CHE COSA SIGNIFICA “CERCARE” L’ESSENZIALE? LA NATURA UMANA COME DOMANDA DI SENSO

Andrea Bellantone, professore di Filosofia moderna e contemporanea, Institut Catholique de Toulouse; Costantino Esposito, professore di Storia della filosofia, Università Aldo Moro, Bari. Modera Davide Perillo, giornalista

Cercare il senso di sé e del reale non è un’attività tra le tante nella vita degli esseri umani, ma costituisce la “postura” fondamentale del nostro stare al mondo. La ricerca dell’essenziale non è mai compiuta una volta per tutte, né può accontentarsi di spiegazioni teoriche stereotipate, ma è una domanda ogni volta riaccesa dall’impatto con la realtà. E le risposte essenziali, da parte loro, non annullano mai queste domande: al contrario, le riaprono continuamente, proprio per poter scoprire e riscoprire il senso nelle pieghe dell’esperienza quotidiana.

CHE COSA SIGNIFICA “CERCARE” L’ESSENZIALE? LA NATURA UMANA COME DOMANDA DI SENSO

CHE COSA SIGNIFICA “CERCARE” L’ESSENZIALE? LA NATURA UMANA COME DOMANDA DI SENSO

Giovedì 22 agosto 2024 ore 19:00

Sala Gruppo FS C2

Partecipano:

Andrea Bellantone, professore di Filosofia moderna e contemporanea, Institut Catholique de Toulouse; Costantino Esposito, professore di Storia della filosofia, Università Aldo Moro, Bari.

Modera:

Davide Perillo, giornalista

 

Perillo. Buonasera, benvenuti a questo incontro. Direi che più il Meeting va avanti e più ci stiamo rendendo conto che la domanda sull’essenziale non è una delle domande, neanche una delle domande più importanti, ma per certi versi è “la” domanda. C’è qualcosa di così legato alla nostra natura, di così innestato nella nostra umanità che abbiamo bisogno di guardarla di continuo, di viverla, perché è “la” questione più importante, è “la” domanda imprescindibile, la domanda di senso, di significato. Perché vale la pena? Che senso ha? Il Papa ha adoperato esattamente questo aggettivo, imprescindibile. È bello poter renderci conto per noi di avere la possibilità di fare il cammino alla scoperta dell’essenziale insieme, perché il titolo del Meeting, avete visto ha il verbo al plurale: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora che cosa cerchiamo?”. Poterlo fare insieme stasera ci dà la possibilità di un altro passo. Con i due ospiti che vi presento e che vi prego di salutare, di accogliere con un applauso, partendo da Andrea Bellantone che è professore ordinario di Filosofia Moderna e Contemporanea alla Facoltà di Filosofia de l’Institut Catholique di Tolosa. Lui dirige la cattedra di insegnamento Ricerca di filosofia del cristianesimo ed è membro della sezione terza Filosofia e Teologia dell’Accademia Cattolica di Francia. E noi siamo… (applauso) prego, ci sta, è un segno di gratitudine così come è un segno di gratitudine salutare invece un amico che conosciamo da tempo perché è un amico di lunga data del Meeting, che è Costantino Esposito, lo sappiamo, ordinario di storia della Filosofia dell’Università di Bari e nostro amico, più che amico da sempre. Con loro stasera abbiamo l’opportunità di riflettere sul titolo del Meeting, per certi versi, su che cosa vuol dire ricercare l’essenziale. Badate bene, riflettere non in astratto, ma riflettere sull’esperienza che facciamo di questa domanda che, come dicevamo, è innestata nella nostra vita, nella nostra umanità. E allora volevo partire da Andrea chiedendogli, anzitutto, questa cosa: che cosa è l’essenziale, ma soprattutto, è possibile in qualche modo dare una definizione, racchiuderlo in una definizione?

Bellantone. Allora, innanzitutto grazie, per me è un’emozione particolare essere con voi al Meeting questa sera, la prima volta naturalmente, e scopro una realtà che mi appassiona e al tempo stesso mi invita a pensare insieme a voi attraverso l’incontro ora con Costantino e con Davide, quindi grazie della vostra accoglienza. Quando mi è stato proposto di intervenire, la prima cosa a cui ho pensato era esattamente il tentativo di definire l’essenziale. Ho pensato alla frase di un filosofo tedesco del XX secolo, probabilmente uno dei più importanti, anche se è discusso e per certi versi discutibile, ma questa frase mi sembra una buona apertura per il nostro discorso. Il filosofo è Martin Heidegger e l’espressione di Heidegger è “l’esserci è la sua apertura”. L’esserci in questione siamo noi, siamo gli esseri umani. Allora, non è esattamente una definizione nel senso classico dell’essenza dell’uomo, esattamente perché la parola che mi interessa è la parola apertura. Quel che l’uomo è, se seguiamo questa pista di Heidegger, è essenzialmente essere aperto. Potremmo dire anche essere in relazione. Essere in relazione con il mondo, essere in relazione con gli altri. E, e vado un po’ al di là di Heidegger, o almeno della lettera, essere in relazione con la trascendenza, con la T maiuscola. Io comincerei da questa definizione dell’uomo che ci aiuta anche a comprendere che se cerchiamo l’essenziale non lo dobbiamo cercare in qualcosa di definitivo, compiuto, e che questa ricerca dell’essenziale non ci deve fare ripiegare su noi stessi ma ci deve in qualche misura fare amplificare la nostra relazione con un mondo e con una realtà che ci oltrepassa. Come dicevi tu, Davide, prima di domandare, noi siamo apertura nell’esperienza più semplice da un punto di vista esistenziale. Quello che facciamo tutti, direi, dalla nostra nascita è la nostra esperienza di essere dei viventi incarnati. Essere dei viventi incarnati vuol dire avere un corpo e il corpo è esattamente il contrario della chiusura. La filosofia contemporanea ha utilizzato spesso per definire il corpo l’espressione “esposizione”: il corpo è esattamente quel che ci espone, cioè ci rende sensibili e aperti alla realtà intorno a noi, ma ognuno di noi sa perfettamente che il corpo comincia, cioè la nostra vita incarnata comincia da un momento di cui non abbiamo una memoria nel senso proprio, il momento del nostro concepimento, il momento della nostra nascita, che sono esattamente dei momenti di apertura. Ci aprono a un’alterità che ci oltrepassa, quella dei nostri genitori. E al tempo stesso il nostro corpo, la nostra vita incarnata, sappiamo perfettamente che ci spinge verso un orizzonte, quello della morte, ma anche, per chi crede, al di là della morte, che è evidentemente un orizzonte aperto. E durante questo intervallo più o meno lungo, che è l’intervallo della nostra vita incarnata tra la nascita e la morte, nel mezzo il nostro corpo è esattamente operatore e esperienza costante di apertura, il cui simbolo, penso, più evidente per ciascuno di noi sia la nostra pelle, sia la nostra sensibilità, sia il nostro essere in ultima analisi costantemente nudi. Io non so se questa è una definizione di che cosa è essenziale, ma direi che nella parola d’apertura e nell’esperienza del corpo, appunto, c’è almeno una traccia per cercare che cosa è per noi la verità ultima della nostra esperienza e io credo che sia particolarmente importante, ma ne parleremo sicuramente nel corso della nostra conversazione, ricordare questo essere essenzialmente aperto dell’essere umano che non comincia quando poniamo delle domande esplicite, ma comincia in qualche misura quando cominciamo a tastare il mondo, a incontrarlo e a scoprire appunto che c’è qualcosa che ci oltrepassa con cui siamo in relazione strutturale e costitutiva già da sempre e lo saremo per sempre e io credo che quella frase di Heidegger ci aiuta ad aprire la nostra conversazione.

Perillo. Costantino, ti ci ritrovi in questa apertura di cui si parla?

Esposito. Mai chiedere a un filosofo di definire una cosa perché se il filosofo è onesto ti dirà: questa cosa è talmente importante che è difficile definirla. Ma dobbiamo definirla perché la definizione non è semplicemente una questione intellettuale; è un capire come stanno le cose. Lo dicevano i filosofi classici: l’essenza dell’uomo, per esempio, è di appartenere a un genere, il genere vivente, e che poi muore, animal dotato di logos, cioè di parola, di ricerca del senso, di razionalità, animal razionale. Però è vero perché quando tu mi chiedi di definire, io sono un po’ in difficoltà non perché non conosco le diverse possibili definizioni che si possa dare dell’essenziale nella vita di una persona, ma perché io vorrei andare a quello che viene prima della definizione e grazie a cui posso dare la definizione. Cioè: il problema della definizione dell’essenziale pesca, si radica nella possibilità di fare esperienza dell’essenziale. È proprio questo che nel formalismo della nostra cultura si è perso, le definizioni staccate dall’esperienza. E allora è facile che per molti la parola essenziale o è una parola imponente che dice un principio universale, però è come un monumento nei confronti della nostra esistenza, ma che non muove più dall’interno, oppure è un precetto: bisogna cercare l’essenziale, per esempio, e non il superfluo. Magari ci torneremo su questo. Opposizione, a mio modo di vedere, letale. Allora, mi riaggancio a quello che diceva Andrea e io direi che, proprio perché vogliamo cercare ciò che viene prima della definizione e grazie a cui possiamo tentare una definizione… – e attenzione anche dire che l’essenziale è indefinibile è una definizione, perché dire che è indefinibile vuol dire che ci apre a qualcosa che non controlliamo, ma che è presente, è vivente, tanto che possiamo dire: non posso definirlo, ma posso dire non posso definirlo perché ne avverto la presenza, l’imminenza o l’urgenza – allora, per stare al titolo, io dico che l’essenziale – partirei di qui – è qualcosa che noi non possiamo non cercare. È come il termine ultimo dell’esistenza dell’essere umano come domanda, no? E il domandare – che non è, appunto, il fermarsi e teorizzare le cose, perché si può domandare, anzi, più delle volte noi lo facciamo senza esplicitare la domanda, noi siamo domanda, non solo facciamo domande, possiamo farle perché siamo una domanda – è quella apertura, quella attesa di noi stessi, attesa di essere veramente noi stessi, senza cui noi non vivremmo in maniera essenziale.

Perillo. Ma se noi siamo, domanda, allora in qualche modo cercare l’essenziale, continuare a ricercare l’essenziale si esprime attraverso la vita, l’espressione della nostra umanità, cioè appunto non è un problema intellettuale. Lo chiedo prima a Costantino e poi torniamo su Andrea.

Esposito. Ma la questione del cercare è veramente una questione interessante, perché tutti noi crediamo di sapere già cosa significa cercare, no? E almeno, possiamo dirlo così, a livello fenomenologicamente elementare, cerchiamo qualcosa che non troviamo. Dove avrò messo gli occhiali? Ma dov’è il portafoglio? Ci manca qualcosa e quando quello che ci manca è qualcosa di sempre più non legato a un oggetto ma a un desiderio più profondo allora diventa ancora più urgente, ma al tempo stesso noi possiamo cercare non solo perché ci manca qualcosa, ma perché quello che ci manca ci attira; è strano, non c’è perché non lo possiamo definire, contenere, identificare, ma continua a richiamarci, è come una voce afona, che risuona, è un ultrasuono, è l’ultrasuono dell’esistenza che noi avvertiamo tacitamente, ma normalmente si dice che la cosa più problematica nella vita, la cosa più urgente nella vita, sia risolvere problemi, è il problem solving. Ed è vero perché la vita è un insieme di problemi e vivere significa, lo sappiamo tutti, affrontare questi problemi. Il problema del problema, però, qual è? Che noi tante volte non riusciamo – ma questo non si vede nella nostra vita personale, nella vita sociale, politica, nella vita delle nazioni – non riusciamo a risolvere dei problemi perché non li vediamo, non ci accorgiamo del problema e quindi perché non cerchiamo bene. Un’ultima cosa. Dire che la questione della vita è la domanda o imparare a cercare non vuol dire che non ci siano risposte o che sono più importanti le domande delle risposte, al contrario, noi siamo appassionati al domandare, alla ricerca perché vogliamo delle risposte. E rilancio: quando troviamo una risposta vera, quella risposta non annulla la nostra ricerca, ma la rilancia.

Perillo. Andrea, e questa ricerca continua?

Bellantone. Riprendo evidentemente delle cose che ha detto anche Costantino. Un’espressione che ho utilizzato all’inizio quando dicevo che siamo apertura e siamo apertura costante a qualcosa che ci oltrepassa. Nell’espressione oltrepassare, ancora una volta prima di qualsiasi riflessione intellettuale credo che questo oltrepassare sia un’esperienza vissuta, come dicevi tu. Nel mese di agosto mi ricordo le mie letture, stavo dicendo, giovanili, quando ero più giovane; tra queste letture c’è qualcosa che mi è rimasto sempre in mente, uno scrittore tedesco del XX secolo che descrive la sua esperienza nel guardare un cespuglio. Guardando il cespuglio si rende conto che più guarda, più ci sono cose da vedere. Nel piccolo, è un’esperienza che ciascuno di noi fa quando guarda durante la notte un cielo stellato. Più si guarda, più si scopre che ci sono cose da vedere e ciascuno di noi sa perfettamente che più si legge un libro, più ci sono cose da scoprire. Più si parla con una persona, più ci sono cose da scoprire, no? Più si viene al Meeting anno dopo anno, più ci sono cose da scoprire, come un insegnante. Più insegna la stessa cosa, più scopre delle cose. Queste esperienze sono assolutamente quotidiane e la sappiamo anche con noi stessi. Più vivo con me stesso, più ci sono cose da scoprire nel mistero che sono. In breve, la realtà è qualcosa che ci oltrepassa costantemente e quindi è inevitabile che continui attirare, stavo dicendo la nostra curiosità, in realtà che continui a dilatare la nostra apertura, spingendosi costantemente verso di lei. Io credo che una delle cose fondamentali, ovviamente, della nostra esperienza umana è esattamente alimentare questa apertura, vale a dire questo rimanere all’ascolto di una realtà che continua a sorprenderci, esattamente perché è un evento, diciamo, sovrabbondante in ogni istante. E credo che anche il cristiano sappia questa cosa di fronte alla rivelazione, che è una verità sovrabbondante, che non è mai sperimentata fino alla fine. Il principio di tutto è questa verità sovrabbondante e questo si manifesta in ogni esperienza umana, da cui il fatto che è evidente che la responsabilità umana è quella di rispondere, perché la risposta è il modo in cui in fondo noi ci posizioniamo, prendiamo responsabilità rispetto alla realtà. Ma noi dobbiamo sapere che questa risposta, che sto dicendo al singolare ma bisognerebbe dire al plurale, è una risposta inevitabilmente necessaria ma insufficiente. E quindi rispettare anche il fatto che questo cercare è un cercare plurale, è pluralista. Anche questo la storia ce lo dimostra, le risposte umane che non sono arbitrarie, che sono argomentate perché sono vissute, perché hanno un fondamento, le risposte umane alle questioni che ci toccano sono le risposte plurali, infatti noi abbiamo molto da apprendere da questa pluralità e da quello che la storia ci può insegnare. E sono plurali anche nel senso culturale, interculturale. Alla radice di questo insaziabile desiderio di dare delle risposte che non sono mai definitive, non c’è una sorta di arroganza umana di inventarsi la realtà. È esattamente il contrario. È la realtà sovrabbondante, ricca, misteriosa, che non smette di sollecitare la nostra attenzione e di dilatare la nostra apertura. Ora, se la domanda del Meeting è una domanda fondamentale per noi è perché in qualche misura questa ricerca dell’essenziale è troppo spesso distratta o rischia di esserlo. Voglio dire, non staremo qui a porci la questione che cosa vuol dire cercare l’essenziale se fosse una sorta di cosa automatica, se non ci fosse, in breve, qualche ostacolo nella nostra esistenza, in generale come esseri umani, dispersione, distrazione, lo vedremo magari e se non ci fosse qualche ostacolo a questa apertura, a questa curiosità, a questa ricerca che è connaturata nella nostra natura, se non ci fosse qualche ostacolo specifico alla nostra epoca, specifico all’umanità che siamo noi, gli uomini di questo tempo e credo che ci dovremmo anche interrogare su questo punto

Esposito. Posso dire una cosa?

Bellantone. Anche due.

Esposito. Vediamo se siete d’accordo, perché in questa locuzione la ricerca dell’essenziale è un “doppio genitivo”, si dice in grammatica, è un genitivo oggettivo, cioè l’essenziale è l’oggetto che cerchiamo, ma è anche un genitivo soggettivo, cioè la ricerca che è l’essenziale; cioè l’essenziale non dobbiamo pensarlo come una caccia al tesoro oppure risalire a sorgenti gnostiche, per cui andiamo a disboscare la selva dell’inessenziale per arrivare alla pepita d’oro. Non funziona così, perché è la ricerca che già fa parte dell’essenziale. Cioè non è che prima c’è la ricerca, almeno per l’essere umano eh, prima c’è la ricerca e poi alla fine si arriva all’essenziale. No! L’essenziale è qualcosa che va continuamente ricercato. Cosa ne dici?

Bellantone. Che la ricerca è l’essenziale e questa ricerca non è una ricerca intellettuale, questa ricerca è la nostra esistenza e questo essenziale in cui l’essenziale è la ricerca lo viviamo costantemente, ciascuno di noi e non semplicemente i filosofi – anzi – né gli intellettuali, lo viviamo nella nostra esistenza più quotidiana; ecco perché ho cominciato dall’esempio del corpo perché uno non pensa che il corpo stesso sia un’esperienza vissuta, come dicevi tu, dell’essenziale, che il corpo stesso sia ricerca. Preparando, come sapete, il nostro incontro, sollecitato da Costantino, ho riflettuto sul modo in cui una coreografa contemporanea, Anne Teresa De Keersmaeker, descrive cosa ha scoperto lei attraverso l’esperienza della danza, quindi l’esperienza, particolare, certo, del nostro corpo. Ha scoperto che il nostro corpo – dice lei – essenzialmente è un’apertura in verticale e un’apertura in orizzontale, cioè che nel nostro corpo stesso, in quanto apertura, in quanto gesto che va verso l’alto e verso gli altri, noi sperimentiamo la ricerca. Il che vuol dire l’apertura, sperimentiamo l’incontro, da questo punto di vista sono perfettamente d’accordo con te ovviamente, cioè che la ricerca è esistenza, è la nostra vita stessa, non è una performance intellettuale, anche se poi prende anche delle forme intellettuali come quelle che stiamo esercitando noi in questo momento; cioè la cosa che mi preme è che la ricerca è la vita, e la ricerca è la vita e la vita è ricerca perché la vita è questa apertura, questa ricerca di incontro con gli altri, con la realtà intorno a noi e con Dio, cioè con la trascendenza. E questo lo viviamo sin dal primo gesto del nostro corpo, che è appunto un’apertura.

Esposito. Questa questione della ricerca – un attimo soltanto, scusami, tolgo il lavoro al moderatore… – è importantissima per me perché noi abbiamo un’immagine di ricerca sospesa, che uno cerca come col lanternino perché non trova mai. No, noi cerchiamo perché troviamo, anzi perché siamo trovati, cioè la ricerca non è un andare a tentoni, ci sono anche delle ricerche al buio naturalmente, ma la ricerca è come quella disponibilità a farsi toccare dalla realtà, quindi è solo perché uno intravede una risposta che può cercare.

Perillo. La domanda che volevo fare è legatissima a quello che ha appena detto, Costantino, perché noi stiamo parlando di accoglienza, disponibilità, domanda, e sembrano tutti termini che hanno dentro quasi una passività, per certi versi. Come se bastasse vivere, mentre invece evidentemente non è così. Tant’è che il riferimento alla coreografia che dicevi tu prima, quindi alla creatività in qualche modo della nostra ricerca, apre un’altra prospettiva. Ecco, cosa vuol dire la creatività in questa accoglienza? Cioè, cosa c’è di nostro, totalmente nostro, in questa dinamica, in questi passaggi? Lo chiedo prima a te, Andrea.

Bellantone. Per reagire così rapidamente, non tanto con l’immagine della danza, anche perché io sono abbastanza scadente come danzatore e quindi non l’ho mai fatta veramente in termini diretti, però ho fatto l’esperienza della lettura… noi sappiamo perfettamente che leggere non vuol dire essere passivi, anche se sicuramente è un’esperienza di accoglienza. Quando leggiamo un romanzo, quando leggiamo un testo di filosofia, quando leggiamo una poesia, è un’esperienza di accoglienza, vale a dire che abbiamo l’impressione di essere aperti, di non fare “niente” se non recepire quello che leggiamo. Ma sappiamo perfettamente che mentre leggiamo un romanzo non siamo lì semplicemente a recepire; lo stiamo ripetendo nella nostra mente. Stiamo ripetendo le immagini, stiamo immaginando, anzi, qualcosa che è totalmente nuovo e totalmente personale. In questa esperienza più elementare – perché l’esperienza della lettura da un punto di vista culturale è esattamente l’esperienza della ricettività – noi ci facciamo aperti, riceviamo la realtà, in questo caso la realtà culturale, perché è realtà culturale in alcuni casi, che è enorme condensata in un romanzo, “I promessi sposi”, per citare un romanzo che abbiamo letto tutti in Italia, magari a frammenti, durante le scuole e così via. Il problema è che mentre leggiamo, essere ricettivi vuol dire essere creativi. Esattamente come, immagino, spero, mentre noi parliamo, coloro che ci stanno ascoltando in realtà sono creativi; ciascuno di voi reagisce con quello che sa, con le sue obiezioni, con il fatto che le cose lo interessano, quindi le ricrea all’interno della sua mente. Allora io penso che essere in relazione aperta alla realtà non vuol dire, appunto, essere passivi, vuol dire in qualche misura reagire, ricrearla, e credo che sia l’essenziale dell’atteggiamento umano. La parola “attività” è una parola interessante ma al tempo stesso pericolosa perché può far pensare all’attivismo o all’atteggiamento prometeico, secondo cui essere in relazione buona con la realtà vorrebbe dire imporsi alla realtà. Io preferisco l’espressione “partecipazione”. Quando leggete un libro, come me, insomma, o chiunque, voi partecipate nella lettura a quel che il libro dice, e per partecipare bisogna fare, cioè bisogna in qualche misura ricreare, esattamente come quando guardiamo un film o ascoltiamo della musica. Cioè, tra ricevere e essere creativi non c’è opposizione e ciascuno di noi lo sa. Io, se sono creativo in questo momento, non lo potrei mai e poi mai essere se non avendo ricevuto una cultura e, al tempo stesso, non l’avrei potuta ricevere se non avendola ricevuta a modo mio e, appunto, in modo creativo, come ho ricevuto la tua domanda e ho reagito in modo creativo. Quindi c’è questa connessione tra essere aperti e essere creativi, e forse la creatività è la risposta, sono le risposte, la creatività, cioè la nostra capacità di fronte alla realtà di fare delle domande e produrre, utilizzo questo termine forse non ideale, delle risposte.

Perillo. Ma quindi prendere sul serio questa domanda, affrontarla questa ricerca, cambia in qualche modo il rapporto con la realtà. Cambia il rapporto, cambia anche il mondo che abbiamo intorno. Costantino.

Esposito. Permettimi di ritornare ancora una volta su questa parola, la “passività”, perché anche qui noi siamo installati in un canone linguistico che è già dualista: il soggetto è l’oggetto, l’io è la realtà, la passività è l’attività. Nell’esperienza, invece, le cose sono unite, cioè nell’esperienza non è che quando uno cessa di essere passivo diventa creativo, ma diventa creativo in quanto è passivo. Facciamo questo esempio: qual è la passività più rilevante per noi? È il fatto che siamo nati. Eppure la nascita è come quel germe fantastico e plenipotente di tutta l’attività che ci potrà essere. Non solo, ma la passività è anche il fatto che siamo dipendenti da un evento, dagli eventi. Il primo evento è la nascita, dall’evento del capezzolo di nostra mamma che ci guarda e ci dà il latte da mangiare, oppure del fratellino o della sorellina, oppure del fatto che succede qualcosa che ci dà dolore. Noi siamo sempre –  uso una parola che ama molto Andrea e di origine levinassiana – siamo esposti all’evento. Addirittura Levinas dice che siamo ostaggi dell’evento, tanto noi siamo passivi, cioè siamo dipendenti da ciò che accade, ma è proprio lì che comincia la creatività, perché ciò che accade può essere un caso muto, insignificante. Invece è veramente un evento, si instaura qualcosa nell’essere perché è qualcosa che mi eccede, mi trascende, che non ho fatto io, sia ben chiaro, ma mi tocca e quando mi tocca mi interpella e in qualche maniera chiede di me. Ecco, la creatività, sono d’accordissimo che non è la creatività pirotecnica, non è la performance, no? È anche quella, eh? Ma la creatività è, appunto, un dare ospitalità all’evento, a ciò che accade. E quindi, tu mi chiedevi, mi sono perso…

Perillo. La domanda è: che impatto ha, quindi, come cambia il rapporto con la realtà e quindi il mondo che ci sta intorno

Esposito. Cambia perché il mondo non è più semplicemente qualcosa che sta lì fuori. Facciamo un esempio in questo momento, per chi ci sta vedendo in streaming o ci vedrà, chiedo di immaginarlo: ci siamo noi tre e ci sono tante persone sedute, mi sembrano molto attente, che stanno partecipando al nostro lavoro filosofico. Che cos’è la realtà per me in questo momento? È unicamente voi che siete lì fuori, queste mura, il moderatore, il mio amico e collega, la sedia, il mio corpo? Naturalmente. Però la realtà si dà prima ancora di essere lì fuori. È qualcosa che è lì fuori, ma io, guardandovi e facendo attenzione a voi, come spero voi facendo attenzione a noi, mi sento, avverto di essere provocato, di essere chiamato; e cambia tutto. Cambia tutto nel rapporto con la persona amata, come nel rapporto con il collega, con il compagno di partito, con Kamala Harris piuttosto che con Trump. Se la realtà è semplicemente una cosa che io posso catalogare a seconda delle mie ideologie, dei miei presupposti, delle mie preferenze – che ci sono, non è che posso eliminarle – o se la realtà, al fondo, l’essenziale della realtà, è un invito a me. E solamente quando io mi sento chiamato dalla realtà do alla realtà la possibilità di parlarmi, cioè di farmi capire se è significativa per me. Ecco, direi così che l’essenziale, la realtà diventa più essenziale, forse lo tradurrei così, diventa veramente significativa per me, cioè dotata di senso.

Bellantone. Prendere le cose da un altro angolo per tentare di reagire, risuonare a partire da quello che ci hai chiesto e da quello che ha detto Costantino. Se uno guarda la storia umana, storia culturale umana, dall’alto, dalla luna, vede una molteplicità di forme, attraverso le quali gli uomini nella storia hanno configurato quello che i filosofi chiamano il loro essere al mondo, la loro apertura. Se uno la guarda in modo microscopico nel momento della nascita –  anche lì i filosofi e i poeti si sono molto interrogati sul primo grido del bambino, anzi, del neonato, che col primo grido, che non è un grido di dolore, stupefazione, dolore, angoscia, sorpresa, non lo sappiamo esattamente dire, è tutto quello condensato – questo primo grido, che, avete capito, è la prima reazione, è la prima risposta, è la prima risonanza di fronte alla realtà, quel grido è un’attività, è qualcosa di creativo; questo grido è assolutamente individuale per ciascuno, è impossibile, probabilmente sì, se li registriamo poi troviamo che ci sono delle frequenze simili, ma capite quello che voglio dire, è assolutamente individuale. Questo dice una cosa: che la realtà ci sorpassa tutti, nel microcosmo della nostra individualità e nel macrocosmo della storia ci sorpassa tutti, che il modo di rispondere, reagire a questo evento che ci sorpassa a tutti, è un modo assolutamente ogni volta, per gli individui come per le culture storiche, individuale, particolare, è una sorta di modulazione del canto sempre diverso dell’umanità che risponde alla realtà e in funzione del modo in cui noi rispondiamo, noi ricreiamo la realtà, ogni volta la stessa come evento, ogni volta nuova per ciascuno di noi, non semplicemente come individui, ma anche come comunità storiche. Io credo che per la nostra comunità storica, in quella che si chiama la modernità tarda o la postmodernità, per tornare a uno dei temi di mettere in situazione questa cosa, rispondere alla realtà vuol dire innanzitutto separarci dalle ragioni di distrazione e dispersione che sono quelle specifiche del nostro tempo, nel tentativo di rimodulare la nostra risposta alla realtà in modo nuovo. Ecco perché sono particolarmente attaccato alla nozione di creatività umana. Bisogna assolutamente trovare una nuova forma di essere al mondo, un nuovo canto dell’umanità storica, una nuova figura del nostro essere al mondo, perché le sfide di fronte alle quali ci troviamo sono epocali, e il Meeting lo mostra, dall’intelligenza artificiale e così via, ma soprattutto perché ciascuno di noi, credo, o quantomeno è una sensazione o un sentimento molto diffuso nella cultura e nella letteratura contemporanea, ha l’impressione che effettivamente la gran parte del tempo noi siamo nell’inessenziale e, di conseguenza, non possiamo né ricevere passivamente, perché non ce ne rendiamo conto, né reagire attivamente – ciascuno ha un modo suo, ogni cultura ha un modo suo – perché in qualche misura c’è come un fenomeno che ci sta privando della capacità di accogliere o di essere sufficientemente disponibili all’accoglienza e forse questa è la nostra sfida oggi.

Perillo. Questa distrazione, dicevi prima, dispersione, in qualche modo ci chiama a liberarci da qualcosa di superfluo, perché anche qua ritorna la parola “superfluo”, veniva fuori prima, o anche il ritrovarci inoperosi a volte in questa ricerca, quindi distratti, quindi tirati via dalla realtà, da quello che ci sta intorno, dallo scrollare sul cellulare, o persino queste dinamiche in qualche modo sono un richiamo a questa ricerca, o sono soltanto qualcosa da censurare, da cui uscire?

Esposito. La questione del rapporto tra l’essenziale e il superfluo è una cartina di tornasole per capire come tutto questo discorso che abbiamo fatto finora si gioca oggi nell’epoca – con una parola che ho frequentato – del nichilismo realizzato; attenzione perché per nichilismo normalmente si intende, come posizione nichilista, quella classica cioè di coloro che dicono: non ci sono ideali, Dio è morto, i valori… ma nel nichilismo contemporaneo non è proprio così. Il nichilismo contemporaneo è morale, è moralistico perché riduce l’ideale a un dovere da realizzare; non ho nulla contro i doveri, anzi credo di averne come tutti noi, ma se io identifico l’essenziale con un dovere da realizzare, l’ho già perso e l’ho già veramente, in quel caso, relativizzato alla mia capacità di essere coerente. Invece la cosa più interessante per me è che l’essenziale, se c’è, lo scopri nel superfluo, non tirandolo via dal superfluo, è nelle pieghe del superfluo che tu capisci che cosa conta. Per questo, anche il fatto che – sono ormai discorsi da bar, cioè da sala professori – i ragazzi stanno sempre con i telefonini, sono sempre distratti, è tutto assolutamente vero. Però se la noi impostiamo così la questione, l’essenziale è già perso. Sì, potremmo dire, i ragazzi dovrebbero per un’ora al giorno, come disse una volta una famosa professoressa sul Corriere della Sera, su Repubblica, non ricordo… la soluzione sarebbe di per un’ora al giorno mettere sotto chiave i cellulari e leggere Dostoevsky. Ma non basta dirlo perché i ragazzi leggano Dostoevsky. Devono capire che è essenziale per loro Dostoevsky. Cioè l’essenziale nell’epoca del nichilismo non è più un nostro bisogno. È un principio, un dovere glorioso ma vuoto. Come diceva Nietzsche, quando diceva bisogna filosofare col martello, cioè: l’essenziale è una grande statua, ma se vai col martelletto a colpirla senti che è cava, è vuota, non è consistente. Invece la cosa più interessante secondo me è che… perché l’umano è tale – forse azzardo troppo, ditemelo voi – che niente va perso, niente. Anche la distrazione, addirittura, diceva Agostino, anche il nostro male, anche il nostro peccato, teologicamente parlando, non è inutile, nel senso che il problema non è non distrarsi più e invece, un po’ moralisticamente, badare all’essenziale, ma capire: quella distrazione mi soddisfa veramente? Perché è soltanto se io capisco se effettivamente quel distrarmi mi compie o non mi compie, che allora nascerà come un contromovimento e ri-capirò: allora, non era questo, non è questo quello che veramente mi può compiere, cioè l’essenziale. Da questo punto di vista, anche quello che Pascal chiamava il divertissement, cioè la distrazione, non è una cosa alternativa all’essenziale, lo è, sulla carta lo è, ma può essere paradossalmente una via per andarci a fondo e per recuperare quello che ci può veramente soddisfare nel nostro bisogno.

Bellantone. Sono ovviamente d’accordo con quello che diceva Costantino. L’opposizione tra essenziale e superfluo dà un accento moralistico tutto questo, come se l’essenziale fosse qualcosa che si trova al di là, si sa esattamente dove, della realtà vissuta, quotidiana di ciascuno di noi. Se dicevo che c’è qualcosa che ci mette in uno stato di dispersione, questo è vero di ogni umanità storica, non abbiamo nessun peccato supplementare noi contemporanei, non siamo peggiori degli altri, non viviamo la vita peggio degli altri, queste cose non credo in modo particolare. Però abbiamo delle forme di distrazione e dispersione particolari della nostra epoca, Costantino ne ha citata un’altra e siamo tutti colpevoli, la gran parte di noi è molto disperso nell’informazione, ma che non ci dà nessuna esperienza perché ci scivoliamo sopra, nel consumo che non è un incontro con le cose, con la realtà, perché come sappiamo perfettamente non lo viviamo, nello spettacolo, sapete perfettamente che mi sto riferendo alle tre espressioni: società dell’informazione, società del consumo, società dello spettacolo, va bene, tutte queste cose le sappiamo. Il punto non è che salvarci da questo superfluo ci porterebbe in una sorta di realtà – utilizzo il termine in modo negativo – “metafisica”, al-di-là, no, no. Liberarsi da questo superfluo, se ci riusciamo, anche approfittando dell’insoddisfazione che proviamo di fronte a questo superfluo, ci riporta semplicemente alla nudità e alla verità della nostra esistenza umana. Ecco perché mi piaceva riportare la questione della ricerca dell’essenziale non tanto a speculazioni filosofiche, anche se mi rendo conto che per ragioni professionali un pochino ne stiamo facendo, ma riportarla alla più semplice esperienza del nostro corpo. Credo che ciascuno di noi, almeno a me è capitato spesso, guardando un film o leggendo un romanzo, quell’esperienza ci sospende dalla distrazione e dalla dispersione della vita quotidiana e ci rimette in condizione… Bergson ci dice in uno dei suoi libri che leggere un romanzo ci rimette in presenza di noi stessi. Sapete perfettamente, quando leggete un romanzo e l’autore del romanzo vi descrive un fiore, il movimento di un corpo, un abbraccio, quando un poeta descrive che cosa vuol dire, per esempio, l’esperienza del tempo, della nostalgia e così via, in qualche misura è come, non se ci portasse lontano dalla realtà, ci rimette esattamente in quella realtà in cui da sempre siamo, la più semplice, ma in cui purtroppo la gran parte del tempo non siamo, esattamente perché siamo in quello che potremmo chiamare il superfluo, a condizione di non identificare il superfluo moralisticamente con la nostra esistenza quotidiana. Ne abbiamo parlato in questi giorni chiacchierando tra di noi. Credo che molti di noi hanno fatto l’esperienza di vedere il film, l’ultimo, di Wim Wenders, “Perfect Days”, un giorno perfetto. E lì c’è quella che secondo me è la vera metafisica, quella buona, diciamo così, che non vuol dire per niente andare al di là del mondo, vuol dire avere un’occasione, per esempio, guardando un film, di vedere che cos’è la temporalità vera, quella che ci permette di incontrare le persone, quella che ci permette di fare l’esperienza vera e, da questo punto di vista, credo che cercare l’essenziale attraverso tutte le forme culturali non vuol dire trascendere la nostra realtà, ma vivere l’apertura all’evento di questa realtà, di questa esistenza che noi stessi siamo, nelle sue forme più semplici. Credo che anche sia il messaggio fondamentale della fede cristiana nel momento in cui ci insegna che non si tratta di immaginare un altro mondo, ma di vivere la vita che ci è stata donata come una vita buona, che ci è stata donata in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più oscuri – Costantino faceva un riferimento – anche quelli più drammatici che in realtà anche quelli sono delle occasioni per ritornare alla vita e noi tutti sappiamo perfettamente quanto il male, nel senso della sofferenza, sospendendo la distrazione, ci rinvia alla vita. E vi devo dire che a proposito delle esperienze del Meeting, per me, ieri quando sono arrivato, gli amici mi hanno fatto vedere una delle mostre, quella sull’hospice proposta da Russia Cristiana, e ne abbiamo parlato su questo video estremamente scioccante, nel senso positivo del termine, nel senso che apre, ovviamente, ci ricorda delle cose, di questa ragazzina malata terminale, che dice questa cosa che mi ha colpito, che evidentemente risuona nell’esistenza di uno di noi. Diciamo che non ci si rende conto della vita quando la vita è in eccesso, abbondante, no? Per lei invece, che la vita è contata, ma la sofferenza è inevitabilmente la rimessa nella vita, cioè ogni gesto, ogni movimento, ogni respiro, ogni incontro, diventa qualcosa di straordinario a cui corrispondere in modo positivo e creativo, e tra le altre cose questa ragazzina diventa – non conosco tutta la storia – fotografa. Cioè corrisponde in modo creativo alla realtà. E credo che ciascuno di noi sa esattamente che cosa vuol dire questa cosa. Cioè nel momento in cui, per esempio, la sofferenza ci colpisce o colpisce qualcuno vicino a noi, è in quel momento capiamo che la vita è una, è una volta, è un dono con tutte le sfumature di colori fino al nero che comporta, e il nostro compito fondamentale è essere aperti alla vita, vale a dire imparare e ricordare costantemente come viverla e abitarla in modo autentico. Io credo che sia questo il senso e l’apertura e la ragione per cui credo che in fondo cercare l’essenziale vuol dire cercare di fare quello che ciascuno di noi fa, cioè vivere la vita in modo autentico, pieno, e questa è la funzione fondamentale della cultura che non è riservata agli intellettuali, ma è esattamente il compito, se volete, la responsabilità di ogni essere umano dalla nascita fino all’ultimo momento della sua vita.

Perillo. La parola trascendenza è qualcosa che non porta fuori dalla realtà, ma al fondo della realtà, la si trova al fondo della realtà della propria vita, della propria disponibilità a seguire quello che succede, quello che hai davanti, fino in fondo.

Esposito. Se posso dire su questo, parto anch’io da una cosa che mi ha molto colpito in una mostra di questo Meeting, quella dedicata a William Congdon, perché a un certo punto della mostra, se non l’avete vista vedetela, Congdon con molta umiltà, nonostante la grandiosità di quello che dice, afferma che a un certo punto, nel vedere la natura, la realtà, e nel dipingerla, lui capisce che cosa possa essere l’occhio di Dio. Perché dice: l’occhio di Dio è quello che vede la realtà non come un insieme di dati, ma dinamicamente, la vede come emergere dal nulla, dal buio, vede il suo venire alla presenza. Giustamente era stato richiamato che questa è la stessa cosa che diceva Chesterton su San Francesco, che questa apertura meravigliosa alla natura di San Francesco non è perché i fiorellini sono belli – sono molto belli i fiorellini, no? – ma perché in ogni cosa della natura tu percepisci come il venire all’essere di ciò che c’è, il gesto creatore che lo ha fatto come altro da te e che te lo sta dando. Per questo, visto che tu dici “la trascendenza”, beh, la trascendenza non è mai un aldilà, è un affondo. Ma questo l’ha fatto capire, almeno io l’ho imparato da Agostino, quando Agostino parla di Dio e dice: ti ho ritrovato nel mio animo, ma non perché l’animo è capace di racchiudere Dio, ma perché la trascendenza non è un aldilà fuori, ma la trascendenza è l’essenziale del mio cuore. Il nome di questa trascendenza è straordinario, è inquietudine. La trascendenza non è un aldilà un po’ estatico o misticheggiante, ma si annuncia attraverso questo. Per questo – mi gioco la mia ultima carta, poi magari, se vuoi… qualche altro carico – allora, per tornare alla tua domanda iniziale, la definizione, avevamo detto, siamo passati appunto alla definizione: “il cercare l’essenziale, l’essenziale che è la ricerca”, fino, appunto, al superfluo. Allora io direi che l’essenziale per noi, ma che è insieme l’essenziale delle cose, è lasciare aperta la possibilità. Perché la realtà non è mai solo quello che è. L’essenziale della realtà è che la realtà ha dentro di sé una possibilità inesauribile, perché creata da Dio. E noi ne gustiamo, ne cogliamo una minima parte. Quindi l’essenziale delle cose e l’essenziale dell’essere umano si incontrano proprio, nell’imminenza dell’evento. La realtà come possibilità vuol dire che la realtà è un’imprevedibilità. È questo il mio bisogno di essenziale, che possa accadere ora – tra un istante o tra mille anni, ma siamo sempre nell’imminenza, stiamo per – che possa accadere qualcosa che mi strappi dal nulla.

Bellantone. Come la parola “metafisica” che ho citato spesso oggi, una volta in senso negativo e una volta in senso positivo, la parola “trascendenza” è una parola ambigua, come dicevamo; l’impressione potrebbe essere quella che il compito dell’umano sia di sradicarsi dalla vita per andare chissà dove. Quello che ho tentato di dire riprendendo l’espressione di Heidegger, secondo cui noi siamo apertura verso qualcosa che ci oltrepassa e che è questo essere trascendenza, o se volete questo essere relazione, è qualcosa che ci costituisce nelle cose più semplici, ho fatto l’esempio del corpo. In quello che diceva Costantino credo che ci fosse anche un riferimento alla nostra esperienza più “banale”, della temporalità. La temporalità mostra che noi, nel momento in cui siamo quello che siamo, siamo già altrove, ma non in un altrove lontano, nell’altrove della nostra vita che è esattamente un’apertura costante – mi limito al futuro ovviamente. Ora credo che l’essenziale dell’umano sia esattamente, non pensare, ma rimanere aperti a questa imprevedibilità del futuro. Bergson, che ho già citato oggi, descrive a un certo punto la natura, ma in realtà potremmo dire la realtà tutta, come creazione di imprevedibile novità. Io penso che cercare l’essenziale vuol dire essenzialmente rimanere aperti a questa creazione di imprevedibile novità che è la realtà, come dicevo prima, già la nostra realtà per noi stessi. Io sono un mistero per me stesso, nel senso buono del termine, nel senso che sono sempre “più”, perché non provengo da me stesso, non finisco con me stesso. E questo è vero per il cespuglio di cui parlavo prima citando questo romanziere, o meglio, questo scrittore tedesco del XX secolo, è vero per l’esperienza che ciascuno di noi fa degli altri, ovviamente, e noi sappiamo esattamente che cosa vuol dire – scusatemi perché non l’abbiamo nominata -l’inverso o il rovescio della trascendenza: essere chiusi nella propria immanenza, essere sordi all’esperienza delle cose. Allora, non voglio ritornare sull’esempio del cellulare, però noi sappiamo perfettamente che nel nostro tempo ci sono tutta una serie di cose che bloccano la nostra trascendenza – è umano – che chiudono lo spettro della nostra apertura, che ci riducono – scusate utilizzo l’esempio più banale e più facile – ci riducono a guardare lo schermo invece di guardare le cose. Non sto dicendo che gli schermi ci impediscono di guardare le cose in sé, dico semplicemente che è il modo in cui li viviamo. Caspita se gli schermi ci aiutano a vedere le cose! Immaginate quante cose scopriamo e vediamo dell’umano intorno a noi che non avremmo mai visto, però è una questione di disposizione rispetto a tutto questo. Io credo ancora una volta che il ruolo della cultura in questa ricerca dell’essenziale, ho fatto l’esempio della poesia, sia esattamente quello di invitarci a tornare alla vita come apertura, cioè come trascendenza. E credo che sia esattamente quello che stasera stiamo facendo grazie alle tue domande, grazie alle sollecitazioni di Costantino e all’attenzione degli amici che sono qui con noi.

Perillo. Io di domande ne avrei un’altra mezza dozzina, però le metto da parte perché vorrei farvene una a cui capisco che, non è semplicissimo, ma c’è bisogno di una risposta essenziale, appunto. Tutto quello che stiamo dicendo mi pare, ma correggetemi se sbaglio, mi pare che evochi di continuo una parola che non abbiamo mai detto, ma che affiora da tutti i passi che abbiamo fatto, che è la parola incarnazione. Cioè, un senso reale, vero, può essere solo in qualche modo incarnato, incontrabile, ma non in maniera apodittica, perché lo dice… perché l’esperienza che stiamo raccontando porta lì. Però ditemi se sbaglio. Ditelo in fretta, però, perché stiamo per chiudere.

Esposito. Allora, diciamo, tematicamente è un invito a nozze, chiaro, no? Però mi piace riprenderlo esperienzialmente, perché la nostra carne non è solamente il nostro corpo, ma è il nostro corpo vissuto, vibrante, che capta e si fa ricettore nell’urto come nella carezza amorosa. Il nostro corpo è il modo con cui noi ascoltiamo con tutto il corpo l’appello dell’essere. Ed è interessante perché il nostro corpo non è semplicemente l’essenziale nostro come un dato, ma è anche qualcosa che deve percepire sé stesso. Ti ringrazio perché questa incarnazione vuol dire… poi credo che anche teologicamente l’incarnazione ha come senso, ha come obiettivo, che gli esseri umani tornassero a percepire il loro rapporto con il mistero, cioè con la fonte dell’essere. E questo è come lo stigma che da allora ci è rimasto addosso, è il minimum che noi abbiamo, la percezione minima, perché noi stiamo al mondo percependolo e dando al mondo, come dicevo prima, una possibilità di parlarci, cioè di dirci che cosa è essenzialmente.

Bellantone. Incarnazione evoca diverse cose, tutte quelle che ha detto Costantino, anche la nozione di incontro. È attraverso il corpo che incontriamo la realtà. Questo dice qualcosa di importante: la ricerca dell’essenziale è un incontro con la realtà, è un’incarnazione, vuol dire anche un incontro con gli altri. Non c’è esperienza della ricerca della verità che sia un’esperienza solipsista. Ecco perché l’espressione “cercare l’essenziale” può indurre l’impressione secondo cui si tratta di rinchiudersi in sé stessi, in una specie di camera chiusa, e uno comincia a meditare su che cosa è essenziale. Abbiamo parlato spesso della realtà, ma in realtà incarnare la ricerca dell’essenziale come vissuto umano vuol dire farlo insieme, cosa che ci rinvia alla nozione di comunità. Non si vive la ricerca dell’essenziale se non in una comunità, nel modo ancora una volta più semplice del mondo, come stiamo facendo oggi, nel senso un po’ più ampio, nel senso culturale. Non si cerca mai l’essenziale senza entrare in contatto e in incontro con la cultura a cui apparteniamo e con le culture più o meno lontane rispetto alla nostra. Tra le cose, al di là di quelle che ha detto Costantino, che la parola incarnazione ricorda, è esattamente il fatto che la nostra esistenza è un’esistenza di incontro, quindi, in ultima analisi, un’esistenza comunitaria. Cercare l’essenziale non è un’opera individuale, è un’opera comunitaria, e credo che i cristiani lo sappiano molto bene, perché non ci si salva mai da soli.

Perillo. Credo, in tutta onestà, che questo applauso dica molto della gratitudine che abbiamo per i passi che abbiamo fatto insieme ai nostri due amici stasera. Io non mi permetto di aggiungere niente se non la mia gratitudine per una cosa che continua a colpirmi: il filo della vita, il filo di questa ricerca – credo che sia emerso continuamente – è veramente l’esperienza che facciamo, senza nessuna astrazione, e abbiamo tutto, compresa appunto la comunità che ci sta intorno, per poter compiere questo cammino. Il Meeting è un’occasione enorme per fare dei passi alla ricerca dell’essenziale, lo è per natura, e vi chiedo, oltre a goderne della bellezza in questi giorni, oltre a partecipare vivendolo, vi chiedo anche di partecipare sostenendolo, perché che esistano possibilità di incontri così avviene solo perché c’è questo posto e questo posto ha bisogno di essere sostenuto. Vi prego, quando girate fra i padiglioni, di tenere presente la possibilità di una donazione al Meeting e ve lo chiedo anche per un motivo ulteriore: perché, proprio perché il Meeting è incarnato nella storia, quello che ci è successo dall’incontro inaugurale con il Cardinal Pizzaballa ci ha provocato, e il Meeting ha deciso che parte delle donazioni raccolte durante questa settimana saranno devolute alla Custodia di Terra Santa e alle necessità delle popolazioni che sono lì in questo momento. Tenetene conto in questi giorni e tenete conto del fatto che è una possibilità di partecipare alla storia di cui abbiamo parlato anche questa sera. Grazie a Costantino Esposito, grazie ad Andrea Bellantone. Buona serata e buon Meeting.

Bellantone. E grazie a te Davide, grazie.

 

 

Data

22 Agosto 2024

Ora

19:00

Edizione

2024

Luogo

Sala Gruppo FS C2
Categoria
Incontri