean-Louis Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Introduce Roberto Fontolan, Direttore Centro Internazionale di Comunione e Liberazione.
ROBERTO FONTOLAN:
Buongiorno. Accompagnando don Giussani in Giappone, nel 1987, e ascoltandolo nella conferenza che tenne nella città di Nagoya e poi nella visita al monte Koya, ebbi non solo la fortuna di vivere con lui quei tre, quattro giorni, ma soprattutto l’immagine chiara del metodo da usare nel dialogo tra le persone. Innanzitutto, la disponibilità, la prontezza di un incontro che va in profondità, ben oltre la conversazione. In secondo luogo, il dialogo vero, che è sempre un incontro e necessita di sgomberare il proprio cuore dai detriti, in modo che ricerchi l’essenziale. E’ da un incontro così, da un dialogo così, che inizia una storia, cominciata dopo quel viaggio del 1987. Oggi cercheremo di approfondire la natura del dialogo vero con l’aiuto di tre ospiti, tre amici, innanzitutto, perché ospiti è una parola un po’ formale, un po’ da tavola rotonda, un po’ da convegno. Qui invece abbiamo tre amici: mi permetto di usare questa parola, sia per il Cardinale Tauran, che ci fa l’onore di essere al Meeting ancora una volta, sia per il Reverendo Professor Shodo Habukawa, che è un vecchissimo amico del Meeting. L’ultima volta è stato qui due anni fa, ma la sua storia di amicizia con il Meeting cominciò proprio nel 1987: ancora una volta, ci fa l’onore di attraversare gli oceani per essere qui con noi. Amico possiamo considerare anche il dottore Tareq Oubrou, che viene da Bordeaux, la città natale del Cardinale Tauran.
Ho già anticipato quello che volevo dire, introducendo il Reverendo Professor Habukawa del monte Koya: fu proprio lui – ricordo perfettamente la prima istantanea di questo viaggio, ho ancora a casa una vecchia foto, ormai con i colori dissolti -, che accolse don Giussani in quell’anno. Da allora non ha mai interrotto il rapporto con lui, e possiamo dire che non l’abbia fatto nemmeno ora. Con il titolo Chi crede si incontra vogliamo approfondire la natura di ciò che, con una parola un po’ abusata, si chiama dialogo, ma che si può definire, con un po’ più di sostanza, l’incontro tra persone. Passo subito la parola al Reverendo Professor Habukawa che ci vuole dare il suo saluto. Paola aiuterà nella traduzione e nella esposizione dell’intervento del professore. Grazie. A lei, Professore, la parola.
SHODO HABUKAWA:
Buongiorno. Mi chiamo Shodo Habukawa del monte Koya. Grazie per l’invito al Meeting di Rimini. La mia amicizia con monsignor Luigi Giussani è iniziata il 28 giugno del 1987. Dall’anno seguente, sono stato invitato al Meeting. Da allora sono trascorsi ventitré anni. Don Giussani, in occasione delle feste che si tenevano alla fine del Meeting, mi aveva spesso sentito cantare Torna a Surriento. Una volta mi chiese perché la cantassi: io risposi che in questa canzone c’è un sentimento di malinconia. Mi è stato detto in seguito che, durante una conferenza, don Giussani, al sentire rammentare questo episodio, si era commosso fino alle lacrime. Da allora, Torna a Surriento ha rappresentato per me la nostalgia che sentivo nei confronti dell’Italia. E tuttavia, quando un amico giapponese mi chiese se sapevo dove si trovava Sorrento e se conoscevo il suo paesaggio, rimasi sorpreso a rendermi conto che in realtà non ne sapevo niente. Questa volta, grazie alla gentilezza della famiglia di Antonino Apreda, ho potuto visitare il paesaggio di sogno di Sorrento, ho potuto ammirare a sazietà il famoso paesaggio cantato dalla canzone, sia dall’hotel Minerva, dove sono stato ospitato, che dalla barca. Mi sono stupito di fronte alle antiche rovine di Paestum e Pompei, nominate dall’Unesco “patrimonio culturale dell’umanità”. A cominciare dalla famiglia Apreda fino al sindaco di Sorrento, alla Direttrice del museo di Paestum, al Direttore degli scavi di Pompei, rivolgo a tutte le persone che hanno reso piacevole e significativo il mo soggiorno un caloroso ringraziamento. Vorrei ora presentare il mio intervento che verte sulle analogie tra la coscienza religiosa postulata da don Giussani e quella del buddismo Shingon al quale appartengo. Per motivi di tempo, il testo verrà letto direttamente nella traduzione italiana.
Il senso religioso di Monsignor Luigi Giussani è stato tradotto in giapponese da Sadahiro Tomoko e Marcia Kaeda nel 2008. Da quel momento è stato letto con passione ed è diventato anche per i giapponesi un importante punto di riferimento come guida all’esperienza religiosa. La struttura dell’essere umano presa come riferimento da don Giussani per l’esperienza religiosa richiama alla mente l’astro della filosofia occidentale Immanuel Kant, che ha posto i fondamenti della dignità umana in una visione idealistica dell’esistenza. Nel Senso religioso vengono stabiliti i requisiti necessari per elevare l’esistenza umana:
1. prima di tutto, limitare la coscienza dell’io necessaria alla vita quotidiana, in modo che non diventi egoismo;
2. limitare la pigrizia e la mancanza di equilibrio nella vita quotidiana;
3. mantenersi alla giusta distanza da un razionalismo distruttivo, da un lato, e da un eccessivo moralismo, dall’altro;
4. non idolatrare o ideologizzare ciò che è oggetto delle comuni capacità cognitive.
Ponendo questi punti a fondamento della distinzione fra bene e male che si trova alla base della struttura cognitiva dell’essere umano, si può acquisire un punto di vista universale nei confronti dei fenomeni dell’esistenza. Monsignor Giussani chiama senso, o coscienza religiosa questa configurazione emozionale e sentimentale alla base dell’essere umano. Nel pensiero di don Giussani, essa ha inizio con l’apertura del cuore al mondo fenomenico. Nel Buddismo, la struttura degli strati profondi della coscienza è chiamata coscienza Alaya. Alaya, che significa deposito, costituisce una sfera profonda dell’essere in cui sono immagazzinate le esperienze cognitive relative a ogni singolo fenomeno. Attraverso una pratica spirituale che ha presupposti analoghi alle cinque condizioni già dette, questa coscienza si purifica e diventa coscienza Amala, che è analoga alla coscienza religiosa postulata da don Giussani.
Aprire il cuore a tutte le cose significa che l’uomo, praticando i principi di cui ho detto, si distacca da tutti i modi di vedere acquisiti e dal controllo della coscienza latente, ponendo a fondamento del proprio essere e delle proprie capacità cognitive la capacità di osservare l’aspetto autentico del mondo fenomenico. Il Buddismo Shingon ritiene che la capacità di osservazione autentica produca un’attitudine compassionevole nei confronti di tutti gli esseri. Monsignor Giussani esprime la capacità di comprendere il livello autentico del mondo fenomenico, oggetto della conoscenza e dell’esperienza umana, come capacità di sviluppare un amore che va oltre l’amore di sé.
In tal modo, emerge luminosa la coscienza che, nel profondo del cuore, l’altro, che non è esclusivamente altro, non sia diverso dal proprio io, che non è esclusivamente personale, e viceversa. Emanuel Swedenborg fonda la monumentale opera La vera religione cristiana, pubblicata nel 1771, sul principio che il mondo fenomenico creato dall’amore divino non sia solo materiale ma interagisca con un livello spirituale di esistenza. Egli afferma che, su questo presupposto e attraverso il metodo di controllo del respiro sviluppato per tentativi dall’infanzia, ha acquisito la capacità di esperienza mistica.
Mons. Masayuki Shirieda, che è stato segretario del papa Giovanni Paolo II per molti anni, nell’opera epistolare Conversazioni che provocano un miracolo nel cuore, pubblicata in Giappone nel 2006, parla della Pietà che si trova in Vaticano. Racconta che Michelangelo, negli anni della vecchiaia, ricordando le opere giovanili delle quali era soddisfatto, racconta come, quando scolpì nel marmo il Cristo e la Madonna di questa Pietà, sia stato guidato da una forza divina. Ed è proprio così, dice Mons. Shirieda. Ancora oggi, contemplandola, la Pietà vaticana emana questa forza divina. Guardandola fissamente, a un certo momento essa ci parla e risveglia dentro di noi un linguaggio primordiale. L’espressione di tale linguaggio, agendo probabilmente sul livello universale della coscienza, trova risonanza nel cuore di chiunque sia capace di esperienza analoga. Sicuramente, questo avviene sia per merito della capacità mistica di Michelangelo, sia per comune capacità degli esseri umani di percepire anche ciò che gli occhi non possono vedere, e di stabilire una concatenazione naturale di associazioni nel modo in cui si susseguono le cime di una catena montuosa.
Il senso religioso definisce correttamente tale condizione interiore chiamandola rivelazione. Questa avviene quando, imbattendoci nella realtà, d’improvviso ci arriva un richiamo, grazie al quale comprendiamo profondamente e immediatamente il logos, ovvero il linguaggio e il suo significato profondo. Mons. Giussani ci insegna che, per coltivare la capacità di questa esperienza mistica, dobbiamo incessantemente e con impegno vivere il livello autentico della realtà.
La parola Shingon viene dal sanscrito mantra. Uno dei mantra principali fonda la struttura del mondo fenomenico su cinque elementi, in questo caso espressi attraverso cinque lettere sanscrite: A, terra; BA, acqua; RA, fuoco; KHA, vento; KYA, etere/spazio. Nel Buddismo Shingon, vengono chiamati i “cinque Grandi”. La forza mistica che scorre alla base dei cinque elementi è espressa come HUN. Il praticante Shingon, per arrivare al corretto equilibrio interiore, recita con tutto se stesso il mantra A BA RA KHA KYA HUN. La concentrazione incessante sulla recitazione di questo mantra fa emergere all’interno la forza spirituale e mistica. Sono stato molto sintetico, ma ho espresso in modo concentrato il senso religioso come è concepito da don Giussani e dal Buddismo Shingon, al quale appartengo.
ROBERTO FONTOLAN:
Bene, molte grazie per la lettura di un parallelismo così affascinante. Vi dicevo in apertura che questa è un’occasione molto speciale, perché abbiamo tre amici, tre grandi figure che rappresentano e che portano qui l’esperienza di una fede e di un orientamento culturale e religioso che occupa gran parte del nostro mondo contemporaneo. Per questo, è veramente un’occasione particolare poterci conoscere meglio e cominciare una storia di amicizia che sveli a quali condizioni possiamo vivere un incontro in profondità. Vorrei presentarvi ora l’Imam Tareq Oubrou, nato in Marocco e da molti anni in Francia, dove dirige la moschea di Bordeaux. È un leader religioso che sta svolgendo un lavoro a dir poco “pionieristico”: la formulazione della legge islamica per le minoranze, e lo sviluppo del rapporto tra minoranze e maggioranze nel contesto francese, che sappiamo essere molto interessante e a volte anche molto teso. Esso spesso funge anche da modello: è il fenomeno che viene chiamato Euro Islam, e trova, credo, nel dottor Tareq Oubrou uno dei suoi esponenti più significativi e più acuti. Vorrei ringraziarlo ancora una volta per aver accettato il nostro invito, in un periodo un po’ particolare: sapete che questo è il mese del Ramadam. Grazie, dottor Oubrou.
TAREQ OUBROU:
Scusate questo accento, che non è troppo italiano, vero? L’argomento del nostro incontro è un tema fondamentale che costituisce una sfida pregnante in un momento particolare della nostra storia. Forse, per la prima volta, la nostra umanità si rivela a se stessa nella sua diversità e con tutta la grandezza che l’accompagna: la tecnica e la tecnologia di comunicazione e di trasporto hanno completamente cambiato il nostro rapporto con il tempo e con lo spazio. Oggi siamo entrati in una fase in cui lo spazio si riduce sempre di più, ma la storia si accelera, con una interpenetrazione delle culture, delle religioni, una sovrapposizione consentita proprio dalle tecniche e dalle tecnologie di comunicazione e trasporto. Le nostre società diventano sempre più plurali: la gente viaggia molto, sia grazie a mezzi di trasporto sempre più comodi, sia virtualmente, grazie alle autostrade informatiche, grazie a Internet. Non bisogna certo essere un grande avventuriero per scoprire le altre culture o le altre religioni nelle loro nicchie culturali ed ecologiche.
Dobbiamo essere consapevoli del fatto che il nostro mondo è cambiato moltissimo e che ormai la nostra umanità è, di fatto, unita. La minima crisi, in una Regione qualsiasi del nostro pianeta, ha ripercussioni immediate su quello che è il sistema politico, economico, spirituale e identitario. I nostri destini ormai sono legati gli uni agli altri. In questo contesto, il fattore importante da considerare è il fenomeno di de-secolarizzazione: una sorta di ritorno all’irrazionale, allo spirituale, al religioso, in generale. Il XIX° secolo e l’inizio del XX° sono stati periodi di secolarizzazione e di ritorno della spiritualità, ma verso il passato: perché? Perché era la scienza che dettava la verità. Essa è diventata una sorta di Chiesa, con le proprie certezze. Ma, dall’inizio del XX° secolo, grazie alla teoria della relatività di Einstein, alla meccanica quantistica e alla biologia molecolare, le scienze esatte hanno conosciuto una crisi epistemologica senza precedenti. Il determinismo newtoniano e le certezze di Pascal, la fisica di Pascal, sono state sostituite dall’irrazionale, determinato dalla meccanica quantistica. Si è entrati in una fisica in determinista, con il principio di incertezza di Heisenberg che ci ha fatto uscire dall’arroganza scientifica per arrivare all’umiltà della scienza. Essa non ha più potuto dare risposte alle questioni metafisiche ed esistenziali che furono poste in passato dalla filosofia e dalla teologia. Le antiche problematiche relative all’uomo sul divino tornarono alla ribalta. La scienza, che era stata un fattore di secolarizzazione, oggi è diventata un mezzo di spiritualizzazione. Siamo quindi entrati in una fase in cui assistiamo a una richiesta di senso, ad una richiesta di spiritualità. Il caos economico e sociologico, dilagante in tutte le discipline, rischia di farci affondare in una irrazionalità assolutamente irragionevole.
Come rimanere ancorati alla spiritualità, dando però sempre il giusto peso e il giusto spazio alla razionalità? Ci troviamo quindi in questa realtà: c’è una spiritualizzazione del mondo, una sovrapposizione di culture, una interpenetrazione di sistemi filosofici e metafisici che coesistono nella stessa società al di là delle frontiere, divenute sempre più permeabili alle idee e ai sistemi filosofici, per cui niente le può fermare. L’altro, diverso, ormai è accanto a noi, è fra di noi: come credenti, come possiamo affrontare questa incertezza, questa preoccupazione esistenziale che dilaga sempre di più in questo mondo globalizzato? Come credente, vengo invitato, chiamato a rivedere quello che è il mio sguardo, tipico della mia tradizione. Allora, mi domando, come essere radicati in una tradizione e allo stesso tempo essere aperti ad un mondo che ormai è plurale? Ebbene, io credo che, più si è radicati in una tradizione, più si è in grado di essere aperti al mondo. Al contrario, più riusciamo ad avere rapporti superficiali con la nostra tradizione, più siamo preoccupati, inquieti e tesi, chiusi su noi stessi. Come essere dentro la tradizione senza però essere chiusi entro un recinto spirituale e identitario che ci priva della ricchezza che può esserci data dalla alterità? In questo senso, è assolutamente inconcepibile considerare la fede senza l’altro, senza l’alterità, senza il diverso: la fede deve essere sentita e misurata sulla base della differenza dell’altro.
E allora, come devo rivedere la mia interpretazione rispetto ai miei punti di riferimento? Sono musulmano e, come il cristiano si riferisce alla Rivelazione, il rapporto si inscrive in una relazione con il divino, con la divinità. Unirsi all’altro, per me significa cominciare a unirsi al divino. Il divorzio, la separazione rispetto al divino, porta a una violenza esistenziale: l’unione spirituale con il divino permette l’equilibrio e la serenità interna, permette la pace interiore, che si trasmette tutto intorno a noi. Il cambiamento deve cominciare a livello intimo: cambia te stesso e anche la tua storia cambierà. In questa tradizione – che è quella anche di altre rivelazioni – tutto comincia dall’io, dalla persone, da una relazione serena con il divino. Il fallimento a livello della trascendenza rischia di avere una deriva violenta, una violenza familiare, interiore, o addirittura sociale, o la violenza internazionale. La costruzione della pace infatti comincia dalla pace con il Creatore. La diversità è un dato divino, che bisognerebbe coltivare, mantenere, e non già combattere ed eliminare. Il Corano mi dice che fra i segni della divinità, la creazione del cielo e della terra, c’è la diversità delle lingue e dei colori. Il Corano parla di polimorfismo genetico e culturale come segno della diversità e della divinità: la diversità degli uomini deve unirsi rispetto e intorno all’unicità di Dio, senza tirannia ma nella diversità. Se Dio l’avesse voluto, dice il Corano, avrebbe creato soltanto una comunità: abbiamo bisogno di una “teologia della diversità”, in questo senso, che colleghi i segni di Dio attraverso questa nuova configurazione della nostra umanità.
L’antropologia attuale della nostra umanità è un capitolo teologico che conferisce sostanza alla riflessione sulla complessità dell’essere umano, sull’unicità, sulla singolarità di ogni essere umano. Il Corano ci dice che tutta l’umanità è concentrata nell’individuo: chi uccide un’anima è come se avesse ucciso tutta l’umanità, perché l’individualità dell’umanità si trova nella dignità umana. Il Corano dice che bisogna dare dignità all’essere umano nella sua individualità, quali che siano le sue convinzioni filosofiche, metafisiche e religiose. Come trovarsi in una convinzione ferma ed essere allo stesso tempo tolleranti? Beh, questo è il dilemma. Io penso che, più lavoriamo sulla nostra convinzione spirituale, più saremo tolleranti: l’intolleranza è il dubbio, è la fragilità nei rapporti con la propria tradizione. Bisogna quindi lavorare su questo tipo di teologia della tolleranza, della diversità, proprio in un momento in cui la tensione identitaria minaccia l’umanità a causa delle disuguaglianze sociali, delle ingiustizie, delle crisi economiche, delle crisi politiche. La violenza è davanti a noi: come dunque inserire il dialogo interreligioso in una geo-strategia, in una geo-politica, o addirittura in una geo-teologia che possa prevenire la violenza?
Evidentemente, questo è il compito del religioso, ma anche dell’uomo politico, il compito di colui che interviene nel sociale, praticamente il compito di ogni individuo, in quanto la nostra umanità naviga sulla stessa barca, e quando questa barca affonda, affondiamo tutti noi. Non dobbiamo unirci contro il mondo, contro il pianeta, perché stiamo distruggendo la barca su cui navighiamo. L’ecologia, nel senso nobile della parola, deve abbracciare l’essere umano, la pianta e l’animale. Dobbiamo costruire una teologia ecologica che consenta di preservare il pianeta, di conservare l’umanità, per conservare la vita e la fede. Grazie.
ROBERTO FONTOLAN:
Ringrazio molto il dottor Oubrou perché in questo suo discorso ci sono affermazioni molto importanti e che aprono una storia di riflessioni di interesse reciproco. Ora, vorrei chiedere al nostro grande caro amico, Sua Eminenza il Cardinale Jean-Louis Tauran, di prendere la parola: è impossibile ricostruire, o darvi sinteticamente, il suo itinerario di incarichi come persona autorevole e prestigiosa. Ha servito il papa Giovanni Paolo II per molti anni, come Segretario del Consiglio Affari Pubblici della Chiesa, il Ministro degli Esteri, nella nostra visione repubblicana. Dal giugno 2007, è Presidente del Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Prego, Eminenza, e grazie ancora per essere qui con noi.
S. EM. CARD. JEAN-LOUIS TAURAN:
Chi crede, si incontra: penso che questa tavola lo dimostri, e specialmente le parole del Rettore Oubrou, perché quando si crede che ogni persona umana abbia ricevuto dal Creatore una dignità unica, quando si crede che ogni persona umana sia soggetto di diritti e di libertà inalienabili, quando si crede che servire il prossimo, cioè la persona che non abbiamo scelto, sia crescere in umanità, quando si crede che la Terra e le sue risorse, siano affidate alla gestione degli uomini perché le conservino e la facciano fruttificare per servire il bene comune, allora, sì, si può capire l’importanza della collaborazione tra i credenti in vista del bene comune, perché in realtà tutte le religioni professano queste fondamentali convinzioni. Non voglio però far nascere in voi il dubbio che tutte le religioni si equivalgano, no. Il dialogo interreligioso comincia sempre con l’affermare la propria identità religiosa, e per questo sono stato molto contento di sentire ciò che il Rettore Oubrou ha detto. Il dialogo interreligioso non può nascere dall’ambiguità: si tratta infatti di capire l’altro, il contenuto della sua religione, per vedere le ricchezze degli uni e degli altri, per vedere cosa possiamo fare assieme al servizio della società.
Noi Cattolici rispettiamo quanto è vero e santo nelle altre religioni, e anzi, riconosciamo che molti dei loro valori non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini, come dice la dichiarazione Nostra Aetate. Io sono tornato recentemente da un viaggio in Estremo Oriente, e pensavo che noi cristiani possiamo ricevere tanto dalle altre tradizioni religiose. Siamo stimolati, per esempio, dai nostri amici musulmani, nella preghiera, nel digiuno, e nell’elemosina: abbiamo tante cose da imparare da loro. I nostri amici indù, per esempio, ci dicono tante cose sulla meditazione e la contemplazione, i nostri amici buddisti ci aiutano a capire bene l’importanza del distacco dalle cose materiali e il rispetto della vita, ecc. Ovviamente, anche i seguaci delle altre religioni possono a loro volta trovare nella nostra fede cristiana valori per contribuire alla loro edificazione spirituale. Per non essere troppo lungo, menzionerei soltanto la concezione di un Dio con un volto umano, come dice Benedetto XVI nell’enciclica Spe Salvi, un Dio che ci chiama per nome, un Dio che si interessa alla nostra vita. Poi, la Chiesa Cattolica in se stessa ha l’universalità, l’unità della famiglia cristiana: questa dimostra che è possibile vivere la diversità nell’unità. Arricchiti gli uni gli altri da questo patrimonio spirituale, dobbiamo diventare migliori. Noi siamo credenti e cittadini, non dico credenti o cittadini: tutto ciò, dunque, deve arrecare vantaggio all’intera società.
Allora, viene spontanea la domanda: cosa possiamo fare noi credenti, cosa possiamo fare insieme, perché giovi al benessere materiale e spirituale di tutti? In questo mondo precario, al quale l’oratore precedente si riferiva, io vedo quattro, anzi, cinque compiti da portare avanti insieme. Prima di tutto, una pedagogia del vivere insieme. Siccome ogni religione si pratica nel quadro di una comunità, le nostre assemblee di preghiera, le attività sociali di ispirazione religiosa – penso alle nostre scuole – sono luoghi dove si apprende a vivere con gli altri, a rispettare la loro singolarità. Dai credenti, ogni persona deve trovare la parola che consola, che guarisce, che orienta. In secondo luogo, una proposta etica: noi credenti non dobbiamo avere paura di distinguere tra il bene e il male, perché c’è un bene e c’è un male. Non dobbiamo avere paura di ricordare che abbiamo diritti e doveri, e insieme dobbiamo abbattere i muri che la paura dell’altro ci ha fatto elevare.
Non si tratta di imporre ma di proporre, ed è esattamente ciò che si realizza con il dialogo interreligioso, con il dialogo ecumenico. Dimostriamo che è possibile vivere la differenza nella fraternità e si potrà passare poco a poco dalla paura dell’altro alla paura per l’altro: per me, questo è fondamentale. Se riconosco nell’altro un fratello, allora passo dalla paura dell’altro alla paura per l’altro: vuole dire che i suoi interessi, i sui diritti, sono i miei interessi, i miei diritti, e la società pluralistica non può che riposare su due realtà che per tutti i credenti sono inseparabili, la giustizia e la pace. Un altro compito che possiamo eseguire insieme è la passione di servire l’altro. Tutti sanno – anzi, qui vediamo che il volontariato mobilita numerose persone, soprattutto giovani, appartenenti alle religioni più varie – che insieme, con iniziative comuni, diamo un volto concreto all’accoglienza e alla solidarietà. Insieme, possiamo condividere il nostro rispettivo savoir faire, perché le nostre strutture di accoglienza siano luoghi di prossimità, dove chi soffre si senta accolto per come è e non per come si vorrebbe che fosse.
Vedo anche un altro compito: la formazione di una condotta da cittadini responsabili. Non è certo compito delle religioni proporre ai politici soluzioni tecniche, ma è loro compito formare la coscienza dei loro seguaci, affinché nessuno rimanga indifferente di fronte alle ingiustizie. Con una vigilanza disinteressata, i credenti non devono avere paura di criticare le iniziative che non contribuiscono al bene della persona, ma devono accompagnare in maniera costruttiva i responsabili politici, ricordando loro che, se tutto è politico, la politica non è il tutto dell’uomo. Infine, forse il compito più importante, la testimonianza religiosa. Il dialogo religioso è per natura dialogo essenzialmente spirituale: le Chiese e le religioni non possono accontentarsi di diffondere valori umanistici, non è il loro compito. I loro membri devono rendere conto della loro fede, della loro spiritualità, dimostrare che i credenti hanno trovato nella loro religione un significato e una speranza per oggi e per domani. E per noi, in questo mondo secolarizzato, è indispensabile che almeno Dio come interrogativo rimanga nell’orizzonte della società, non fosse altro perché non dimentichiamo che “non di solo pane vive l’uomo”.
Dato che siamo in Europa, vorrei indicare quattro campi dove i credenti dovrebbero unire le loro capacità e le loro strutture per migliorare la situazione. La città: dobbiamo essere tutti uniti per combattere due mali, l’anonimato e i ghetti. Poi, i momenti di svago: siamo la società del tempo libero, basta passeggiare per le strade di Rimini per rendersene conto. Ebbene, aiutiamo i giovani, soprattutto aiutiamoci gli uni gli altri, a coltivare il bello, a condividere emozioni e iniziative culturali di qualità: penso alla musica, allo sport. Insieme, possiamo farlo. L’educazione: è durante la scuola che si apprende la fraternità, il rispetto delle differenze. I francesi dicono che i compagni di scuola e la trasmissione dei fatti del passato contribuiscono a formare l’uomo, il credente e il cittadino. Infine, l’ospitalità: nelle società pluriculturali, plurietniche, accogliere, ascoltare, capire, agire. Io penso che nel mondo di oggi, se i credenti hanno un potere da esercitare, è quello che io chiamo “il potere del cuore”, cioè essere lì dove la gente soffre. E sappiamo che i credenti sono in prima linea, quando si tratta di occuparsi di grandi ammalati o di persone anziane.
Mi ricordo sempre ciò che mi è capitato di recente, in una piccola città vicino a Lodi: visitavo una casa che si chiama “Casa della Carità”, dove un sacerdote di settant’anni e una religiosa hanno riunito dodici handicappati e con 50 volontari delle parrocchie vicine si occupano di queste dodici persone. Lì c’era una tale Patrizia, madre di famiglia, che a quarant’anni era stata colpita da un ictus e da allora, praticamente, è prigioniera del proprio corpo. Comunica con l’esterno solamente con il movimento delle palpebre e del mento. Le hanno costruito un computer speciale, dove le lettere passano e lei riesce a scrivere delle parole. Mi aveva composto un piccolo discorsetto. Devo dire che, molto commosso, mi sono avvicinato per benedirla. E mi sono accorto che la sua testa posava su un foulard su cui c’era una frase ricamata: “Vivo perché qualcuno mi ama”. Penso che questo sia magnifico, non c’è bisogno di commento.
Detto questo, non posso non aggiungere un’altra considerazione. I credenti e le loro comunità si trovano di fronte a due crisi fondamentali: la crisi dell’intelligenza e la crisi della trasmissione. Penso che siamo di fronte a una gigantesca crisi dell’intelligenza, in quanto siamo super informati ma non sappiamo più ragionare: il rumore, gli spostamenti, la valanga della pubblicità, fanno sì che l’uomo, per esempio, non legga più, non pensi più, non sia capace di organizzare le sue conoscenze. Tutto, e tutto subito. Noi credenti abbiamo il dovere di coltivare, e possibilmente diffondere, ciò che si può chiamare la vita interiore. Pascal, sempre geniale, ha detto: “La più grande disgrazia per gli uomini è di non saper rimanere in pace nella propria stanza”. La preghiera, la meditazione, alimentate da una appropriata cultura religiosa, ci mettono in condizione di aiutare i nostri contemporanei a vivere con i valori e con un po’ più di maturità. Pensiamoci, riguardo a questa crisi dell’intelligenza.
In secondo luogo, la crisi della trasmissione. Voi che siete genitori, lo sapete meglio di me: i valori familiari, morali, religiosi non vanno più da sé. In Occidente, l’analfabetismo religioso è spaventoso: basta visitare una Cattedrale nei Paesi occidentali e sentire i commenti, dei giovani, in particolare, di fronte per esempio alla Torre di Babele, agli apostoli. Un’ignoranza totale. Non siamo solo di fronte a giovani, ma anche a persone mature che non hanno nemmeno più il senso di una certa dignità. Lo slogan che c’era sul muro della Sorbona, “E’ proibito proibire”, ha fatto sì che la polis, la città, assomigliasse ad una nave alla deriva. Senza una chiave di lettura religiosa, il mondo rimane in gran parte incomprensibile. Così si spiega questo ritorno al religioso: ma abbiamo oggi dei giovani che sono molto spesso eredi senza eredità e costruttori senza modelli. Noi credenti possiamo trasmettere la nostra eredità e proporre dei modelli.
Concluderò, dicendo che Dio ha il suo posto nella società: non esiste una civiltà che non abbia avuto e che non abbia ora una dimensione religiosa. E noi credenti dobbiamo avere il coraggio, la coerenza, di parlare a nome del nostro Dio e anche di proporre il nostro valore. Adesso mi rivolgo a tutti noi cattolici: si dice che siamo una minoranza, questo non lo so, ma so che siamo una minoranza che conta, e voi qui lo dimostrate. Dobbiamo quindi ritrovare un certo orgoglio di essere cattolici, perché apparteniamo a una grande famiglia, dove la santità è molto più importante di tante nefandezze di oggi. E quindi, dobbiamo ricordare questo grande patrimonio spirituale che abbiamo e che dobbiamo trasmettere, e pensare sempre che se Dio ci ha piantato in questo mondo oggi, è in questo mondo che dobbiamo fiorire. Terminerò con una frase di un vecchio retore romano, Seneca: lo cito in latino perché è bellissimo, poi traduco. Diceva Seneca: “Multa non quia difficilia sunt non audemus, sed quia non audemus sunt difficilia”. In italiano: “Molte cose non osiamo fare, non perché siano difficili, ma sono difficili perché non osiamo farle”. Allora, la mia ultima parola sarà: osiamo. Grazie.
ROBERTO FONTOLAN:
Io ringrazio di cuore sua Eminenza per le tante cose, soprattutto perché quest’ultima parola, osiamo, mi ricorda la conclusione di un celebre discorso di don Giussani qui: “Vi auguro di non stare mai tranquilli”. Poi, le tante cose che ha citato, anche come invito all’impegno: i giovani sono eredi senza eredità, costruttori senza mattoni. Ci sono tante cose che sono state dette questa mattina: io volevo sottolineare una espressione che ha usato il dottor Oubrou, sul tema della tradizione, che va un po’ in controtendenza con quello che crediamo normalmente. Lui ha detto: “Quanto più uno è radicato, tanto più è aperto”. Questa è una grande sfida per la mentalità corrente. Così, concludendo, vorrei anche ringraziare e rendere omaggio a quella che è una grande tradizione portata qui dal Reverendo Habukawa, al quale ci lega tanto affetto e tanta amicizia. Le cose che ha detto circa l’apertura del cuore al mondo fenomenico e all’osservazione che diventa atteggiamento compassionevole – l’imbattersi nella realtà che richiama la sua struttura sottostante, il logos – sono espressioni e temi sui quali noi, con il Meeting, cerchiamo di lavorare. Io sono molto grato a tutti voi per l’attenzione e ai nostri tre ospiti. Grazie, buona giornata.
(Trascrizione non rivista dai relatori)