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BANGUI, CENTRAFRICA: «LA CAPITALE SPIRITUALE DEL MONDO»
Incontro con Federico Trinchero, Missionario carmelitano a Bangui, Repubblica Centrafricana. Introduce Davide Perillo, Direttore di Tracce.
BANGUI, CENTRAFRICA: «LA CAPITALE SPIRITUALE DEL MONDO»
DAVIDE PERILLO:
Era la fine di novembre del 2015: aprendo la porta santa della cattedrale di Bangui, Papa di fatto ha aperto l’anno giubilare, l’anno della misericordia, prima ancora di aprire San Pietro. E come avete sentito dalle sue parole, ha detto che quel posto è diventato per lui la capitale spirituale del mondo. Quello che vogliamo chiedere a padre Federico, che ha 39 anni ed è in Centrafrica dal 2009, maestro dei novizi, degli studenti, nel Carmelo di Bangui, è perché di punto in bianco Bangui sia diventata la capitale spirituale del mondo, che cosa c’era prima, che cosa è successo che l’ha resa una condizione di questo tipo e che cosa è successo poi, perché quel luogo sia così significativo. Gli chiediamo di aiutarci a capire e a conoscere questa situazione e questa novità gigantesca che il Papa ha portato, indicando questo luogo per tutto il mondo. Prego.
FEDERICO TRINCHERO:
Buon pomeriggio a tutti. E’ per me un grande onore essere qui oggi pomeriggio a rappresentare questa città che è la mia città ormai da tre anni. Sono sette anni che vivo in Centrafrica e quindi mi sento qui, non soltanto a nome mio ma proprio di questa città, di questa Chiesa, anche a nome della mia comunità e dei profughi che ormai da quasi tre anni vivono attorno al nostro convento. Proprio venerdì, quando sono partito da Bangui, i profughi si sono accorti che era un’uscita un po’ eccezionale, perché normalmente veniamo in Italia solo ogni due anni e adesso venivo per una settimana. Hanno capito che doveva esserci qualcosa di importante. E allora un profugo ha voluto lucidarmi i sandali in modo che potessi presentarmi in ordine e pulito a questo convegno. Loro non sanno niente di cosa sia il Meeting di Rimini, lo sapranno quando tornerò venerdì e racconterò, ma mi è piaciuto molto questo gesto, il contributo di questa persona così semplice che ha capito che c’era qualcosa di importante.
Vorrei oggi pomeriggio farvi conoscere un po’ questo Paese, cosa è successo e come mai – penso di interpretare il pensiero del Papa – ci ha fatto questo grande dono. Come penso per molti di voi, il Centrafrica è un Paese sconosciuto, anche perché ha un nome un po’ sfortunato. Il Centrafrica non è una zona dell’Africa o l’Africa Centrale, ma un Paese – lo vedete nell’immagine – che si trova proprio nel cuore dell’Africa. Il nome vero in lingua sango, la lingua del Paese, è beafrika, che significa cuore dell’Africa. E’ un Paese grande due volte l’Italia, ma è anche un paese dei paradossi: pur essendo grande, ha una popolazione ridottissima, 5 milioni di abitanti che si trovano soprattutto nella parte occidentale. Purtroppo è uno dei paesi più poveri della terra, penso che sia proprio tra gli ultimi tre più poveri, pur avendo grande ricchezze come oro, diamanti, petrolio, uranio, anche legname. E’ un Paese dove anche l’agricoltura si potrebbe fare molto bene. Purtroppo, finora è stato condannato al sottosviluppo. E’ un Paese molto giovane: il 50% della popolazione ha meno di 18 anni, il 70, l’80% ha meno di 30 anni. Purtroppo la speranza di vita è molto bassa, si aggira sui 50 anni, e anche l’analfabetismo è ancora molto elevato, si parla del 40%: stranamente sono proprio le nuove generazioni che hanno più sofferto del malgoverno di questi ultimi anni. Un paese sfortunato che però, nonostante la guerra che ha conosciuto negli ultimi tre anni, forse può uscire da questa situazione di povertà e di sottosviluppo a cui sembrava condannato.
Cerco di raccontare brevemente com’è nata questa guerra. Le guerre sono sempre complesse, ne sentiamo parlare e ce ne rendiamo conto quando le viviamo sulla nostra pelle, le cause non sempre sono chiare ed è difficile farle finire. Cosa è successo? In un Paese così grande, dove lo Stato non è mai riuscito a controllare tutta la superficie del territorio, dalla parte nord, nella zona confinante con il Ciad e il Sudan, un gruppo di ribelli si è coalizzato – questa unione si chiama Seleka, che in lingua sango significa alleanza – e ha cercato di far valere i propri diritti, di rivendicare alcune cose. Lo Stato, il Presidente non ha ascoltato, ha trascurato questa situazione che così è degenerata. Questa coalizione di mercenari è scesa in meno di un anno fino alla capitale che si trova al sud, quasi al confine con il Congo. L’alleanza, la sua determinazione di prendere il potere, era stata sottovalutata. Questa è una zona dove sono raccolte le ricchezze del Paese, tutte da sfruttare. C’è stato un colpo di Stato nel marzo del 2013, e la coalizione ha preso il potere ma non è stata in grado di gestirlo. Dobbiamo purtroppo dire che questa coalizione era a maggioranza di confessione musulmana: dove passavano facevano razzia dei villaggi cristiani che venivano incendiati. C’erano stati stupri, violenze di ogni tipo e anche le stesse missioni erano state toccate da questa coalizione di ribelli. Dopo un po’ si è organizzata la reazione per cercare di riprendere il Paese e il potere. Questo è avvenuto nel dicembre del 2013. E il 5 dicembre, con la riconquista da parte delle milizie degli anti-balaka, a maggioranza cristiana, si è scatenata una guerra civile fortissima, di grande violenza. Solo quel giorno sono state uccise 300 persone: poi si è continuato per diversi mesi.
Qui è iniziata la nostra avventura, come avete potuto vedere dalle immagini. Il 5 dicembre stavamo per andare a scuola – io sono insegnante nel Seminario Maggiore di Bangui – quando abbiamo sentito degli spari. Ne avevamo già sentiti durante la Messa del mattino. Vediamo che la gente comincia ad affluire e a fermarsi attorno al nostro convento. Riteniamo più prudente non avventurarci fuori, telefoniamo e ci dicono che anche nel Seminario Maggiore la situazione è analoga. Allora, pian pianino vediamo che la gente aumenta: nel pomeriggio facciamo un giro attorno al convento, vediamo che la gente è numerosa e nessuno ha intenzione di tornare a casa. Così, la sera li facciamo entrare nel cortile del convento, li contiamo: sono circa 600 persone. Il giorno dopo si spara ancora e la gente aumenta. E la sera del 6 dicembre, li contiamo: sono più di 2.000. Mi ricordo che con un mio confratelli li abbiamo contati discretamente, per non dare l’impressione che ci fosse un numero chiuso, giusto per poter comunicare ai nostri confratelli e alle autorità che 2.000 persone stanno qui. E abbiamo capito che iniziava qualcosa di nuovo, a distanza di anni abbiamo capito che avevamo un campo profughi nel convento. Abbiamo accolto questa gente come meglio potevamo. Ovviamente, non avevamo da mangiare per tutti, abbiamo cercato di nutrire come potevamo soprattutto i bambini. Poi i combattimenti sono continuati: intorno al 20, 21 dicembre, a due settimane dalla prima ondata, la mattina sentiamo che gli spari non erano mai stati così forti. Vediamo che la gente aumenta, nuovi amici si aggiungono. E il mattino dopo diamo una contata, il numero dei profughi è superiore ai 10.000! Già 2.000 ci sembravano tanti ma probabilmente era soltanto un allenamento: adesso si trattava di gestire tutte queste persone. Saremo capaci?, ci siamo chiesti. Boh! Ci siamo riusciti, possiamo dire, anche facendo esperienza degli errori fatti e dei consigli che di volta in volta ci venivano dati.
Per una settimana siamo rimasti così, senza nessun intervento da parte dell’esterno, eravamo ignari di tutto quello che stava succedendo in città. Anche altre persone, altre comunità, conventi e parrocchie stavano vivendo la stessa situazione. Immagino che vi domandiate: dove si mettono 10.000 persone, in un convento che non è grande come la fiera del Meeting di Rimini ma è molto più piccolo, più o meno un quarto della sala in cui siamo adesso? I primi 2.000 siamo riusciti a incastrarli in tutti i luoghi possibili del convento, abbiamo lasciato libere soltanto le nostre stanze: poi abbiamo riempito i vari cortili, i garage. Tra l’altro, la gente voleva stare dentro perché aveva troppa paura, soprattutto i giovani e gli uomini che erano ricercati per essere uccisi. Poi abbiamo utilizzato la chiesa. In questi giorni ci sono state anche le piogge, quindi ci siamo spostati in tutti gli ambienti coperti che erano disponibili. Nella nostra chiesa, di cui avete visto le foto, abbiamo messo soprattutto le mamme e i bambini. Apro una parentesi. Quando si trattava di decidere dove mettere la gente, a un certo punto l’Unicef ha proposto, come spazio per costruire sette aule scolastiche, l’unico rimasto libero, il campo da calcio. Allora i mie confratelli hanno protestato: no! Passi la chiesa, un luogo per pregare lo troviamo sempre, ma il campo da calcio, no! Per cui siamo rimasti l’unico campo profughi di Bangui con il campo da calcio. Di erba ce n’è più poca perché giocano parecchio, però mai i picchetti di una tenda hanno potuto essere piantati sul campo da calcio. Invece, nel Seminario Maggiore si sono distratti e il rettore ha detto sì all’UNICEF: quindi hanno messo diverse tende e non possono più giocare, devono andare altrove.
Abbiamo anche visto che c’erano persone ammalate, che avevano bisogno di cure. All’inizio davamo qualche medicina, poi però a qualcuno è venuta la malaria: a un certo punto abbiamo capito che i malati e i feriti erano tanti. Per fortuna, avevamo tra i profughi un nostro amico medico. Ci siamo guardati – ricordo quell’istante – e ci siamo detti: dobbiamo fare qualcosa. Abbiamo tolto tutti i tavoli del refettorio e lo abbiamo trasformato in un piccolo ospedale da campo. Poi sono arrivati altri medici: a un certo punto ci siamo ritrovati con 4 medici, 4 infermieri e 4 aiuto-infermieri che lavoravano a turno, quindi il nostro ospedale funzionava 24 ore su 24. C’erano ammalati e feriti. Una persona era caduta e aveva evidentemente una frattura. Ho telefonato all’ospedale: “Potete mandare un’ambulanza?”. La dottoressa mi ha risposto: “Guardi, padre, in questo momento accogliamo solo persone che hanno ferite da pallottole o da machete, per il resto dovete arrangiarvi voi”. Allora abbiamo capito che dovevamo occuparci anche di questo, della salute dei feriti più gravi, degli ammalati.
E non solo ammalati. Sapete che il tasso di fertilità delle donne africane è molto forte: le situazioni di tensione, i bombardamenti provocano spesso un’accelerazione del parto, della gravidanza. Abbiamo visto che c’erano diverse donne che erano a termine della loro gravidanza. E mi ricordo che un organismo umanitario ci aveva consegnato tre scatoloni dicendo che c’era il materiale per un parto in situazioni di emergenza. Io mi sono messo a ridere, ho detto: “figurati! Non servirà mai una cosa del genere!”. Invece, dopo un mese, parto dopo parto, abbiamo dovuto chiedere altro materiale perché quello che avevamo non bastava. Abbiamo dovuto dare una mano a tante mamme, con l’aiuto di questi medici e queste infermiere. Il primo parto è avvenuto addirittura in chiesa, tutti gli altri nel refettorio. Le donne africane poi arrivano sempre all’ultimo momento, quando non si può più andare all’ospedale: per fortuna avevamo sempre queste infermiere. Ho imparato cose che, quando studiavo Teologia, non avevo mai sentito. E ci ha aiutato la provvidenza. Due mesi prima di questi avvenimenti, quando ero arrivato a Bangui, nell’agosto del 2013, un giovane aveva chiesto di entrare al Carmelo come aspirante. Era un infermiere e io lo avevo seguito come responsabile. Quando c’è stato il parto, eravamo soli, io e lui. Gli ho detto: “Adesso io sono il novizio e tu sei il maestro, faccio quello che mi dici”. Il parto andò benissimo. Nel complesso, è stata un’esperienza molto bella: sono nati almeno una trentina di bambini nel convento, senza contare quelli nati in giardino. Queste 10.000 persone ovviamente non potevano stare in casa, quindi dormivano vicino al convento, lì intorno. Nel mese di febbraio, loro stessi hanno costruito delle tende portando i rami di palma, poi alcuni organismi umanitari hanno portato questi tendoni di plastica che avete visto.
A questo punto, si trattava di dare da mangiare alla gente. I problemi più grossi erano l’acqua, il nutrimento e l’igiene. Erano i giorni in cui in alcuni Stati dell’Africa c’era l’ebola, il rischio di epidemia era fortissimo. Per quell’aspetto, l’igiene, abbiamo dovuto essere molto severi; i frati stessi, i miei confratelli hanno scavato delle buche in modo che queste persone potessero andare in bagno ed evitare contaminazioni. Immaginate 10.000 persone in quelle condizioni: un’epidemia fa presto a propagarsi. Abbiamo messo regole ferree su questo. Ci dicevamo: se non moriamo per la Seleka, rischiamo di morire per il colera. Forse sono stato anche un po’ troppo severo, tanto che un profugo è andato dal mio confratello a chiedere: “Ma, padre Federico, prima di fare il frate ha fatto il militare?”. Io li ho detto: “No, ho sempre fatto soltanto il frate, però quando si tratta dell’igiene, bisogna essere un po’ determinati”. Abbiamo avuto solo una piccola epidemia di varicella tra i bambini e ce la siamo cavata. Ovviamente bisognava dare da mangiare a questa gente. E ovviamente siamo soltanto riusciti a dare un po’ di merenda. E ovviamente non sapevamo in anticipo che avremmo avuto 2.000 persone a cena. Devo dire che il primissimo aiuto è arrivato proprio da un carissimo amico musulmano che ci voleva tato bene e che però non poteva più venire.
In questa guerra si è creata un’enclave di musulmani nella capitale, dove i musulmani non possono entrare e i musulmani non possono uscire. Però lui, avendo saputo in che situazione ci trovavamo, ci ha voluto inviare un sacco di riso, un sacco di zucchero e un bidone d’olio. D’accordo, Gesù avrebbe moltiplicato tutto per 10.000 persone: noi ci siamo quasi arrivati! A un certo punto, dopo una decina di giorni, sono arrivati i primi camion della Croce Rossa Internazionale. Arrivavano al mattino tre grossi camion che venivano scaricati e tutto il materiale veniva poi depositato in un chiostro. Poi la Croce Rossa se ne andava e restava da distribuire e smaltire tutto questo materiale per 10.000 persone affamate: una cosa non semplice. Come si fa? Le abbiamo pensate tutte, moltiplicate per 10.000. Io, testardo ho detto: “Le mettiamo tutte in fila”. Prendiamo le donne, togliendo gli uomini, poi togliendo i bambini e le bambine, più o meno erano 2.000, 3000 donne. E mettere in fila 3.000 donne affamate non è facile, è impossibile. Ci ho provato ma ho gettato la spugna, perché poi c’erano quelle che venivano due volte, ci si lamentava…
Ci siamo radunati di nuovo: come possiamo fare? Alla fine, ci siamo così organizzati: abbiamo diviso il campo profughi in 12 quartieri e in ogni quartiere abbiamo fatto un censimento per sapere più o meno quanti nuclei famigliari c’erano, cercando di evitare che che non barassero. Una volta fatte le liste, abbiamo diviso il materiale in base ai dodici quartieri: tot sacchi di fagioli, di riso, di olio, di sale. Preparato il materiale, abbiamo chiamato il capo villaggio del quartiere, il presidente con i suoi consiglieri, abbiamo caricato il trattore sul rimorchio e mano a mano abbiamo portato il nutrimento nella zona 1, nella zona 2, ecc. Lì restava uno di noi a seguire la distribuzione in modo che fosse fatta in modo corretto. La prima volta ci abbiamo messo tre giorni: alla fine eravamo esausti. Poi abbiamo migliorato il metodo, abbiamo capito alcune malizie e le ultime volte siamo riusciti a distribuire tutto in mezza giornata. E’ stata un’esperienza, sbagliando s’impara. Abbiamo cercato di affidare a loro la distribuzione però, visto che rubavano troppo, abbiamo ripreso in mano la gestione, con grande gioia dei profughi che così erano sicuri che ad ognuno arrivasse la parte giusta. Questo accadeva ogni 15 giorni: arrivava il carico e noi dovevamo gestirlo.
Adesso succede che, quando giro per Bangui – al momento i profughi sono soltanto tremila: a voi sembrano tanti ma rispetto ai diecimila, a noi sembra quasi una cosa normale. Settemila sono rientrati nei loro quartieri -, mi riconoscono subito perché non ci non tanti frati bianchi lì. Perciò mi salutano e mi dicono: “Ho dormito al Carmelo, zona 5”. Altri mi dicono: “questo è tuo figlio”: e fortuna che poi il colore della pelle mi scagiona sempre. Effettivamente la gente è proprio riconoscente, apprezzano il fatto che non siamo andati via, che siamo rimasti con loro, che abbiamo vissuto tutto quello che c’era da vivere insieme. Mi ricordo, era il 14 ottobre del 2014, eravamo alla vigilia della festa di santa Teresa d’Avila, iniziava il quinto centenario: ci chiedevamo che regalo fare a santa Teresa. Neanche a farlo apposta, il 14 sera, dopo i primi vespri che abbiamo cantato, arriva un papà con una mamma tutta dolorante, col pancione. Ci risiamo. Allora parto, questa volta ancora in tempo, proviamo ad andare all’ospedale e i miei confratelli fanno: “Dai, questa la chiamiamo Teresa”. Ho risposto: “Aspettiamo almeno che prima venga al mondo!”. Andiamo all’ospedale dove la lascio, nella notte avviene il parto e l’indomani arriva il papà e mi dice: “E’ nato un bambino”. Gli faccio tutti i miei complimenti e lui: “Puoi dargli il nome?”. Rispondo: “Ma no, dai, daglielo tu”. Lui dice: “Padre, è il nono figlio che metto al mondo, mi posso permettere di rinunciare a dare il nome ad uno. Visto che avete sofferto anche voi per metterlo al mondo, glielo dia lei, padre”. Era un maschietto, non potevo chiamarlo Teresien, Teresienum, allora l’abbiamo chiamato Joseph, Giuseppe, sapendo che Teresa aveva una grande devozione per san Giuseppe e che quindi sarebbe stata molto contenta. Poi era anche il nome di mio padre: io che non ho potuto dargli un nipote, gliene ho dati parecchi in Centrafrica.
Ancora, vorrei raccontare un episodio molto bello, per me e per i miei confratelli è stato sicuramente un miracolo. Ovviamente il Natale del 2013 è stato indimenticabile. Abbiamo fatto la messa di mezzanotte alle 3 del pomeriggio, non potevamo assolutamente permetterci di farla a mezzanotte e anche a quell’ora avevamo il dubbio di arrivare alla fine, perché si era nel pieno dei combattimenti. Però, bene o male, ce l’abbiamo fatta. E’ stato bello anche vedere questa gente, che trema quando ci sono i bombardamenti ma non scappa dalla messa. E’ stato un Natale molto dimesso ma ci siamo fatti molti regali. Nel Natale 2015 oramai avevamo una certa esperienza, la situazione a Bangui era più tranquilla. Quando siamo a Dicembre e il Natale si avvicina, dico: “Come sarebbe bello fare almeno un regalo a tutti i bambini! Però, come fare?”. Abbiamo fatto una stima: in quel momento, c’erano almeno 1.500 bambini sotto i 10 anni. E’ vero che i bambini africani si accontentano molto più facilmente dei loro coetanei in Europa, però proprio non avevamo mezzi. E quindi, pazienza. Ho provato a chiedere a qualche organismo internazionale se potevano dargli almeno del cioccolato o del latte, dello zucchero per festeggiare. Niente. Il 24 dicembre, verso le 2 del pomeriggio, arrivano due macchinoni da cui scendono degli uomini ben vestiti che non conoscevamo, di un organismo sconosciuto, e scaricano dalle macchine cinque grossi scatoloni. Ci dicono: “Dentro questi scatoloni ci sono 1600 giocattoli per i vostri bambini”. Caspita, proprio il numero che speravamo! Poi questa gente è sparita. Non so neanche chi siano, è un organismo che non esiste. Ci siamo guardati tra noi: “Come fare? Chi ci ha mandato questo?”. Per noi non è altro che la Provvidenza che ha sentito questo legittimo desiderio e l’ha esaudito al di là delle nostre aspettative. Però c’era il problema di distribuire tutto in tempo breve.
Come fare? Avevamo già una certa esperienza e mi è venuto in mente l’unico Meeting di Rimini cui avevo partecipato: era il 1996, avevo diciott’anni e ovviamente ero dalla parte del pubblico, non dei relatori. Avevo visto che, quando c’era un’autorità, una persona importante che doveva fare una conferenza, i volontari facevano un cordone attorno alla persona e la accompagnavano, un po’ come hanno fatto a me adesso. E dicevo: “Guarda che bel sistema! Molto discreto, molto efficace per accompagnare una persona”. Allora ho detto: “Facciamo così!”. Abbiamo diviso in dodici parti tutti questi regali, ogni frate ha ricevuto due borsoni, dentro c’erano i regali divisi per ogni quartiere, per ogni zona del campo profughi. Poi abbiamo chiamato dei giovani, dei ventenni abbastanza muscolosi che hanno fatto cordone attorno a noi. Dentro c’era la comunità e questi giovani ci proteggevano perché sicuramente i bambini, appena avessero capito che quei regali erano per loro, ci avrebbero assalito. Dovevamo fare le cose con ordine e precisione! Siamo usciti dal convento, c’era il padre priore con la statua di Gesù bambino, poi tutti noi con questi regali, circondati da questo cordone. Siamo andati in ogni zona del quartiere, del campo profughi e in un’ora siamo riusciti a distribuire tutti questi doni. Vedete che il Meeting serve anche per il campo profughi.
DAVIDE PERILLO:
Questo applauso va anche ai ragazzi che fanno questo lavoro qui. Volevo chiederti una cosa: questo evidentemente non era il vostro mestiere. A te e ai tuoi confratelli sarà venuto in mente: “Perché? Non siamo in grado, non siamo in condizione… Perché devo affrontare un problema di questo tipo? Non ho le forze, non ho la possibilità. Che cosa posso fare?”. Perché vi siete buttati in questa cosa?
FEDERICO TRINCHERO:
Non ci sentiamo di esserci buttati. E’ arrivata lei, sono arrivati loro e non hanno neanche bussato perché le porte erano già aperte. Abbiamo fatto una cosa dopo l’altra. Lo ammetto, quando abbiamo capito che erano 10.000 abbiamo avuto un attimo, non dico di panico ma di sgomento: “Ce la facciamo?”. Finora ce l’abbiamo fatta. Abbiamo fatto degli sbagli ma ci siamo acquisiti un’esperienza. Ci proviamo. Non ci siamo pentiti di quello che abbiamo fatto, non ci è sembrato di fare una cosa straordinaria. Fuggire o non accoglierli sarebbe stato da vigliacchi. Facciamolo come siamo capaci. Per fortuna è andata bene, sta andando bene.
DAVIDE PERILLO:
Mentre dentro il Carmelo accadeva questo, fuori si continuava a sparare e a sparare sul serio. Come dicevi prima, c’erano i club dove non si poteva entrare, c’era il famoso chilometro 5. Ad un certo punto, accade imprevedibilmente che il Papa prende la decisione e fa il gesto che abbiamo visto. Che cosa succede?
FEDERICO TRINCHERO:
E’ successo qualcosa di straordinario, di assolutamente imprevisto. Ricordo che il Papa stava tornando dal viaggio nelle Filippine, quando ha annunciato in aereo che sarebbe venuto in Centrafrica. Io ho detto: “Andiamo a verificare, forse intendeva Africa Centrale, è impossibile che venga da noi”. Guardo e dice proprio Bangui. Siamo noi. Lo comunico ai confratelli e non ci credevano. Abbiamo fatto i salti di gioia quando abbiamo saputo che il Papa non soltanto voleva venire ma voleva iniziare con una settimana di anticipo l’Anno della Misericordia a Bangui. Qui la cosa si fa seria. Io lo ammetto, ero tra quelli che avrebbe sconsigliato al Papa di venire perché c’erano due problemi: uno, il fatto che questo Paese, ormai, non ha un esercito che funzioni, non ha un servizio d’ordine. Niente. Come fare a gestire tutta la gente che sicuramente sarebbe accorsa per venire a vedere il Papa? E poi, c’era il problema della sicurezza del Papa e anche della gente che sarebbe venuta. Il giorno prima che venisse Francesco, a Bangui sparavano ancora: in quel momento noi avevamo 7.000 profughi. Come potrà venire?, ci chiedevamo.
Lui per fortuna non ha ascoltato i miei consigli ma quelli del vescovo di Bangui, monsignor Dieudonné Nzapalainga e del nunzio apostolico monsignor Franco Coppola, che invece hanno creduto nella visita del Papa e in modo ostinato hanno detto: “Ce la possiamo fare, ce la dobbiamo fare”. E anche il Papa, a chi faceva presente questo problema, rispondeva che – primo – aveva più paura delle zanzare che in Centrafrica portano la malaria piuttosto che dei gruppi Seleka e anti-Balaka, quindi non era un problema; secondo, che sarebbe venuto in Centrafrica anche con il paracadute. Poi per fortuna veniva dall’Uganda, ha telefonato e ha detto: “Posso venire?”. E il Nunzio ha detto: “Si, venga!”. Il Papa è venuto e tutta la visita si è svolta nel migliore dei modi, ci hanno addirittura fatto i complimenti per l’organizzazione. Non abbiamo strafatto. Ci siamo fatti conoscere dal Papa come siamo.
Poi c’è stato il momento della Porta Santa che è stata aperta alla Cattedrale di Bangui. Io ero lì in quel momento, ero dentro la Cattedrale e avevo paura che il Papa aprisse la porta al contrario, perché lui insiste sempre che la Chiesa deve essere in uscita. “Sta a vedere che sbuca dalla Sacrestia e apre la porta verso la piazza!”. E invece no… ha aperto la porta, come avete visto, verso l’interno. E poi, prima di aprirla, ha detto in italiano, per tre volte: “Bangui diventa la capitale spirituale del mondo”. E non lo sapevamo. Però è stato un momento così straordinario.
Adesso tutti mi chiedono: “Ma cosa vuole dire essere la capitale spirituale del mondo?”. Bisognerebbe chiederlo al Papa, io penso di interpretare il sentimento dei miei confratelli, dei centrafricani, di questo Paese che è diventato un po’ la mia seconda patria, quando rispondo che non è tanto importante l’aggettivo spirituale per noi quanto il sostantivo capitale, perché il Centrafrica è abituato ad essere sempre all’ultimo posto, ormai siamo assuefatti: quando c’è una competizione noi non partecipiamo perché sappiamo già di perdere. Allora, per una volta che qualcuno dice: voi siete la capitale spirituale del mondo, questa è una bella cosa. Per essere la capitale politica o economica sapevamo di non avere chances, ma forse possiamo essere la capitale spirituale del mondo e, almeno per una volta, vivere un complesso di superiorità, abituati come siamo a vivere sempre il complesso di inferiorità. Abbiamo proprio sentito il Papa che diceva all’ultimo arrivato: “Vieni, vieni più in alto”. Come nel Vangelo che abbiamo ascoltato questa mattina: “Gli ultimi saranno i primi”. Lo abbiamo proprio sentito riferito a noi che eravamo gli ultimi: il Papa è venuto, sapeva tutto di noi e ci ha portati così in alto.
Adesso, cosa significa spirituale? Lo stiamo capendo, lo abbiamo vissuto più come una missione che non come una constatazione, un premio che abbiamo ricevuto. E’ un impegno che il Papa ci ha affidato. Vediamo se porterà i suoi frutti questo titolo che abbiamo ricevuto in modo così improvviso. Sicuramente, c’è un primo frutto importante: non soltanto questa visita è avvenuta e il mondo si è accorto che il Centrafrica non è una espressione geografica di una zona dell’Africa centrale ma è un Paese, una Chiesa che esiste. Un primo frutto, un frutto importantissimo è che dopo la venuta del Papa effettivamente c’è stato proprio un cambiamento dalla notte al giorno. Siamo usciti da una situazione di empasse in cui ci trovavamo, per cui avevamo proprio la sensazione di non farcela. E’ triste ma non vedevamo via d’uscita perché il Centrafrica conosce guerre civili da decenni, colpi di stato uno dopo l’altro: sembrava di andare sempre più a fondo. Tutti gli aiuti che arrivavano, le missioni dell’ONU, di altri Paesi, alla fine non risolvevano niente, eravamo proprio scoraggiati. Dopo la visita del Papa, invece, abbiamo sentito un nuovo slancio, un modo diverso di guardare le cose. Ce la possiamo fare, ci siamo detti, e speriamo proprio di farcela. Abbiamo visto innanzitutto che si spara molto meno, quasi niente: a parte qualche episodio circoscritto, la situazione è nettamente migliorata. Di sicuro la visita del Papa, così ostinatamente voluta, direi proprio la sua presenza, al di là delle parole, ha contribuito a cambiare il clima. Il Paese intero, non soltanto la comunità cristiana, ha sentito che sta cominciando qualcosa di nuovo.
DAVIDE PERILLO:
L’abbiamo visto fare quel gesto bellissimo, salire sulla Papamobile insieme con l’imam e varcare questo famoso chilometro 5, quindi entrare nella zona dove, come dicevi tu, fino alla sera prima si sparava. Cosa hai pensato vedendolo fare questa cosa e che cosa hai visto accadere intorno a te?
FEDERICO TRINCHERO:
Effettivamente il Papa ha avuto molto coraggio, perché era una zona rossa dove normalmente non si passa: ha avuto il coraggio di passare e di andare alla moschea e i musulmani del quartiere così lo hanno accolto bene, contenti della sua visita e hanno voluto scortarlo fino allo stadio, dove poi è stata celebrata la Messa. Anche i cristiani erano stupiti, contenti di questo gesto, come se veramente avesse aperto un nuovo percorso per questo Paese, per questa città. Io penso proprio che sia stato un gesto bello e non previsto, che ha fatto scattare qualcosa. Come se tutti riconoscessero che dobbiamo smettere, perché in queste situazioni di guerra c’è poi la vendetta che chiama vendetta, sembra proprio che non ci si possa più fermare. Il gesto del Papa ha significato che ci vuole qualcuno che per primo dica “No, non mi vendico”. Significa dire no alla violenza. Ed effettivamente è successo così: alcuni mesi dopo, c’è stata ancora l’uccisione di qualcuno e tutti ci aspettavamo la reazione. La reazione non c’è stata e questo vuol dire tanto. Penso che sicuramente il gesto del Papa in quei giorni abbia contribuito.
DAVIDE PERILLO:
E cosa sta cambiando invece nella vita all’interno del Carmelo, con le persone che continuate ad ospitare?
FEDERICO TRINCHERO:
Ovviamente, non eravamo abituati a vivere quello che abbiamo vissuto. Mi ricordo che ci siamo radunati e abbiamo detto: “Possiamo fare due cose. O li mandiamo via o andiamo via noi. Questa era l’alternativa. Non abbiamo mai pensato seriamente a mandarli via, soltanto qualche volta, quando ci facevano arrabbiare. Poi, sai, quando un prete manda qualcuno a farsi benedire, chissà perché torna sempre indietro… In questi casi, meglio non benedire nessuno! Ci siamo detti: “Dobbiamo vivere con loro”. Ma nello stesso tempo, avevamo molta nostalgia della nostra vita. Per settimane non avevamo avuto orario, sentivamo proprio la voglia di riprendere le nostre abitudini, di rimetterci l’abito. Sono state notte in cui dormivamo vestiti, con le scarpe, pronti a scattare in caso di allarme. Piano piano, quando la situazione si è calmata, abbiamo ripreso il nostro orario di preghiera, i nostri spazi di fraternità, di intimità: ne avevamo bisogno. E abbiamo capito che era possibile conciliare le legittime esigenze di questa povera gente che viveva intorno al convento con le esigenze della nostra comunità, il nostro orario di preghiera, la Casa di formazione.
E quindi abbiamo provato a conquistare, oggi la preghiera del mattino, domani i vespri, poi a mangiare insieme: infine, abbiamo ripreso con la nostra vita. E abbiamo visto che anche i profughi capivano questa nostra esigenza: sono sempre stati molto rispettosi, sapevano che potevano interrompere la nostra preghiera soltanto se c’era proprio uno che stava per morire o per nascere. In quei casi sanno che possono disturbarci – se così si può dire-, loro ci chiamano e noi corriamo in aiuto, facendo quello che c’è da fare. Posso dire che, nel mio Ordine, la cosa più importante del nostro carisma è proprio la preghiera, l’orazione. Ma non ho mai sentito quello che stavo facendo in contraddizione con la mia vita di preghiera, non ho mai avuto l’impressione di rubare tempo al Signore. Tanto più quando poi siamo riusciti a trovare un modus vivendi con loro. Soprattutto alle 18: in Africa il tramonto è sempre alla stessa ora, e poi diventa buio. E’ il momento in cui il campo profughi si anima di più, tutti ritornano, la gente mangia e noi preghiamo in silenzio. Ormai siamo così abituati al loro brusio che non ci dà fastidio, è una musica che ci accompagna. Quando dovranno partire, sentiremo un po’ la loro mancanza. Loro hanno dato sostanza e verità alla nostra preghiera.
DAVIDE PERILLO:
Hai detto una volta che per voi questi ospiti sono un dono da non sprecare. Cosa vuole dire?
FEDERICO TRINCHERO:
Significa che questi ospiti ci hanno costretto a vivere il vangelo. Avere Gesù così a portata di mano è una occasione da non perdere, sarebbe da vigliacchi, da stupidi. È vero che eravamo stanchi – una volta sono addirittura svenuto per la stanchezza – però poi ci si riprende. Questa è una occasione unica, ne siamo stati sempre certi. Non capita a tutti di alzarsi al mattino e dire “sto facendo la cosa giusta”. Qualcuno ha dei dubbi: “Sto facendo la cosa giusta? La vita che sto vivendo è quella che vorrei vivere?”. Ecco, noi abbiamo avuto la grazia di dire sì, questa è la cosa giusta, non ci stiamo sbagliando, andiamo avanti così come siamo capaci. Ovviamente, avevamo anche il sostegno di tanti amici che non conoscevamo prima e che facevano il tifo per noi.
DAVIDE PERILLO:
Sentirvi dire le parole che abbiamo sentito, “voi non siete sconfitti ma vincitori!” cosa sta cambiando per voi, cosa significa?
FEDERICO TRINCHERO:
Il Papa ha detto quella frase durante la piccola veglia che ha fatto con i giovani. Ha chiesto loro di impegnarsi in due cose: la preghiera e il lavorare per la pace, amare e perdonare. Penso che significhi proprio essere vincitori sul male. Il Papa ha chiesto uno scatto, un cambiamento, una conversione. In Centrafrica, da tanti anni a questa parte si parla del disarmo: bisogna disarmare i ribelli da una parte e dall’altra. Il vescovo di Bangui invece continua a ripetere che “bisogna disarmare la testa e il cuore!”. Se non disarmiamo noi stessi, non serve a niente non avere kalashnikov o machete. Quando il Papa ha detto “saremo vincitori” sul male, sull’odio, sulla violenza, sulla vendetta, si è rivolto ai giovani, essendo l’80% della popolazione. Loro non sono il futuro, sono il presente, sono loro che hanno in mano questo Paese. E’ come dire: smettetela di dare colpa agli altri. Perché questo è un po’ un vizio nazionale in Centrafrica; è colpa della Francia, è colpa dell’Onu, è colpa di quell’altro… No! Basta dire che è colpa di qualcun altro! Bisogna imparare a dire che tocca a noi, che se cambio io, il Paese cambia!
E poi, non farsi ingannare da proposte facili, i centrafricani sono stati ingannati troppe volte, devono avere il coraggio di un riscatto, dire no. Io faccio sempre questo paragone con la nostra Italia del dopoguerra: hanno dovuto ricostruire il Paese. Ci sono state persone eccellenti che hanno promosso cambiamenti importanti. Se noi oggi viviamo in un Paese bello e democratico, è grazie a loro. Io mi trovo per caso a vivere in Centrafrica, dove ci sono giovani che non hanno un Paese da ricostruire ma da costruire per la prima volta. C’era poco o niente, quel poco che c’era è stato distrutto: c’è tutto da costruire. Potete immaginare che responsabilità e anche che onore sia essere testimone di questo momento, accompagnare e sostenere i giovani in questo momento così fondamentale per la storia del loro Paese!
DAVIDE PERILLO:
Ho ancora due domande da farti: una riguarda proprio i giovani, perché tu sei maestro di novizi. Quanti sono i tuoi studenti che stanno facendo il percorso?
FEDERICO TRINCHERO:
Sono per fortuna tanti e si sta aggiungendo anche qualche profugo. A settembre dovremmo essere 11, una squadra di calcio, possiamo farcela!
DAVIDE PERILLO:
Per questo motivo avete preferito lasciare il campo da calcio! Avere lì il Papa, vederlo fare questi gesti, sentirgli dire queste cose, che cosa ha significato per loro? Li vedi crescere? Sono toccati da questo fatto?
FEDERICO TRINCHERO:
Si, sono stati molto toccati. Tenete conto che per la prima volta tutti loro hanno visto un Papa. Sono rimasti sorpresi: “Qui esistiamo!”. E – mi verrebbe da dire – “siamo un bene per la Chiesa, per il Papa, per il mondo”. Questo gesto di Francesco li ha sicuramente toccati e io li ho visti cambiare, smetterla di piangersi addosso e dire: “Vogliamo fare qualcosa, tocca a noi!”.
DAVIDE PERILLO:
Visto che accennavi al fatto che alcuni di questi ragazzi sono profughi, mi è venuta in mente la storia di Alen, raccontacela un attimo.
FEDERICO TRINCHERO:
Sì, è una storia molto bella. Alen è un giovane centrafricano di 22 anni, che è arrivato al Carmelo senza neppure sapere che esisteva, fuggendo dalla guerra. Lì ha ritrovato anche la sua famiglia che non trovava più e ha dormito per diverse settimane per terra davanti alla porta del convento. Notavo che veniva a messa tutte le mattine. C’era tanta gente che veniva a messa, però questo giovane era così interessato, così puntuale che mi colpiva. Più o meno a febbraio, quindi dopo tre mesi che stava lì come profugo, ha chiesto di parlarmi. Mi sono detto: “Chissà cosa vorrà…”. Ci sediamo e così, senza tante parole, mi dice: “Padre, vorrei essere come voi”. “Speriamo un po’ meglio” stavo per dirgli! Ma ho capito che proprio era rimasto affascinato, senza una particolare propaganda vocazionale, che in Centrafrica non si fa. “Vi vedo pregare così uniti. Siete nel campo profughi, poi sparite e riapparite nei momenti in cui preghiamo”. Poi mi ha chiesto: “Che cos’è quel libro che avete in mano?”. Era il breviario e lui era proprio incuriosito. Mi è venuto in mente che nella regola di san Benedetto c’è scritto che per verificare se un giovane veramente cerca il Signore, se è adatto per la vita monastica, gli si chiede di stare cinque giorni davanti alla porta del Monastero. Beh, Alen era lì da tre mesi… Così ha cominciato a vivere con noi: ha fatto la maturità, ed è la terza volta! Pregate che ce la faccia perché ha una voglia matta di entrare in convento, di cominciare il cammino. È un ragazzo bravo, intelligente, molto sensibile e trasparente. Io spero che ce la possa fare. Vi farò sapere se la cosa va avanti.
DAVIDE PERILLO:
Questa è veramente l’ultima cosa che ti chiedo. Per te personalmente, questo invito alla conversione che ha fatto il Papa, cosa vuol dire?
FEDERICO TRINCHERO:
Significa che non si può dire che la conversione sia una cosa fatta una volta per tutte. E significa anche accettare quello che succede, che non prevediamo. Posso dire che le cose più belle, che più mi hanno cambiato e mi hanno reso felice – spero anche più cristiano, più discepolo del vangelo -, sono quelle che non ho previsto, che non ho voluto. Però sono le cose che mi hanno cambiato di più. E spero che, nonostante tutti i limiti del mio carattere, abbiano permesso al Signore di fare qualcosa di bello attraverso di me, soprattutto attraverso i confratelli che hanno vissuto con me quest’avventura.
DAVIDE PERILLO:
Grazie. Credo che la faccia e il sorriso di padre Federico, insieme con le parole che ci ha detto, siano la testimonianza più bella di che cosa può generare un fatto come quello che ha compiuto il Papa. Perché, vedete, tutta questa storia che era iniziata già prima per loro, lì si è approfondita, quel giorno davanti a quella porta si è approfondita. E si capisce benissimo da quello che raccontava che c’è un prima e un dopo, quel momento dell’inizio in cui quella porta si è spalancata e un dopo in cui si è praticamente smesso di sparare. La sera prima ci sia ammazzava, da quel momento è successo qualcosa, sta succedendo qualcosa, si sta rigenerando una umanità. E l’abbiamo sentito descrivere e raccontare molto bene. Allora, c’è un prima e un dopo l’apertura di quella porta, questa è la cosa impressionante perché è vera, perché accade. Non è una premessa spirituale, non è un desiderio vago, è qualcosa che succede, che vediamo succedere. C’è un prima e un dopo l’apertura di quella porta. Di quella porta che si spalanca. Ma non perché il giorno dopo, magicamente, i problemi si risolvano, perché i problemi ci sono ancora tutti. C’è un altro clima, c’è un altro atteggiamento, c’è un’altra predisposizione, c’è un’altra apertura all’altro. C’è la ripresa del riconoscimento che l’altro è un bene. Non si sono risolti i problemi. Ma quella porta che ha aperto il Papa, e che in qualche modo riecheggia la porta del convento che Padre Federico e i suoi fratelli hanno spalancato la sera che hanno sentito bussare e hanno trovato 600 persone che chiedevano aiuto, la porta spalancata dal Papa che riecheggia la porta aperta del convento di Bangui, non cambia magicamente la cose ma apre una possibilità permanente, dice a tutti che c’è nella storia, c’è nella realtà un luogo che ti accoglie e che ti ama, a prescindere dal male che fai, dal peccato che compi, dalla miseria che siamo, dalla fatica, dalla difficoltà. È presente nella storia la misericordia di Dio, è presente, è reale. E se abbiamo la disponibilità di renderci conto di questo, se ci accorgiamo di questo, se veniamo colpiti, come Alen che dice “vedo un mondo diverso, vorrei essere come voi”, ci rendiamo conto che c’è sempre una possibilità di ripartire. Insomma, che ci sia una porta spalancata, la porta che ha aperto Papa Francesco, la porta del convento di Bangui che rimane aperta come la Porta Santa, indica che c’è un abbraccio che ti accoglie sempre, che da quella porta puoi passare se siamo disponibili, come diceva padre Federico, alla conversione, cioè ad abbracciare le cose più belle che sono quelle che non ho voluto, diceva lui. Allora, l’augurio che ci facciamo è questa disponibilità a lasciarci amare, a lasciarci abbracciare da questa misericordia, questa disponibilità di fronte a questa porta che si apre nella storia e rimane nella storia non come vogliamo, come immaginiamo noi ma come Dio decide per noi. Il gesto del Papa ci richiama imponentemente a questo e per questo Bangui è diventata, anzi è, perché il Giubileo è ancora in corso, grazie a Dio!, la capitale spirituale del mondo. Perché per noi è un richiamo a questo: che la misericordia è qualcosa di reale, basta dire di sì e lasciarci amare. Grazie, buon proseguimento a tutti. Permettetemi solo di ricordarvi che un posto così, un luogo così, vive e cresce anche grazie al contributo di tutti noi, per cui, come sapete, prosegue la campagna di fundraising nelle postazioni del Meeting. È sempre possibile donare perché un posto così esista. Grazie, buon proseguimento, buon Meeting.