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Che cos’ è la Verità? Un dibattito sulle soglie della Rivoluzione Russa
La confusione che intorbida oggi le coscienze, le domande inespresse, ma drammatiche che lacerano le coscienze ed erompono in conflitti sociali e politici, sono state vissute con grande intensità anche dalla società russa, in particolare nel trentennio che precedette la rivoluzione del 1917. I fantasmi dell’utopia sociale, del terrorismo, dell’antisemitismo, di un profetismo ed escatologismo ambiguo convogliarono le spinte religiose provenienti da diversi strati della società del tempo verso la catastrofe, originando in ultima analisi un fenomeno storico senza precedenti, il totalitarismo.
Nella società e nella cultura russa erano tuttavia profondamente insiti anche altri elementi, che costituirono da subito, sia in quegli anni tormentati come anche in seguito, in epoca sovietica, una possibilità di ripresa e di superamento dell’ideologia. Nella millenaria storia del cristianesimo russo la cultura aveva vissuto l’esperienza della verità come unità integrale e concreta di vero, buono e bello. Un’unità che può in ogni momento essere tradita e ripresa: è una dinamica che risulta evidente tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 nella crisi che sarebbe esplosa nella rivoluzione, da una parte, e nella rinascita cristiana dall’altra.
La prima sezione della mostra, intitolata «Il caso Tolstoj», cerca di cogliere la lacerazione della coscienza individuale attraverso la personalità del «grande vecchio», intorno a cui sembra coagularsi tutta la problematica dell’epoca.
Lev Tolstoj (1828-1910) non fu solo uno scrittore di fama mondiale, ma il portavoce di interrogativi che agitavano vasti strati della società, il propugnatore di un nuovo progetto sociale (comuni contadine che volevano ricreare il volto della società del tempo) e di una nuova spiritualità etica, una religione laica ispirata al cristianesimo ma decisa a prendere le distanze dalla persona storica di Cristo e soprattutto negatrice della sua divinoumanità.
La posizione di Tolstoj ebbe un effetto dirompente sull’intelligencija del tempo, disgustata dalla Chiesa istituzionale, ridotta fin dall’epoca di Pietro il Grande a una sorta di «Ministero dei culti» e incapace di dire una parola viva. Perfino un santo parroco e pastore come Ioann di Kronštadt (1829-1908), un «eroe della fede popolare», non riuscì a incidere sulla cultura, pur avendo un immenso ascendente sulle folle e sottolineando l’importanza dell’evangelizzazione, cosa inconsueta nella Chiesa ufficiale del tempo. Gli anatemi da lui scagliati all’indirizzo di Tolstoj e della sua pretesa di ergersi a maestro del popolo russo dimostrano il pericolo rappresentato del «falso cristianesimo» di cui lo scrittore era l’emblema, ma anche l’impotenza della Chiesa tradizionale a contrastarlo.
Quando nel 1901 il Santo Sinodo dichiara – peraltro a ragione – che le teorie professate e propugnate pubblicamente dal conte Tolstoj sono eretiche, e quindi lo scomunica, la società russa risponde schierandosi in buona parte a favore dello scrittore e contro la struttura ecclesiastica.
Dirà un insegnante dell’Accademia teologica di Pietroburgo, Vasilij Uspenskij: «Tolstoj dice: “Tutta la società ripudia i Sacramenti e ciò che la Chiesa predica nei suoi dogmi”. Questo non è vero. Ma è vero, però, che a tutti noi è familiare quel tipo di pensiero che ha condotto Tolstoj alla scomunica».
Un primo superamento della posizione tolstoiana si verifica attraverso il nuovo incontro tra fede e cultura, tra fede e ragione avvenuto intorno all’eremo di Optina. L’esperienza degli starcy di Optina, che riscoprono gli scritti dei Padri e il loro cristianesimo integrale, diverrà un polo d’attrazione sia per il popolo semplice, sia per gli intellettuali. Dostoevskij e Solov’ëv ne trarranno costantemente alimento, lo stesso Tolstoj morirà – emblematicamente – a una stazione di posta, dopo un drammatico tentativo, fallito per orgoglio, per paura… di bussare alla porta dell’eremo. La spaccatura è fra l’uomo di fede che arriva attraverso la ragione sulla soglia del mistero, e il razionalista che, pur intravvedendolo, non accetta di aprirsi ad esso.
La seconda sezione della mostra, intitolata «L’Apocalisse russa», testimonia il dilagare della posizione umana esemplificata in Tolstoj, il suo invadere sempre nuovi ambiti della mentalità e del costume sociale, sfociando in fenomeni come il terrorismo e l’antisemitismo, che generano sanguinosi eccidi politici ed etnici. Nel 1900 Vladimir Solov’ëv scrive la sua Leggenda dell’Anticristo, in cui molti leggono una personificazione di Tolstoj; negli stessi anni si presenta alla ribalta della storia russa la sinistra figura di un «falso profeta», Grigorij Rasputin, su cui inizialmente convergono le speranze di illustri esponenti del clero oltre che – fino alla fine – della famiglia imperiale. «Il fenomeno Rasputin non fa paura per il fatto che sia esistito un uomo del genere, ma perché egli era un’espressione e certamente un “esito” della secolare eclissi della grande ed esigente idea di santità nell’anima religiosa russa», dirà alcuni anni dopo Sergej Fudel’.
Se questa «grande ed esigente idea di santità» aveva trovato una prima espressione nell’esperienza dell’eremo di Optina, negli anni apocalittici della rivoluzione si traduce in un potente movimento di rinascita della Chiesa, che sfocia nel Concilio del 1917-1918 e genera la conversione alla fede di studiosi e uomini di cultura che fino a poco tempo prima avevano aderito con convinzione al marxismo (Sergej Bulgakov, Nikolaj Berdjaev e così via). Uno «squarcio d’azzurro nel cielo cupo dell’oggi»: così i contemporanei accolsero l’opera di Pavel Florenskij, Colonna e fondamento della verità (1914), in cui veniva riscoperta e proposta la fede come culmine della ragione.
La terza sezione della mostra, «Messaggi dal km 101», è più breve, quasi un epilogo: prende le mosse dagli scritti che, dal km 101 (chi era passato attraverso il Gulag non poteva avvicinarsi di più a Mosca), uno dei tanti ex detenuti invia ai familiari e a pochi amici. Saggi, lettere, memorie, che circoleranno nel samizdat (in copie sovente anonime o sotto pseudonimo), per comunicare alla giovane generazione ciò che i suoi padri hanno visto e sentito nel corso della vita, dar voce alla testimonianza dei «giusti» che hanno vissuto gli anni della rivoluzione e i lavori forzati, trasmettere il calore che si effonde dalle «mura della Chiesa» sul mondo raggelato dall’ideologia.
Sergej Fudel’ (1900-1977), l’autore di questi scritti, simboleggia in qualche modo l’emergere di una traccia dalle nebbie gelide, sanguinose di decenni di persecuzioni e orrori; la sua opera non è dettata in primo luogo da una preoccupazione di denuncia, ma dall’urgenza di dar voce all’esperienza di verità vissuta nel travaglio dei decenni precedenti, di attestare che la verità è l’incontro con il «Vivente», che svela all’uomo il suo vero volto e gli dona una speranza eterna.
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