Chi siamo
BELLEZZA E POSITIVITÀ DELLA VITA
Incontro con Aharon Appelfeld, Scrittore. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore Centro Culturale di Milano.
MODERATORE:
Bene, benvenuti. Cominciamo questo incontro intitolato “Positività e bellezza del reale”; è l’incontro soprattutto con Aharon Appelfeld, un grande scrittore, che ringraziamo moltissimo di aver accettato l’invito del meeting ad intervenire e a passare tutta intera la settimana con noi, alla scoperta della nostra realtà. Appelfeld nasce nel ’32 a Cernovitz, in Bucovina, tra l’Ucraina, la Russia e la Germania. È considerato uno dei più importanti scrittori italiani, ma la sua internazionalità è testimoniata dalle più di trenta lingue nelle quali è tradotta la sua opera, dal Giappone fino alla Spagna. Vincitore di prestigiosi premi letterari – tra pochi giorni andrà a ritirare il premio Boccaccio a Firenze – ha inaugurato quest’anno il salone del libro di Torino con una ‘lectio magistralis’. Ha insegnato per tanti anni letteratura nell’Università Ben Gurion, e recentemente ha ricevuto la laurea ‘honoris causa’ dall’Università Ebraica del monte Scopus. Abbiamo qui, nella libreria del Meeting, il suo ultimo volume, editato in italiano da Guanda, “Storia di una vita”, uno tra i più belli, tra i più intensi, che segue Badenheim 1939, presentato a Milano nell’ottobre scorso. Appelfeld ha attraversato la tragedia dell’olocausto. Scappato da bambino dai campi di concentramento, ha cercato la propria patria in Israele nel 1946 a tredici anni. Testimonia da tempo, con una scrittura forte e semplice, la cultura dell’ebraismo del centro Europa e una ammirazione per il cristianesimo, conosciuto in quelle terre dove aveva vissuto. La sua opera narra di un mondo che oggi non c’è più, ma che non è affatto rievocazione di un passato, bensì testimonianza della vita, dei rapporti, dell’intensità, dello scetticismo della persona umana nell’epoca nella seconda metà del ’900. È testimone di un senso religioso smarrito dai padri ma da lui ritrovato nella tradizione ebraica del centro Europa. Un senso dell’esistenza che ha attraversato il mondo più nero, come lui lo chiama, che mette, un senso di bellezza, un senso di dignità che sopravvive anche al male più profondo. E questa bellezza è come un pugnale che lascia segni permanenti nelle storie che lui racconta. Rarissimamente nelle tragedie del ’900, se non in qualche raro esempio russo, si trovano testimoni così capaci di penetrare tutta la propria materia narrativa, anche la più cruda, con questo senso di bellezza. Un senso che renderà ancora più tragica la realtà eventualmente descritta, ma susciterà le nostre domande, l’aiuterà a liberarsi dalla banalità e aiuterà il nostro dolore a farsi esperienza. La sua ferita è una ferita giusta e utile, e Appelfeld ce lo dimostra con la forza dei suoi ritratti, delle sue storie e delle sue immagini. Lascio a lui la parola, un grande scrittore, un grande amico.
AHARON APPELFELD:
Buona sera signore e signori. È un grande piacere essere qui al Meeting di Rimini. Io questa sera vi voglio parlare di una serie di sensazioni e di immagini e soprattutto vi voglio parlare di emozioni che hanno segnato, plasmato me e tutta la mia generazione e spero che le mie osservazioni personali possano essere importanti, significative anche per voi. Farò riferimento alla mia generazione, per essere più preciso, quando dico generazione intendo i bambini ebrei che sono stati condannati a morte in Europa tra il 1939 e il ’45, gli anni che tutti conosciamo come gli anni dell’Olocausto. Io sono nato nel ’32 nella città di Cernovitz, una città dell’Europa orientale che era molto ebrea e anche molto assimilata. In realtà una città piacevole, dove il vivere si ispirava molto allo spirito di Vienna. I miei genitori si consideravano soprattutto europei e non tanto ebrei. I miei nonni invece rispettavano i comandamenti ebraici, ma non hanno avuto la forza di infondere la fede a noi bambini, non credevano nemmeno che sarebbero riusciti a cambiare il nostro modo di vivere. E la loro tristezza in realtà, se capivo bene, non era la tristezza dei vecchi, degli anziani, era piuttosto la tristezza degli sconfitti. L’Olocausto che poi improvvisamente c’è come saltato addosso, all’improvviso, e ci ha trascinato negli abissi della sofferenza, senza riuscire a fare nessuna distinzione tra coloro che avevano la fede e coloro che non ce l’avevano. Per noi bambini forse era un po’ più semplice da sopportare, la nostra sofferenza era soprattutto una sofferenza fisica, che non chiedeva spiegazioni all’anima. Per i nostri genitori invece era la perdita del mondo, di un mondo intero; tutte le loro credenze, la loro fede ne uscivano completamente sconvolte, non gli rimaneva proprio nulla, rimaneva la loro povera e nuda ebraicità. Migliaia di ebrei si sono venuti a trovare in baracche vuote, in terreno ostile, separati dai loro cari, dai loro familiari, privati di tutti i loro effetti personali, proprietà, stigmatizzati e svergognati. In tutti quegli anni erano scappati dalla collettività ebraica, perché pensavano che questo loro patrimonio, retaggio antico, la fede, la credenza dei loro avi, li avrebbe bloccati, li avrebbe ostacolati nel loro percorso verso la libertà. E invece adesso erano insieme, tristemente insieme: ebrei dell’est ed ebrei dell’ovest, tutti nella stessa triste barca e sotto un cielo plumbeo. Prima di tutto siamo stati esiliati, raccolti in zone di transito e poi mandati nelle stazioni. In questo grande panico scatenato dalla calca e dalla fame, le parole scomparivano, non c’erano parole, i pensieri venivano cancellati. Ciò nonostante siamo riusciti, noi bambini, ad assorbire il silenzio triste dei nostri genitori, prima della comparsa della mano che ci avrebbe separato definitivamente.
I nostri genitori hanno cercato di proteggerci fino all’ultimo secondo, quando non l’hanno più potuto fare ci hanno dovuto lasciare esattamente come la madre di Mosè ha dovuto abbandonare il suo bambino, lasciandolo nelle mani della misericordia divina. E poi, da quel momento in poi, siamo rimasti alla mercé del nostro destino: alcuni hanno trovato rifugio nelle foreste, alcuni nei monasteri e alcuni si sono rifugiati da contadini cattivi, che ci trattavano esattamente come delle bestie. Abbiamo poi dovuto imparare rapidamente il segreto del nostro giudaismo, era l’istinto che ci sussurrava che quanto meglio ci saremmo nascosti tante più possibilità di sopravvivere avremmo avuto e qualcuno c’è anche riuscito a sopravvivere. Quindi, così abbandonati senza genitori in campo nemico, tagliati fuori da ogni forma di umanità, abbiamo dovuto crescere come animali intimoriti e oppressi dalla paura. Ci lasciavamo guidare dall’istinto vitale ed era a quello che dovevamo obbedire nelle foreste e nei villaggi, nei boschi; sentivamo il segreto della nostra ebraicità, sapevamo che quel segreto ci rendeva ovviamente un facile bersaglio per qualunque mano cattiva o per qualunque arma, ma senza di questo segreto la nostra esistenza sarebbe stata ancora più povera. Quel segreto era la nostra unica protezione rispetto a tutta la nostra miseria, all’interno di quel segreto conservavamo le nostre case e le immagini dei nostri genitori e delle loro facce. Era veramente l’unico posto dove trovare rifugio, questo segreto. Nel corso degli anni poi abbiamo imparato a convivere con la morte, con la morte come se fosse quasi una conoscente con cui si convive regolarmente, abbiamo anche cessato di averne paura, no, non abbiamo cessato di averne paura, anzi ogni incontro con la morte non faceva che aumentare la nostra paura, però la promessa che avevamo fatto ai nostri genitori ovvero che ci saremo presi cura di noi stessi, bene questa promessa ci faceva, ci rendeva sempre più forti. Poi vagavamo da una foresta all’altra, da un bosco all’altro, anche perché non eravamo più bambini, eravamo come animali randagi, che forse erano anche nati in quello stesso buio sottobosco. Qui all’interno nella foresta abbiamo dovuto imparare come procurarci del cibo dagli alberi, come accendere dei fuochi utilizzando le pietre e abbiamo imparato a pensare al perché ci perseguitavano in questo modo terribile, nei boschi e lungo le rive dei fiumi. Questa domanda sul perché delle persecuzioni si manifestava in tutta la sua evidenza, terribile evidenza. Talvolta pensavamo che ci perseguitavano per il nostro odore oppure perché avevamo le orecchie lunghe, oppure per la nostra paura del buio e pensavamo che se fossimo riusciti a sbarazzarci di questi difetti nessuno si sarebbe accorto che eravamo siamo ebrei. All’epoca non sapevamo ancora, non sapevamo che quella era la vecchia autoaccusa ebrea, che ahimé ci era caduta addosso e che ci era stata tramandata come una maledizione. Nel ’45, alla fine della guerra, io avevo tredici anni, che fare a quel punto dopo una guerra, dove andare? Io ero circondato da una marea di profughi che vagavano e si spostavano da un luogo all’altro. Persone che portavano con sé un terrore infinito, un terrore di cui non sapevano come sbarazzarsi, dove metterlo da parte finalmente, dove scaricarlo. Le peggiori catastrofi in realtà ci lasciano appesantiti e senza parole. Che cosa si può mai dire della morte, anche di una sola persona, per non parlare di una montagna di cadaveri? Non ci sono parole. Non c’è da stupirsi se dico che non c’erano parole, il linguaggio era come scomparso, c’era solo il silenzio, non si diceva nulla. Il linguaggio, la parola alla fin fine serve per soddisfare i bisogni esistenziali di base, ma quando si scende nella profondità dell’anima, per non parlare delle profondità metafisiche, allora esiste solo il silenzio. Le profondità erano piene, strapiene, le profondità della nostra anima, ma non c’erano dei vasi, come delle arterie, delle vie di uscita, non erano state previste per portare fuori, portare in superficie quello che si era accumulato lì dentro nel tempo. Io sono rimasto orfano non solo dei miei genitori, tutti i valori, le credenze improvvisamente sembravano semplici, ingenue, ridicole, persino alla luce di questo popolo mostruoso, di questa gente cattiva che ci aveva torturato. Come sarà la nostra vita e il nostro mondo d’ora in poi? Sprofonderemo nel pozzo del pessimismo, ci lasceremo andare al cinismo, andremo a tradire le credenze dei nostri genitori che avevano coltivato l’umanesimo liberale, dovrai tradire la fede dei tuoi nonni, genitori e nonni, che avevano vissuto una religiosità silenziosa ed intima, dovrai tradire i tuoi zii che erano dei comunisti e che avevano sacrificato la loro vita per la redenzione dell’umanità. Una sera terribile, di umore nero, dove mi sembrava che il ghetto e i campi e le foreste non mi avrebbero mai abbandonato e dove pensavo che avrei trascinato il mio essere orfano da un posto all’altro senza mai superarlo, perso completamente in un mondo che non aveva più valori, bene, in una sera così, molto triste, mi sono seduto e ho cominciato a scrivere i nomi dei miei genitori, dei miei nonni, dei miei zii e di tutti i cugini, a scriverli su un pezzo di cartone. Ero così smarrito, perso, che volevo essere sicuro, volevo garantirmi che scrivendo, mettendo per iscritto i loro nomi, volevo essere sicuro che fossero esistiti per davvero e che la casa da cui provenivo non era solo nella mia immaginazione, che era esistita un giorno. E, sorprendentemente, nello scrivere tutti questi nomi dei miei familiari li ho fatti rivivere, ho ridato a loro la vita. Si sono materializzati davanti ai miei occhi esattamente come me li ricordavo, per un momento non ero più orfano, ero di nuovo un ragazzino circondato da persone amorevoli ed ero così felice che ho nascosto questo pezzo di cartone, su cui avevo scritto i nomi, nell’interno del mio cappotto, nello stesso modo in cui uno nasconderebbe la chiave di un cuore, un cuore in cui sono racchiusi segreti preziosi, segreti dell’anima. E poi ogni qualvolta mi sentivo solo, rattristato, triste andavo a prendere questo pezzettino di cartone, rileggevo quello che c’era scritto sopra e vedevo visivamente davanti a me i genitori che avevo perso. La scrittura non è qualche cosa di magico bensì piuttosto una apertura verso quel mondo che è nascosto, celato nel tuo interno. La parola scritta ha il potere, la capacità di accendere l’immaginazione e fare luce nel tuo mondo interiore. Però il percorso da quel pezzettino di cartone sgualcito, sul quale avevo scritto i nomi di tutta la mia famiglia, dicevo, il passaggio da quello alla vera scrittura è stato lungo. Tutto quello che mi era stato rivelato, che mi si era manifestato nel corso degli anni della guerra, mi pesava e mi schiacciava come una massa scura, veramente. Ogni qual volta ripensavo a quello che mi era accaduto nel ghetto, nei campi, nella foresta, nei boschi, le immagini che mi venivano agli occhi non erano meno terribili della realtà, era tutto infinitamente terribile e per evitare di essere in presenza di quelle immagini, che quelle immagini mi si ripresentassero, scappavo, mi mettevo a correre, per cercare di staccarmi, di allontanarle da me. E quel metodo del correre per allontanarmi da loro ha funzionato almeno in parte. Il passato, in realtà, anche il passato più atroce è difficile da separare da noi. Nel ’46 sono giunto in Palestina, la Palestina del ’46; in quella Palestina vi era un’aria tutta nuova, un’aria di avanguardia e questo spirito nuovo ha cercato di creare un nuovo ebreo, un nuovo ebreo che avrebbe dovuto scrollarsi di dosso tutto il terrore del passato, guardando invece in modo più positivo al futuro e al presente. Questo passato ebreo veniva considerato e visto come una maledizione da cui uno doveva distaccarsi, sbarazzarsene a tutti i costi scappando. In questo ambiente nuovo e fervido di questa nuova Palestina, tutte queste esperienze del passato, i ghetti, i campi, gli stermini, sembravano una cosa ovviamente negativa e vergognosa che andava cancellata, dimenticata il più rapidamente possibile. In poche parole, praticamente vai e sradica, cancella dalla tua anima tutto quello che hai vissuto durante questi cinque anni e al posto di queste esperienze atroci, metti al loro posto un ideale pastorale. Quindi vai verso una nuova vita e dimentica invece questi lunghi anni terribili. Ci sono state persone che hanno fatto questo percorso di cancellare, dimenticare, però hanno dovuto pagare un prezzo molto pesante per questo sradicamento totale. Questo perché una persona senza passato, per quanto atroce, pieno di sofferenza e di vergogna possa essere questo passato, però senza passato è come handicappata, ti manca una parte. Senza un collegamento, senza un legame con i propri genitori, nonni, antenati, senza i valori che ti sono stati tramandati da tutti gli avi, questa persona sarà sì un organismo vivente, però senza anima. Di notte, tutto solo, ho cominciato a scrivere lettere a mia madre. Sapevo benissimo che mia mamma era stata uccisa, assassinata, ma ciononostante continuavo a scriverle. Queste lettere a mia mamma erano in realtà una raccolta di dettagli abbastanza banali, superficiali sulla mia vita quotidiana, su quello che facevo. Avevo l’impressione, mi sembrava che se in qualche modo fossero riusciti ad arrivare a lei, questi miei pensieri, queste mie parole, le avrebbero fatto piacere. Quella scrittura, quelle lettere a mia mamma che facevo con grande piacere e con grande entusiasmo, notte dopo notte, mi mettevano in collegamento con quel mondo che un giorno, in passato, era stato il mio mondo, la mia famiglia. Lavorare invece il terreno, i campi, cosa che doveva servire a guarire la mia anima e a farmi trovare una nuova vita, non è servito per compiere il miracolo. C’erano queste domande che tormentavano insistentemente, che mi tornavano alla mente: chi ero e chi ero stato, che cosa ci facevo in un programma di formazione di tipo agricolo ai confini del deserto, perché mi ero dedicato a questo? Potevo forse dimenticare o addirittura rinnegare i miei genitori, nonni, tutto il mio mondo spirituale, che poi in larga misura era il mio mondo? La mia vera lingua madre in realtà era il tedesco, lingua che avevo sentito parlare a casa fino all’età di nove anni. Durante gli anni della guerra poi, l’ucraino e il russo si sono sostituiti al tedesco e le poche parole di quella lingua che erano rimaste con me erano a malapena sufficienti per scrivere una lettera infarcita di errori a mia mamma. Invece di pomeriggio stavamo lì seduti intorno a un tavolo a studiare l’ebraico della vita quotidiana e l’ebraico della Bibbia. Per un ragazzo giovane che proveniva da un contesto secolare ed assimilato come era stato il mio, beh un ragazzo così si tira indietro proprio per istinto di fronte a qualunque libro religioso. Ovviamente senza conoscerli nemmeno un po’. Per qualche motivo mi sembrava, mi era sembrato che la Bibbia ebraica si occupasse di angeli e di santi e che cosa significavano per me questi angeli e santi? Però c’era una sorpresa che mi attendeva, perché i patriarchi della Bibbia non erano santi, anzi al contrario c’era qualcosa di molto terreno e di molto vivace e vitale che li connotava. Quando poi mi è stato detto che i tesori della lingua ebraica erano nascosti nella Bibbia, io ho preso una decisione: ho deciso di copiare un capitolo al giorno, mettermi lì a copiare un capitolo al giorno. Ed ho ben presto compreso che la Bibbia si occupa non solo di contenuto, ma anche di forma, di come… era il come che mi interessava, proprio questo come che mi interessava e mi intrigava forse più del contenuto. La prosa biblica è molto semplice, basica, priva di qualunque decorazione, di qualunque superfluità, povera nelle descrizioni, è quasi priva di aggettivi. E poi come tutte le lingue antiche aveva la sua severità, la sua austerità, una logica ferrea senza nessuno spazio per i sentimenti. All’epoca non sapevo ancora che questa severità andava benissimo per la mia esperienza di vita. Parlando di sofferenza del ghetto, di campi, di boschi, foreste, parlando di questi argomenti è impossibile abbondare con le parole. Quanto più intensa è la sofferenza, tanto più importante diventa usare poche parole. Il dolore non si lascia strutturare, non prende forma se il linguaggio usa troppe parole. La prosa biblica ci insegna che il non parlare e il non detto è forse tanto importante quanto il detto, quanto il parlare. Descrivere il mondo esterno, quello che sta fuori, è solo un’illusione; si deve invece tentare, lavorare per arrivare al nucleo più interno della nostra anima, le profondità dell’anima. Io non ho interiorizzato questa poetica facilmente, con rapidità, la nostra attrazione per tutto ciò che è di stampo sentimentale o chiassoso o rumoroso, è un’attrazione naturale, un istinto e proprio su questo la prosa biblica mi ha insegnato a superare questa tendenza della vittima, di pensare di avere sempre ragione. Un’altra cosa importante che la prosa biblica mi ha insegnato è stata l’obiettività. La parzialità, se pensate, è un segno di superficialità, oltretutto la mia esperienza di vita, il mio vissuto faceva così intrinsecamente parte di me, era una cosa legata a me che faceva sì che l’egocentrismo stesse sempre in agguato, rischiavo sempre di concentrarmi su me stesso. Nella narrativa biblica non ci sono persone ideali, la maggior parte di questi personaggi sono fatti di carne ed ossa, quindi persone piene di tanti difetti umani, ci può essere uno che è un donnaiolo, un altro che ha un carattere vendicativo, uno che concupisce la moglie di un altro, del suo comandante, e poi per punirlo lo manda direttamente in battaglia e quello va a morire e così si può poi tenere la moglie per sé, oppure un altro può essere semplicemente un furfante. Però c’è una cosa interessante da dire: Primo Levi, scrivendo dei campi di concentramento e di Auschwitz, utilizzava una lingua molto concreta, un linguaggio asciutto, privo di qualunque ornamento retorico, un linguaggio povero. Forse lui, come me, aveva appreso questo dalla Bibbia, leggendo la Bibbia. Con grande fatica sono riuscito a imparare l’ebraico, volevo che l’ebraico diventasse non solo la mia madre lingua, ma anche la lingua che mi andava a collegare, a legare ai miei nonni e ai nonni dei miei nonni e tramite questa lingua poter imparare il loro carattere e tutto il destino del popolo ebreo. Quindi sempre più ho continuato a leggere la Bibbia e sempre di più continuavo a ricopiare per iscritto la Bibbia. La Bibbia utilizza modi diversi di espressione. Nella Bibbia si possono trovare poesia, profezia, diritto, storia e filosofia. Però quello che colpiva me in particolare era lo stile narrativo. Le persone che vengono fuori da quello stile narrativo sono, come dicevo, persone terrene, molto terrene, però al contempo sono in collegamento con il cielo. Non ci sono santi in mezzo a loro, sono persone che vivono la vita, la loro vita, alcuni in modo abbastanza calmo e tranquillo, altre persone con amarezza, rancore, paura… Però nelle loro anime, nel loro profondo, sanno che il mondo non rimane senza risposta. Io leggevo, come dicevo, con grande devozione, però non era una lettura che facevo in modo regolare o religioso per così dire, non la facevo con fervore. Io invece volevo veramente aggrapparmi alle radici della lingua ebraica e a questa esperienza primordiale che deriva dalle storie narrate nella Bibbia. Io ricordo la mia grande gioia, quando dopo tanti anni di lotta con me stesso per riuscire ad esprimermi, sono riuscito a scrivere in lingua ebraica un breve racconto, un racconto il cui contenuto non era assolutamente biblico, però c’era senz’altro in quel racconto anche qualche cosa della poesia e dello stile della Bibbia, che mi aveva veramente plasmato. E che cosa ci dice questa poetica della Bibbia? Beh l’essenza della storia è il mondo interiore di una persona, vi è ciò che è cosciente e ciò che è incosciente, inconsapevole, ci sono le persone che sono con noi adesso e quelle che se ne sono andate, che non ci sono più. I desideri, le paure, il dolore, anche la disperazione e poi quei pochi meravigliosi momenti in cui la vita ci fa andare al di là di noi stessi, ci solleva al di là in altro e riusciamo a sentire la vicinanza a Dio. Le storie narrate nella Bibbia sono piene di fervore, sono come una preghiera e l’incontro con la Bibbia è un momento di apertura del cuore ed è un momento di grande intensità spirituale. Comunque questo non significa che nella Bibbia non ci sia anche un po’ di senso di humor, un po’ di ironia, delle critiche a volte anche molto forti, accese, ambiguità, sarcasmo anche, tutto si può ritrovare nella Bibbia. Invece, stranamente, la narrativa di stampo biblico non è affatto didattica, è vero che si occupa del bene e del male, degli obblighi a cui si deve adempiere e degli atti di devozione, si occupa dell’amore per scopi indegni e dell’amore fine a se stesso, però in realtà senza predicare tanto, imporre e anche senza nessuna idealizzazione. Nella narrativa biblica vi è una tensione tra questo… il pensiero secondo cui l’uomo è polvere, è cenere e invece il pensiero, il sentimento, che l’uomo è stato creato a immagine di Dio.
Questi due elementi così potenti, cenere e immagine di Dio, sono un po’ il filo conduttore, sono onnipresenti in tutto l’intreccio della Bibbia. È anche vero che gli eroi protagonisti della Bibbia talvolta dimenticano di essere stati creati a immagine di Dio e si possono comportare come dei fatalisti che si lasciano andare, come se fossero indipendenti: mangiamo e beviamo, godiamocela, perché domani potremmo essere morti.
Potremmo prendere l’esempio del patriarca Abramo, la sua vicinanza nelle conversazioni con Dio sono di natura intima, con tante rivelazioni, però anche lui, anche Abramo, nei momenti di debolezza, di incertezza, ha paura e si preoccupa solo di se stesso. Quando si avvicina all’Egitto durante le sue peregrinazioni, lui è disposto a dare la sua bellissima moglie al faraone e dice che sia sua sorella, e fa questo per paura che il faraone lo possa uccidere. Il modo in cui lui tratta la serva di sua moglie, Agar, che aveva dato alla luce suo figlio Ismaele, è anche un trattamento tutt’altro che splendido. Molti protagonisti della Bibbia hanno in realtà accesso alla sfera divina, al livello divino, però, poiché sono fatti solo di carne ed ossa, talvolta finiscono col lasciarsi andare ad un egoismo becero. La narrativa biblica è esattamente come la letteratura greca antica, si occupa di persone, di umani, con le loro vite, le loro tribolazioni ed anche con le grandi questioni umane: gli interrogativi, lo scopo e poi tutta la limitatezza delle nostre vite. Però, come tutta la letteratura importante di qualità, la narrativa biblica va giudicata non solo dal che cosa, ma anche nel come. Bisogna vedere anche il come. Sappiamo tutti bene che una dichiarazione, una frase importante e vera può molto facilmente suonare falsa, può diventare banale, può suonare arrogante, troppo verbosa se non viene espressa nella giusta forma. Prendiamo ad esempio la storia del sacrificio di Isacco, di cui si è occupato a lungo anche il filosofo Kierkegaard. Bene, ad Abramo viene chiesto di prendere il suo unico figlio e di sacrificarlo. Ma che cosa assurda, che cosa terribile, crudele. Che cosa potremmo commentare di un fatto del genere? Ci si dovrebbe ribellare o sottomettersi alla decisione a capo chino. Quell’episodio biblico e straziante ci lascia assolutamente senza parole. Che cosa potrebbe dire un padre a suo figlio in una situazione del genere? Il breve dialogo tra il padre e il figlio non è una grande rivelazione, anzi lascia molto perplessi: li troviamo lì, di fronte all’abisso, completamente senza parole, senza sapere cosa dire. Però quali lezioni si possono apprendere da questa prova così tremenda: tutto quello che Dio ci chiede di fare, anche se fosse contrario alla nostra natura e ai nostri sentimenti umani, tutto questo va fatto? Qualunque lezione che si possa imparare da quell’episodio, che sottopone l’uomo ad una prova che va al di là della sua capacità di capire, qualunque lezione sarebbe per forza molto limitata, molto semplicistica, per non dire dogmatica.
Io non è che adesso voglio interpretare tutti i misteri che possono star dietro a questo episodio biblico, però c’è una cosa quanto meno che si può dire: questo episodio è caratterizzato dal silenzio, più che dalla parola. È un episodio di silenzio e il non detto in questo caso è più importante di quello che viene detto. Ogniqualvolta ci confrontiamo con l’abisso rimaniamo senza parole. La vita molto spesso ci sottopone a delle prove e ci possiamo trovare davanti a tanti abissi e gli esseri umani, anche se sono stati creati ad immagine di Dio, alla fin fine sono fatti di carne ed ossa e non è facile che questa immagine di Dio coesista con le nostre povere carni ed ossa, è difficile la coesistenza nello stesso corpo.
E adesso faccio un passo indietro, da dove avevo cominciato. La fortuna mi è stata accanto, il destino. Ho avuto questa fortuna di incontrare la lingua ebraica, una lingua che era rimasta quasi sotterrata nei libri per duemila anni. È vero che gli ebrei la studiavano, la usavano per le preghiere, ma non la parlavano più. Questa lingua ebraica ha riavuto nuova vita, come per miracolo, solo 70-80 anni fa ed io posso dire di essere stato uno dei testimoni, silenziosi, di questa risurrezione linguistica. Visto che questa era rimasta inutilizzata per così tanti anni, era una lingua in silenzio; bene, tutti i profumi, le sfumature della creazione, nel vero senso della creazione, palpitavano in tutte le sue frasi, in tutti i suoi aspetti ed io che avevo dietro di me l’inferno, avevo veramente bisogno di una lingua primordiale come quella, per riuscire a parlare di me.
La Bibbia mi ha insegnato a contemplare, ad ascoltare, a sentire veramente i passi della vita e mi ha insegnato a scrivere. Scrivere significa lasciare, lasciare lì solo quello che è necessario e invece mantenere il silenzio, attentamente tutto quel silenzio che sta attorno alla parola scritta. Ho detto che questo me l’ha insegnato la Bibbia, però devo anche aggiungere da subito che nessuno potrà mai riuscire a scrivere come la Bibbia. Vi è una natura potentissima e primordiale che è veramente stampata in ognuna delle pagine della Bibbia. Nessun essere umano deve tentare di imitare quello stile di scrittura, che è veramente scolpito nella roccia. Invece lo spirito della Bibbia è aperto a tutti, è lì per tutti, per chiunque sia perplesso per gli enigmi dell’umanità e gli enigmi delle vostre vite. Ed è lì anche per tutti quelli che vogliono esprimere il loro mondo interiore. La lingua ebraica non solo ha aperto il mio cuore, mi ha anche permesso di entrare in collegamento con i miei antenati e con gli antenati degli antenati. Io sono arrivato in Israele nel ’46, ero un povero orfano, perso e non avrei immaginato che la lingua ebraica e non la mia vera madre lingua, avrebbero così tanto compensato le gravi perdite che avevo subito. E detto questo vi ringrazio molto per l’attenzione.
MODERATORE:
Questo applauso vuole esprimere tutta la nostra amicizia e vicinanza di fratelli, e siamo lieti di farlo a lei in segno profondo di amicizia. Appelfeld è un uomo che conosce il segreto della vita ed è un uomo che sa chiedere, e questo è il protagonista della storia. Non posso concludere senza echeggiare un pensiero di don Giussani che diceva che il povero è colui che ha solamente quello che è. Noi abbiamo ascoltato questa sera la realtà storica di questo, come è accaduto nella nostra storia, nella storia dell’Occidente e nella sua storia personale. Il povero che ha solo quello che è e possiede ogni cosa alla luce di questo. E la sua è un’attesa infinita; pensate quanto ha atteso lui, quanto ha atteso per poter dire sé, quanto cammino… Io credo che nei prossimi giorni ci sarà la possibilità di rincontrarlo e soprattutto di leggere, leggere perché i libri sono una impressionante commistione di verità, testimonianza e realtà, in cui ogni passo, ogni parola è portatore di grande ricchezza. Lo ringraziamo ancora e do un avviso: lo possiamo incontrare domani al caffè letterario che è vicino alla libreria.
(Trascrizione non rivista dai relatori)