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Artigiani di pace. La passione di conciliare
In diretta su Askanews.
S.Em. Card. Dieudonné Nzapalainga, Arcivescovo di Bangui, Centrafrica; S.E. Mons. Paolo Pezzi, Arcivescovo Metropolita della Madre di Dio a Mosca; S.B. Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini. Introduce Bernhard Scholz, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ETS.
La guerra in Ucraina ci ha reso presente che la relativa pace di cui l’Europa ha goduto dopo il ’45 non era scontata. In questi anni ci siamo dimenticati troppo spesso delle guerre e dei tanti conflitti nelle altre parti del mondo. In Africa e in Medio Oriente tante persone vivono sotto una oppressione politica, soffrono di povertà, rischiano la persecuzione e vengono uccisi per motivi etnici. La Chiesa si è sempre impegnata per il superamento delle contrapposizioni e della violenza, cercando di favorire il dialogo e il perdono. Testimoniare questa passione di conciliare anche in situazioni che sembrano irrisolvibili è più che mai necessario per sostenere tutti coloro che vogliono costruire la pace a partire della loro vita.
Con il sostegno di Intesa Sanpaolo, Tracce.
ARTIGIANI DI PACE. LA PASSIONE DI CONCILIARE
Bernhard Scholz: Una passione per l’uomo, questo è il titolo, l’anima di questa quarantatreesima edizione del Meeting di Rimini, al quale di cuore vi do il benvenuto. Saluto e ringrazio per la loro presenza le autorità civili, religiose e militari. Nel Meeting del 1985 don Luigi Giussani ha detto, con tutto l’impeto che caratterizzava a sua persona, che “Il Cristianesimo non è sorto come religione, ma come una passione per l’uomo”. È da lì che è nato il tema che ci guida in questo Meeting nel centenario della sua nascita. Ci troviamo in un momento storico drammatico: la guerra contro l’Ucraina ha inflitto ingenti sofferenze alla popolazione e ha portato a una geopolitica sempre più conflittuale che rende la costruzione della pace ogni giorno più difficile, ma anche più urgente. La guerra ha reso ancora più ardue le sfide della transizione ecologica che dobbiamo affrontare senza indugio e con il massimo impegno. Avvertiamo anche le ricadute della guerra sull’economia mondiale, sulle risorse alimentari ed energetiche, e, anche il tessuto sociale, già segnato da crescenti frammentazioni, appare meno disponibile alla compattezza e al coraggio necessari in un momento di crisi. Di fatto, vediamo emerge con ancora più chiarezza le grandi domande e fragilità che attraversano la nostra vita sociale, la nostra cultura.
Siamo di fronte a un bivio: o queste condizioni ci portano ad ulteriori chiusure, rassegnazioni o indifferenze, che normalmente si alternano con momenti di rabbia e di ribellione, oppure le domande anche sofferte e dolorose ci aprono alla ricerca di una libertà capace di affrontare circostanze così difficili con responsabilità e creatività. E questa libertà sarà tanto più autentica e forte quanto più si alimenta da questa passione che don Giussani ci ha testimoniato e comunicato. Non siamo condannati ad essere oggetti di una storia che ci sorpassa con un potere cinico e cieco di fronte al destino di ognuno di noi, ma siamo chiamati ad essere soggetti di una storia che può iniziare di nuovo in ogni momento in cui la nostra libertà attinge a questa passione infinita per ognuno. Ed è questo l’approccio con cui affronteremo in questo Meeting le grandi questioni culturali, gli interrogativi urgenti che si presentano nel mondo dell’economia, del terzo settore, della vita sociale, politica e, soprattutto, nell’educazione delle nuove generazioni.
Il Santo Padre papa Francesco ci ha mandato anche quest’anno un messaggio che ci introduce a una consapevolezza ampia e profonda di questa passione. Leggo il messaggio del Santo Padre che è indirizzato al vescovo di Rimini, monsignor Francesco Lambiasi.
«Eccellenza Reverendissima, il Santo Padre La saluta di cuore e Le affida, per mio tramite, questo messaggio per il prossimo Meeting per l’amicizia fra i popoli, intitolato «Una passione per l’uomo». Nel centenario della nascita del Servo di Dio Mons. Luigi Giussani, gli organizzatori intendono fare memoria grata del suo zelo apostolico, che lo ha spinto a incontrare tante persone e a portare a ciascuno la Buona Notizia di Gesù Cristo. Disse infatti nel suo discorso al Meeting del 1985: «Il cristianesimo non è nato per fondare una religione, è nato come passione per l’uomo. […] L’amore all’uomo, la venerazione per l’uomo, la tenerezza per l’uomo, la passione per l’uomo, la stima assoluta per l’uomo».
A volte sembra che la storia abbia voltato le spalle a questo sguardo di Cristo sull’uomo. Papa Francesco lo ha sottolineato in tante occasioni: «La fragilità dei tempi in cui viviamo è anche questa: credere che non esista possibilità di riscatto, una mano che ti rialza, un abbraccio che ti salva, ti perdona, ti risolleva, ti inonda di un amore infinito, paziente, indulgente; ti rimette in carreggiata» (Il nome di Dio è Misericordia. Una conversazione con Andrea Tornielli, Città del Vaticano-Milano 2016, 31). È questo l’aspetto più penoso dell’esperienza di tanti che hanno vissuto la solitudine durante la pandemia o che hanno dovuto abbandonare tutto per sfuggire alla violenza della guerra. Ecco allora che la parabola del buon samaritano è oggi più che mai una parola-chiave, perché è evidente come «gli uomini nel loro intimo aspettino che il samaritano venga in loro aiuto, che egli si curvi su di essi, versi olio sulle loro ferite, si prenda cura di loro e li porti al riparo. In ultima analisi essi sanno di aver bisogno della misericordia di Dio e della sua delicatezza […], di un amore salvifico che venga donato gratuitamente» (Intervista a S.S. il Papa emerito Benedetto XVI, in Per mezzo della fede, a cura di Daniele Libanori, Cinisello Balsamo 2016, 129).
Il Vangelo addita il buon samaritano come modello di una passione incondizionata per ogni fratello e sorella che si incontra lungo il cammino; e per questo ha un’assonanza profonda con il tema del Meeting: «Prendiamoci cura della fragilità di ogni uomo, di ogni donna, di ogni bambino e di ogni anziano, con quell’atteggiamento solidale e attento, l’atteggiamento di prossimità del buon samaritano» (Enc. Fratelli tutti, 79).
Non si tratta solo di generosità, che alcuni hanno di più e altri meno. Qui Gesù ci vuole mettere davanti alla radice profonda del gesto del buon samaritano. Papa Francesco la descrive così: «Riconoscere Cristo stesso in ogni fratello abbandonato o escluso (cfr Mt 25,40.45). In realtà, la fede colma di motivazioni inaudite il riconoscimento dell’altro, perché chi crede può arrivare a riconoscere che Dio ama ogni essere umano con un amore infinito e che gli conferisce con ciò una dignità infinita. A ciò si aggiunge che crediamo che Cristo ha versato il suo sangue per tutti e per ciascuno, e quindi nessuno resta fuori dal suo amore universale» (ibid., 85).
Questo mistero non finisce mai di stupirci, come proprio Don Giussani testimoniò alla presenza di San Giovanni Paolo II il 30 maggio 1998: «“Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. Nessuna domanda mi ha mai colpito, nella vita, così come questa. C’è stato solo un Uomo al mondo che mi poteva rispondere, ponendo una nuova domanda: “Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà se stesso? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio di sé?”. […] Solo Cristo si prende tutto a cuore della mia umanità» (Generare tracce nella storia del mondo, Milano 2019, 78).
È questa passione di Cristo per il destino di ciascuna creatura che deve animare lo sguardo del credente verso chiunque: un amore gratuito, senza misura e senza calcoli. Ma – ci chiediamo – tutto ciò non potrebbe apparire una pia intenzione, rispetto a quanto vediamo accadere nel mondo di oggi? Nello scontro di tutti contro tutti, dove gli egoismi e gli interessi di parte sembrano dettare l’agenda nella vita dei singoli e delle nazioni, come è possibile guardare chi ci sta accanto come un bene da rispettare, custodire e curare? Come è possibile colmare la distanza che separa gli uni dagli altri? La pandemia e la guerra sembrano avere allargato il fossato, facendo arretrare il cammino verso un’umanità più unita e più solidale.
Ma sappiamo che la strada della fraternità non è disegnata sulle nuvole: essa attraversa i tanti deserti spirituali presenti nelle nostre società. «Nel deserto – diceva Papa Benedetto XVI – si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza» (Omelia nella S. Messa di apertura dell’Anno della fede, 11 ottobre 2012). Papa Francesco non si stanca di indicare la strada che attraversa il deserto portando vita: «Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con sé stessi. Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 199).
Recuperare questa consapevolezza è decisivo. Una persona non può fare da sola il cammino della scoperta di sé, l’incontro con l’altro è essenziale. In questo senso, il buon samaritano ci indica che la nostra esistenza è intimamente connessa a quella degli altri e che il rapporto con l’altro è condizione per diventare pienamente noi stessi e portare frutto. Donandoci la vita, Dio ci ha dato in qualche modo sé stesso perché noi, a nostra volta, ci diamo agli altri: «Un essere umano è fatto in modo tale che non si realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria pienezza se non attraverso un dono sincero di sé» (Enc. Fratelli tutti, 87). Don Giussani aggiungeva che la carità è dono di sé “commosso”. In effetti, è commovente pensare che Dio, l’Onnipotente, si sia curvato sul nostro niente, abbia avuto pietà di noi e ci abbia amato ad uno ad uno di un amore eterno.
Qual è il frutto di chi, imitando Gesù, fa dono di sé? «L’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti» (ibid., 94). Un abbraccio che abbatte i muri e va incontro all’altro nella consapevolezza di quanto vale ogni singola concreta persona, in qualunque situazione si trovi. Un amore all’altro per quello che è: creatura di Dio, fatta a sua immagine e somiglianza, dunque dotata di una dignità intangibile, di cui nessuno può disporre o, peggio, abusare.
È questa amicizia sociale che, come credenti, siamo invitati ad alimentare con la nostra testimonianza: «La comunità evangelizzatrice/cristiana si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo» (Evangelii gaudium, 24). Quanto bisogno hanno gli uomini e le donne del nostro tempo di incontrare persone che non impartiscano lezioni dal balcone, ma scendano in strada per condividere la fatica quotidiana del vivere, sostenute da una speranza affidabile!
Papa Francesco insiste nel chiamare i cristiani a questo compito storico, per il bene di tutti, nella certezza che la fonte della dignità di ogni essere umano e la possibilità di una fraternità universale è il Vangelo di Gesù incarnato nella vita della comunità cristiana: «Se la musica del Vangelo smette di vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e ogni donna» (Discorso nell’Incontro ecumenico, Riga – Lettonia, 24 settembre 2018).
Il Santo Padre auspica che gli organizzatori e i partecipanti al Meeting 2022 accolgano con cuore lieto e disponibile questo appello, continuando a collaborare con la Chiesa universale sulla strada dell’amicizia fra i popoli, dilatando nel mondo la passione per l’uomo. E mentre affida tale intenzione all’intercessione di Maria Santissima, invia di cuore la Benedizione Apostolica.
Formulando il mio personale augurio di un Meeting che risponda pienamente alle attese, mi confermo con sensi di distinto ossequio dell’Eccellenza Vostra Reverendissima dev.mo Pietro Card. Parolin Segretario di Stato».
Ringrazio a nome di tutti il Santo Padre per queste sue parole, che sicuramente verranno riprese in tanti incontri, in tanti momenti di dialogo in questo Meeting.
Anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ci ha onorato di un suo messaggio:
«Il Meeting di Rimini si propone anche quest’anno come preziosa di incontro, logo di dialogo, spazio aperto di conoscenza e cultura. Un evento che si rinnova da quarantatré anni, a riprova delle sue radici profonde e che continua così a recare il proprio contributo alla crescita della nostra società, attraverso la sollecitazione della coscienza di tanti giovani. Il titolo per l’edizione 2022 «Una passione per l’uomo» è dotata di grande forza, accresciuta, se possibile, dal contesto nel quale viviamo. Più che mai il tema della dignità della persona, della sua difesa, della salvaguardia della sua libertà e integrità, è al centro della sfida che si pone all’uomo contemporaneo. Innanzitutto, il tema del diritto alla vita. A poca distanza da noi, nel cuore dell’Europa, si combatte una guerra scellerata, provocata dall’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina. L’Europa è risorta dal Nazifascismo proprio abiurando alla volontà di potenza e alla guerra che ne è diretta conseguenza, ai totalitarismi, alle ideologie impregnate alla supremazia sia etnico-nazionale sia ideologica. Questa guerra di invasione con i lutti, le distruzioni, gli odi che continua a generare, scuote l’intera umanità nei suoi valori fondativi e l’Europa nella sua stessa identità. La passione per l’uomo ha, invece, come presupposto la pace, come orizzonte la convivenza democratica, la cooperazione tra i popoli, l’equità sociale, il rispetto di ogni persona nella sua libertà, nei suoi diritti, nelle sue diversità. Un’aspirazione, una speranza, un dovere, che nasce dalla coscienza e dal desiderio più profondo dei singoli e delle comunità. Una impresa che sfida tutti noi. Ci sfida sul terreno della tutela di ogni persona, come nel caso del contrasto della pandemia, a partire da chi è più debole e in difficoltà. Ci sfida sul terreno della nostra capacità di solidarietà, accoglienza e integrazione. ci richiama a un senso di giustizia che non tollera regressioni con l’aumento delle povertà e delle emarginazioni. La persona è al centro e viene prima di ogni altro aspetto. Ed è sempre la fedeltà alla persona a porci di fronte alla sfida più grande della contemporaneità: la salvezza del pianeta dallo sfruttamento di cui l’uomo stesso si è reso responsabile. Il nostro è tempo, come ripete papa Francesco, di ecologia integrale. L’uomo deve ricostruire l’equilibrio con l’ambiente e le risorse naturali, e può farlo solo con uno spirito di solidarietà. Le azioni quotidiane vanno ispirate ad uno sguardo che ci veda consapevoli di essere partecipi e artefici di una storia più grande ispirata a coerenza fino nei gesti più piccoli. Con questo spirito rivolgo il mio cordiale saluto e auguro giornate fruttuose a quanti prenderanno parte del Meeting e alla numerosa comunità dei volontari che lo organizzano. Sergio Mattarella».
Ringrazio anche a nome di tutti il Presidente della Repubblica, e sicuramente coglieremo il suo invito ad essere partecipi e artefici di una storia più grande che è proprio il cuore del Meeting.
Sono molto grato che possiamo inaugurare questo Meeting con la testimonianza di tre persone che papa Francesco chiama artigiani di pace e che vivono la passione di conciliare, con immenso impegno e anche con grande sacrificio. Ringrazio per la loro presenza questa mattina Sua Eminenza il Cardinale Dieudonné Nzapalainga, Arcivescovo di Bangui, Centrafrica.
Saluto Sua Eccellenza monsignor Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini.
E in collegamento con noi saluto Sua Eccellenza Monsignor Paolo Pezzi, Arcivescovo della Madre di Dio di Mosca.
La guerra in Ucraina ci ha reso presente che la relativa pace, di cui l’Europa ha goduto dopo il ‘45, non era scontata, ma ci ha anche reso più sensibili per le tante guerre nel mondo che troppo spesso abbiamo dimenticato. Anche in questo momento sono milioni di persone che gridano, a voce alta o a voce soffocata, il loro dolore, sofferenze, causate da guerre, torture, deportazioni. Voi avete deciso di ascoltare questi gridi delle persone a voi affidate e non vi siete risparmiate per essere vicino a loro per cogliere anche le occasioni più piccole per favorire la conciliazione, il perdono, la fratellanza. Ecco allora la domanda con la quale abbiamo invitato Lei, eminenza. In mezzo a tanti conflitti, anche molto violenti, nel suo continente, ci sono stati tanti momenti di conciliazione. Com’è stato possibile superare i conflitti e le contrapposizioni che trovano i loro motivi anche in un perpetuarsi di oggettive ingiustizie? Come non arrendersi alle inclinazioni, alla vendetta?
A Lei la parola. Grazie di essere con noi.
Dieudonné Nzapalainga: Grazie, buongiorno a tutti. Sono contento di essere qui con voi, ma non parlerò in italiano. Il mio intervento sarà in francese. “Artigiani di pace, la passione di conciliare”. Il mondo oggi ha un vero bisogno di pace. La pace sta diventando il bene più prezioso che l’umanità sta cercando. La ricerca della pace avviene in vari modi e con vari mezzi: alcuni ritengono che la vera pace sia quella ottenuta con la forza, cioè con l’uso delle armi. In questo senso la pace è equiparata alla vittoria del più forte sul più debole, alla vittoria di chi ha più fuoco su chi ne ha troppo poco. Questo approccio, che è ancora attuale nel mondo di oggi, definisce la pace, quindi, come assenza di guerra, come assenza di conflitto. La pace è uno stato di non belligeranza quindi, la pace è la rinuncia di uno dei protagonisti al conflitto aperto. Ma, in realtà, questa è una concezione puramente politica della pace. ma nel mondo ci sono altre persone che hanno una concezione diversa della pace: la pace è la capacità di rinunciare alla violenza anche quando si è capaci di perpetrare violenza. La pace si ottiene attraverso il dialogo, la pace è il frutto di un accordo raggiunto, spesso, dopo grandi difficoltà. Per ottenere la pace occorre scendere dal proprio piedistallo per andare incontro all’altro, in quanto altro. Questa pace affonda le sue radici in Dio. Per questo noi la riceviamo da Gesù Cristo che ha dato la propria vita, per riconciliare popoli, razze e nazioni. Secondo l’apostolo Paolo: «Cristo è la nostra pace, Colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne». Questo preso dalla lettera di San Paolo agli Efesini, versetto 2-14.
Come possiamo essere artigiani di pace oggi, in un contesto mondiale in cui si creano blocchi di alleanze, in cui vengono tracciati assi netti del bene e del male? Il nostro intervento desidera condividere l’esperienza del nostro impegno del difficile percorso di riconciliazione e di pace nella Repubblica centrafricana, ma anche, più in generale, in questo mondo perennemente in conflitto.
Ottenere la pace in tempi di guerra. «Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt. 5, 9). Per conciliare o ri-conciliare gli uomini in conflitto, occorre essere artigiani di pace, sulle orme di Gesù Cristo. Al di là della semplice definizione ed etimologia, la pace è soprattutto e prima di tutto un impegno, una determinazione esistenziale a creare un contesto di vita in cui la convivenza sia possibile. E ciò è possibile solo attingendo le energie necessarie dal profondo della nostra umanità. Ed io attingo queste energie soprattutto dalla Bibbia da cui escono parole che danno pace e portano vita. Ottenere la pace in tempo di guerra può sembrare illusorio o addirittura utopico, ma, di fatto, non è impossibile. Essere artigiani di pace richiede una grande capacità di giudizio e di analisi per poter avere un’ermeneutica giusta e oggettiva del conflitto in atto. L’artigiano di pace non deve scegliere da che parte stare, deve stare con tutti, essere imparziale, senza mai nascondere o tradire la verità. Ricordo ancora le ore buie vissute dal mio paese, la Repubblica centrafricana, e tutto quello che ha vissuto. Effettivamente quando i ribelli hanno preso il controllo del paese nel 2013, le violazioni dei diritti umani erano all’ordine del giorno. Come vescovo e pastore non ho mai smesso di denunciare l’esazione e i crimini perpetrati contro la popolazione civile, abbandonata al suo triste destino. Un giorno alcuni uomini d’affari rumeni sono venuti da me a nome dell’autorità per offrirmi una somma di 80mila euro. Ho rifiutato. Altrimenti non avrei potuto continuare a difendere i deboli e gli oppressi, perché così loro avrebbero comprato il mio silenzio. La preghiera e la parola di Dio sono stati le fonti principali della mia lotta contro il male e contro l’opposizione diffusa. Mi sono lasciato guidare dall’esortazione di San Paolo a Timoteo: “Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (Seconda Lettera di San Paolo a Timoteo, 4, 1-2).
Questo cammino è certamente arduo, difficile, cosparso di spine ma dobbiamo sempre percorrerlo, dobbiamo sempre procedere su questo sentiero di prove anche nella notte più buia dell’ignoto, dobbiamo sempre osare aprire una breccia per far brillare la luce, trovare un barlume di speranza.
La perseveranza e la resilienza: l’esperienza dimostra che spesso la nostra passione e il nostro desiderio di conciliare, riunire ed unire vengono percepiti in maniera diversa dalle parti in conflitto; a volte possiamo essere considerati come un bersaglio come un testimone scomodo, che quindi occorre eliminare. Anche qui ricordo ancora momenti drammatici della crisi nella Repubblica Centro Africana. Sono profondamente convinto che mettendoci veramente, fermamente al servizio della pace riceviamo in cambio una forza invisibile che ci aiuta a superare le prove. Ho sperimentato di persona la mano potente, attiva di Dio in quei momenti così difficili e posso dire che Dio è vittorioso e l’ho visto con in miei occhi, l’ho constatato moltissime volte in questo periodo così buio. Ho girato tutta Bangui, la capitale, senza mai essere arrestato. Quando sentivo che i ribelli stavano saccheggiando qualche luogo, mi precipitavo lì e a volte arrivavo in tempo per scacciarli prima che prendessero tutto. Correvo dietro ai ribelli armati a mani nude ma spinto e guidato dalla forza della fede; come disse l’apostolo Paolo: “Ho creduto perciò ho parlato” e soprattutto cercavo di confortare, consolare, rassicurare. Erano i miei sacerdoti, i miei agenti pastorali, i miei fedeli che erano in pericolo. Il lupo era in agguato, voleva divorarli ma io non li avrei abbandonati; inoltre non difendevo solo i cristiani bensì l’essere umano. Anche i mussulmani e i protestanti avevano bisogno di aiuto, come mi disse una volta Papa Francesco che a Bangui era rimasta una sola voce che rimaneva, era la sua voce. Quest’unica voce risuonava ancora più forte insieme ad altre perché io non ero solo, ero con i miei fratelli, l’Iman responsabile della Comunità Islamica del Centrafrica e il pastore responsabile delle Chiese Protestanti del Centrafrica. Tutti insieme rischiavamo molto ed eravamo pronti a morire insieme per difendere una causa giusta, per dare voce a chi voce non ne aveva, per essere la voce della maggioranza silenziosa terrorizzata dall’orrore della violenza che dilagava.
A dire il vero non ero l’unico ad essere preso di mira. Un giorno, mentre il presidente Djotodia era in visita in Benin, è stato intervistato dai giornalisti sulla situazione in Centrafrica; in sostanza ha spiegato che a Bangui stava tornando la pace, altri giornalisti sono andati a trovare il reverendo pastore greco Bangu, membro della piattaforma delle Confessioni Religiose, e gli hanno chiesto cosa pensasse di quelle dichiarazioni e lui rispose in modo molto diretto dicendo che non sapeva se il Presidente Djotodia avesse degli agenti dei servizi segreti ma quello che si vedeva qui a Bangui non era affatto la pace. Ovviamente l’affermazione arrivò alle orecchie di Djotodia e due giorni dopo il pastore fu convocato e arrestato. Prima di andare alla stazione di polizia era riuscito ad avvertirmi e mi disse: “Sono in stato di arresto.” Io allora mi sono cambiato, ho preso dei vestiti, un maglione, e sono andato subito da lui, ho salutati il commissario, un cristiano, e gli ho detto:” Il pastore ha denunciato e annunciato la verità e ora è stato arrestato; vengo quindi a costituirmi insieme a lui e a dichiararmi prigioniero.” Il poliziotto era infastidito; dalle 18 alle 23.30 sono rimasto là fuori, seduto su una sedia e alla fine; siamo riusciti a liberarlo all’una di notte. Volevano lasciarlo al posto di polizia per due giorni con l’idea di intimidirlo, ma la solidarietà l’ha impedito e ha sventato questo piano. Questo episodio ci ha avvicinato molto alla comunità protestante; sono convinto fermamente che l’ecumenismo si costruisca anche con i fatti.
Ottenere la pace significa cambiare le cose, la vera pace non si ottiene solo con gli amici ma soprattutto con chi si considera come un nemico. Dobbiamo inventare parole che facciano cambiare le cose, parole liberatrici, parole che danno perdono. Quando il linguaggio umano creerà le proprie parole di pace, di armonia, di convivenza, di amore allora sì che si ristabilirà la nostra umanità e potremo di nuovo cantare l’inno all’amore e lasciare che la vita fluisca in ciascuno di noi. Il nostro linguaggio è ancora pieno di parole legate alla guerra, alla violenza, all’odio, al risentimento, alla vendetta. L’artigiano di pace è colui che deve inventare un nuovo lessico, privo di odio. Spesso sono irritato, indignato, quando vedo in televisione discorsi che invece vogliono alimentare le fiamme chiedendo l’invio di armi. Non dimentichiamoci mai che la violenza genera violenza. Dobbiamo imparare ad uscire da questa spirale e da questa logica di guerra che vuole risolvere tutto con le armi. È in gioco la sopravvivenza dell’umanità. Ho l’impressione che l’uomo non abbia ancora imparato la lezione di Nagasaki e Hiroshima. La logica della guerra e la logica della supremazia sono una vera e propria minaccia per la razza umana e per tutta l’umanità sospesa in balia degli appetiti sfrenati delle potenze nucleari. È come se l’umanità si stesse preparando all’ultima guerra contro l’uomo. Martin Luther King disse e lo cito:” Dobbiamo imparare a vivere insieme come fratelli o periremo insieme tutti come stolti”.
Nel 2013 nel mio Paese infuriava la guerra e allora incontrai nella boscaglia un ragazzino di sedici anni che era diventato generale e gli parlai di educazione alla pace, con mia grande sorpresa, persino stupore. Lui mi rispose: “Qui quando una persona non obbedisce, io la uccido”. Che minaccia, ma che ignoranza! Che perdizione e depravazione dei costumi: questo giovane, mi sono detto, non sa cosa sia l’educazione, non sa che cosa sia la parola come arma di persuasione. Conosce solo i bicipiti da mostrare, conosce solo il potere della violenza. La denuncia di Dio per bocca del profeta Osea mi è subito venuta in mente: “Perisce il mio popolo in mancanza di conoscenza”.
È per questo che chiedo in nome di Dio e in nome della pace di avere il coraggio di cambiare le cose promuovendo la cultura della non violenza, la cultura della pace per un’altra umanità.
E qui in Italia, se posso chiedervi qualcosa, se avete delle comunità ucraine, russe create, cercate di creare dei ponti affinché possiate dialogare con queste comunità, possiate lavorare con queste comunità, condividere cibo con queste comunità, e pregare con queste comunità. È così che cominceremo a gettare i semi della pace, la lingua della verità per un mondo giusto e fraterno. La vera pace non si può raggiungere soltanto con l’uso della forza, la vera pace si ottiene quando si conoscono le cause del conflitto e della guerra. Di solito i conflitti nascono da situazioni di ingiustizia sistemica. La globalizzazione non deve essere vista oggi come l’esclusione dei meni forti, l’emarginazione dei più deboli o l’estinzione di nazioni da tempo dominate e spogliate dei propri beni da altre. Al contrario, la globalizzazione deve essere un’opportunità in cui tutte le nazioni sono chiamate insieme all’unisono a partecipare al benessere e alla felicità e quindi, di conseguenza, a essere parte di un’unica umanità poiché quello che riguarda un uomo deve riguardare tutta l’umanità. Abbiamo un’unica essenza umana. I numerosi conflitti in Africa devono risvegliare la nostra coscienza universale. La costruzione di muri e di blocchi di alleanza in Occidente deve ricordarci la necessità di solidarietà in Africa, in Asia, in Medio Oriente e in tutte le parti del mondo. La crisi che abbiamo vissuto nella Repubblica Centroafricana ha sicuramente avuto delle cause endogene legate alla frustrazione di una parte della popolazione che si sentiva esclusa. Richieste, rivendicazioni legittime hanno portato alcuni connazionali a imbracciare le armi per rivendicare il diritto di accedere a servizi pubblici di base, come acqua, elettricità, ospedali, scuole, eccetera. Queste rivendicazioni poi sono state velocemente strumentalizzate da attori esterni che hanno iniziato a mediatizzare il conflitto dandogli una connotazione religiosa. Fortunatamente, grazie alla saggezza divina e grazie anche al linguaggio della verità che è stato utilizzato, ci siamo opposti a questa pericolosa retorica internazionale che già cominciava a parlare di conflitto interreligioso tra cristiani e musulmani della Repubblica centroafricana.
La diplomazia non è sinonimo di demagogia né di ipocrisia. La diplomazia internazionale deve imparare dai propri errori del passato e costruire ponti di giustizia e di equità tra le nazioni e i popoli per portare la pace. Sono convinto che tutti i mezzi usati oggi nella corsa agli armamenti possano largamente contribuire ad anticipare futuri conflitti internazionali, investendo nell’educazione alla pace. È il caso, ad esempio, della Repubblica centroafricana dove abbiamo investito in una piattaforma di educazione alla pace. La piattaforma delle confessioni religiose riunisce mussulmani, cristiani, protestanti e cattolici e ha svolto un ruolo determinante nella risoluzione nella crisi della Repubblica centro africana stessa. Infatti dopo il crollo dello Stato, questa piattaforma interreligiosa è praticamente diventata l’unico organismo che gode ancora di credibilità sia a livello nazionale che internazionale. Noi, i leader religiosi, abbiamo dato l’esempio di una convivenza pacifica che è ancora possibile, di una coesistenza tra le diverse confessioni religiose. All’indomani del colpo di Stato del 24 marzo 2013 ci siamo alzati in piedi, uniti per denunciare qualsiasi strumentalizzazione della religione da parte della politica e per ricordare il carattere laico dello Stato centroafricano contro qualsiasi velleità teocratica. Questo spazio di dialogo e di convivialità svolge quindi un ruolo di mediazione volto a salvare l’unità nazionale in pericolo, e volto anche a far esprimere le differenze religiose che rischiavano di cadere in trappola. A questo scopo vengono organizzati dei tour a livello nazionale per aiutare le varie comunità a superare le differenze per far accettare la differenza dell’altro in quanto altro, ma anche per imparare a curare insieme le ferite, quelle ferite lasciate dalla crisi. Questa piattaforma ha sempre proclamato a gran voce che la crisi attuale non è una crisi interreligiosa, bensì è innanzitutto una crisi politica e la religione non può esser semplicemente un mezzo e ancora meno una sorta di cauzione o garanzia al servizio di velleità politiche nascoste. Questa piattaforma interreligiosa è volta a riconciliare i Centroafricani tra di loro andando oltre le credenze religiose. Per questo è stata avviata una campagna mediatica. Alcuni programmi a favore della pace che riuniscono cristiani e musulmani vengono regolarmente trasmessi dalle stazioni radio locali. Il principio di queste trasmissioni è molto semplice: seminare la pace nei cuori e nelle menti, imparare di nuovo a vivere insieme sempre uniti, camminare insieme in un’atmosfera di convivialità. Con i nostri bastoni da pellegrini in mano ci siamo recati in alcune grandi capitali mondiali per informare l’opinione pubblica internazionale della gravità della crisi, ma anche per chiedere aiuti urgenti per la popolazione abbandonata a sé stessa e priva del minimo indispensabile per sopravvivere. Oltre a sensibilizzare sul tema del perdono, sul tema della pace, della giustizia e della riconciliazione, la piattaforma ha anche una dimensione umanitaria: in collaborazione con la Caritas e altre organizzazioni non governative, la piattaforma si occupa di attività per gli sfollati interni che si trovano in vari luoghi. Svolgendo quindi un ruolo profetico e provvidenziale, la piattaforma per le confessioni religiose del Centrafrica si è affermata come uno spazio di credibilità poiché la parola annunciata si traduce in fatti concreti. In definitiva, per concludere, possiamo affermare che la pace in modo verticale affonda le sue radici in Dio, i cristiani la ricevono in Gesù Cristo che li incarica di seminare la pace. Questa missione di artigiani di pace è una delle sfide principali del Risorto che ne ha fatto una priorità rivolgendosi ai suoi Apostoli: “Pace a voi. Come il Padre mi ha mandato, anch’io mando voi.” La pace è da un punto di vista orizzontale, un comportamento, un atteggiamento, una predisposizione interiore, un impegno, una determinazione a costruire ponti tra i popoli e tra le Nazioni. L’artigiano di pace è un eletto, un beato che, in quanto figlio di Dio, è pronto a donarsi totalmente e con passione, con resilienza e abnegazione per trasformare il volto del mondo da tempo, troppo tempo segnato e sfigurato da conflitti e guerre. Oggi possiamo dire che abbiamo bisogno di cambiare le cose e dobbiamo avere il coraggio di andare oltre i confini artificiali e rigidi stabiliti dalle ideologie correnti. Siamo condannati a vivere insieme, ad andare d’accordo se vogliamo dare alla nostra umanità una nuova possibilità di scrivere una nuova pagina della storia: quella degli eroi di pace. Grazie per la vostra attenzione.
Scholz: Grazie Eminenza, grazie per le sue parole, per la sua testimonianza. Merci pour vos paroles, sourtout pour votre témoignage.
Monsignor Pizzaballa. Leggo la frase che abbiamo a lei indirizzata, la domanda che abbiamo indirizzata che riguarda il Medioriente, la situazione che lei vive tutti i giorni. I conflitti e le guerre sembrano irrisolvibili, ma tanti tentativi hanno forse evitato ulteriori escalazioni, ma una vera pace sembra lontana. Fra ribellioni, rassegnazioni, fra tanta retorica vuota e ideologie fuorvianti come vive lei il suo impegno per la pace e per la giustizia?
Pierbattista Pizzaballa: Immagino avrò non abbastanza tempo, quindi cercherò di essere breve e sintetico. Ad ogni modo parlare di pace e giustizia in Terrasanta è sempre faticoso, compito che si cerca di eludere sempre più spesso, sia per evitare come dice lei retoriche e vuota ideologia che per anni hanno riempito discussioni e assemblee di vario tipo e di cui siamo un po’ tutti oggi abbastanza saturi, non se ne può di parlare di pace quando poi non si vede mai, sia perché giustizia e pace sembrano proprio un miraggio lontano, come dicevo, che lascia negli animi sensazioni di frustrazione, sfiducia e a volte anche ribellione e rassegnazione. Per questo evito sempre il più possibile di parlarne. Come pastore della Chiesa di Gerusalemme, considero più fruttuoso parlare alla mia comunità di capacità di buone relazioni come qualcosa di costitutivo della vita della Chiesa, tra noi e con chiunque altro, piuttosto che di parole come pace, giustizia, speranza, futuro, per evitare di scadere nel banale e quindi di essere anche un po’ insignificante. Ripeto, sono temi importanti ma quando se ne parla solo e restano solo parole, poi si diventa anche insignificanti. Del resto sono sempre più convinto che non si può parlare di speranza se non si ha una fede, perché la speranza è figlia della fede. Parlare oggi di speranza senza porla in un contesto di fede e fiducia è davvero retorica. Allora, perché allora ho accettato di venire a parlare di giustizia e di pace? L’ho fatto perché mi avete proposto, mi avete stalkerizzato a dire il vero, mi avete proposto di affrontare questo argomento da un’angolatura molto precisa, cioè personale. Non devo parlare di giustizia e pace, ma come io, Pierbattista, vivo il mio impegno per la giustizia e la pace. Questo mi permette di affrontare l’argomento in modo più concreto e significativo. Se oggi è vero che parlare di giustizia e pace in Medioriente significa stare un po’ dalla parte di chi combatte contro i mulini a vento, è però anche vero che il desiderio di pace e giustizia deve trovare nel posto di ciascuno, di ognuno, soprattutto in chi ha responsabilità. Dev’essere chiaro in ciascuno di noi, soprattutto in me, in noi credenti, che l’impegno per la pace e la giustizia non è un di più nella vita di fede, un elemento accessorio di cui si può fare a meno, al contrario, la fede in Dio genera immediatamente un desiderio di bene per ogni uomo o, per dirla con il tema del Meeting di quest’anno, una passione irresistibile per l’uomo, perché abbia una vita degna della sua vocazione di persona creata a immagine e somiglianza di Dio. Detto questo, però, se devo parlare di come io vivo la giustizia e la pace, devo anche dire, presentare brevemente il contesto e qui cercherò di essere breve, non entro in analisi della situazione politica del Medioriente, della Terrasanta, non ne usciremmo più, poi già le conosciamo abbastanza. E poi, oltre a essere il tempo breve, poco interessante, sono argomenti abbastanza noiosi. Mi basta dire che sul piano politico e sociale al quale poi si accoda quello religioso, ciò che comuna tutti, israeliani e palestinesi, è la mancanza di fiducia. Nessuno più si fida dell’altro sul piano politico come sul quello sociale. In entrambe le popolazioni non si vuole sentire parlare del cosiddetto processo di pace, dopo i tanti fallimenti e tradimenti di quel processo. La politica da ambo i lati del muro è debole: in Israele cinque elezioni politiche in due anni, in Palestina le ultime elezioni politiche nel 2005; mancanza di leadership politica, quindi mancanza di visione, disparità economiche enormi tra israeliani e palestinesi. A Gaza la situazione è ancor più problematica: 2 milioni di persone rinchiusi in una piccolissima striscia di terra con una grave situazione di povertà, altissima disoccupazione, privi di acqua, elettricità per diverse ore durante il giorno, un regime sempre più in difficoltà ma anche sempre più invasivo. In Cisgiordania da un lato l’espansione degli insediamenti rende sempre più labile prospettive di un possibile se pur lontano accordo, d’altro lato l’autorità palestinese ha una presa sempre più debole sul territorio, e poi soprattutto c’è la coscienza, la sensazione tra i palestinesi di essere ormai stati abbandonati insomma, la sensazione che la comunità internazionale non si occupa più di loro, insomma, che dunque sono rimasti soli a lottare per il loro paese, per i loro diritti, per la Palestina. Insomma, la lista è lunga, mi fermo qui solo brevemente.
Allora cosa significa in questo contesto, preciso contesto impegnarsi per la giustizia e la pace? Come questo impegno costruisce la mia vita, il mio ruolo di pastore chiamato a dire una parola chiara di verità, certamente, ma anche allo stesso tempo una parola che dia fiducia, che apra prospettive e che non chiuda me stesso e la mia comunità in atteggiamenti di rassegnazione o ribellione? Allora come? Prima di tutto è necessario che tale impegno sia un reale convincimento personale, prima di tutto ci devo credere. Ho letto, ho appena visto lì nella pubblicità: “Perché vengono a sentirti? Perché credo in quello che dico”, diceva Giussani. Non si può separare ciò che si dice da chi lo dice. La credibilità del testimone è la precondizione necessaria per un serio impegno. Non avrebbe senso e non funzionerebbe in alcun modo l’opera di una chiesa che parli a favore della giustizia e della pace se il suo pastore non ci credesse davvero. Bisogna veramente essere convinti e coscienti che in questo contesto lacerato l’impegno per la giustizia e la pace devono essere, come dicevo, la prima e immediata espressione della propria vita di fede. Se il mio compito primario di pastore è quello di custodire la presenza di Dio nella vita della mia comunità, mi deve anche essere chiaro che difendere i diritti di Dio significa anche difendere i diritti dell’uomo e viceversa, non si possono separare questi due aspetti. Ogni pastore, inoltre, porta necessariamente in questo personale impegno la sua personalità, la sua esperienza di vita, la sua sensibilità, la sua storia, innanzitutto ci devo credere, e poi devo portare anche la mia esperienza: non avrebbe senso per me, ad esempio, parlare di giustizia e pace come ne hanno parlato i miei predecessori. Esemplifico come il patriarca Sabbah che è stato un eroe in questo contesto, e questo sia perché i tempi sono cambiati, sia perché io provengo da una storia e da un’esperienza diversa e il mio impegno, il mio parlare per essere credibili devono essere coerenti con quello che sono. Allo stesso tempo è importante avere coscienza che il mio essere qui, cioè in Terrasanta come pastore, non è per caso, ma è per provvidenza e che la provvidenza in questo momento ha bisogno dell’impegno per la giustizia e la pace secondo il mio stile, la mia esperienza che ho il dovere di trasmettere alla comunità. Ovviamente però c’è anche l’altra parte, la mia storia, la mia personalità, esperienza si devono arricchire di ascolto e partecipazione da parte della mia comunità che ha il diritto di trovare in me un cuore attento e capace di comprendere.
Ecco, allora, il mio stile qual è? Credo che non si possa parlare seriamente di giustizia e pace da una prospettiva cristiana senza aggiungere la parola perdono che però in Terrasanta è quasi tabù. Sono convinto che non si potranno superare gli ostacoli nel cammino di riconciliazione, né progettare un futuro sereno se non si avrà il coraggio di purificare la propria lettura della storia dall’enorme bagaglio di dolore e ingiustizie che ancora condizionano pesantemente il presente e le scelte che oggi si compiono. Non si tratta di dimenticare certamente, sarà tuttavia molto difficile costruire un futuro sereno se si pone a base della propria identità personale, sociale, nazionale, l’essere vittima anziché fondare la prospettiva su una comune speranza. Il perdono è un ingrediente necessario per superare quest’impasse. Non è un tema scontato: il perdono, visto spesso come qualcosa di debole, una debolezza nel contesto politico israeliano-palestinese il perdono è visto anche come rinuncia a difesa dei propri diritti. Questo discorso richiede comunque la mia personale disponibilità a vivere il perdono, innanzitutto a essere io stesso riconciliato, far sì che la mia comunità veda in me che la riconciliazione e il perdono non sono parole, ma vita vissuta, visibile, tangibile, e che perdono genera la pace. Devono vedere in me una persona pacificata, capace di fare sintesi tra vita di fede, fede in Dio, e la vita reale. Per quanto riguarda l’impatto sulla vita reale, occorre tenere presente un interrogativo al quale non è semplice rispondere: come posso aiutare a ripensare alla propria storia, purificare la memoria, come posso parlare di perdono al mio popolo finché il suo presente è segnato da ingiustizie e dolore? Spesso mi viene fatta questa domanda: per te, italiano, è facile parlare di pace, giustizia e perdono, ma per noi che viviamo ogni giorno dentro questa difficoltà e queste ingiustizie, come credi che sia possibile parlare di perdono? Non è facile rispondere, dicevo, però resto convinto che parlare di perdono sia necessario, anche se cosciente ascoltare quella voce, quel dolore, quella difficoltà. Una conciliazione e una sintesi tra quel dolore, quella difficoltà e quello che sento, una conciliazione, una sintesi difficile e sempre dolorosa, che non sempre funziona. Restare dentro questa lacerazione e viverla è anch’essa parte del mio servizio, senza avere la pretesa di imporre soluzioni, ma semplicemente stando lì, in questa attesa, allo stesso tempo fiduciosa e dolorosa, carica di speranza in un cambiamento possibile, faticosa, fondata nella fede nel Dio provvidente. E qui c’è un altro aspetto da tenere presente: la solitudine. Non esiste qualcuno che lotti per la giustizia e la pace e allo stesso tempo venga acclamato da tutti. Se il tuo servizio alla giustizia e alla pace viene veramente dal tuo cuore ed è qualcosa di profondamente sentito parte della tua fede, devi anche accettare la solitudine come uno strumento, come una via necessaria perché poi possa il tuo servizio fare frutto a suo tempo, magari quando non ci sarai più.
Da molti anni, è una immagine che riporto spesso ma mi accompagna sempre, da molti anni mi accompagna in questo discernimento evangelico un passaggio evangelico: la drammatica scelta che si impone al popolo tra Gesù e Barabba. Si tratta di una scelta che è posta innanzi a noi, di ciascuno di noi ogni giorno. Pilato mostra al popolo due figure di messia: Gesù e Barabba. Barabba in aramaico significa “figlio di papà”, “figlio del padre”, è un titolo aramaico, è un titolo che scimmiotta la figura di Gesù, il vero barabba, il vero figlio del Padre. Barabba era un attivista come si direbbe oggi, lottava per la liberazione del suo popolo, aveva un suo seguito, voleva giustizia, libertà, dignità per il suo popolo, il suo era un messianismo semplice, concreto, attraente, niente affatto utopico. Dall’altra parte c’era Gesù. Come patriarca latino di Gerusalemme mi sono trovato fin dall’inizio in una situazione che richiede una scelta, una presa di posizione chiara e precisa di fronte al conflitto più o meno armato che ho descritto all’inizio. Come conciliare questa richiesta di schieramento con quello che sono e con quanto appena detto riguardo al perdono? Più in generale mi pongo frequentemente la domanda di come difendere i diritti di Dio e dell’uomo in questo contesto, come cioè parlare di perdono, essere fedeli a Cristo che sulla croce perdona gratuitamente senza dare l’impressione di non difendere il gregge a me, i suoi diritti, le sue attese? Cosa significa concretamente stare dalla parte di Gesù e non di Barabba? Come predicare l’amore ai nemici senza dare l’impressione di confermare involontariamente una narrativa contro l’altra, israeliana contro quella palestinese o viceversa? In Medioriente, come a Gerusalemme, ad Aleppo, ogni cristiano come me è posto dinnanzi a questa drammatica scelta: Gesù o Barabba? Morire sulla croce o combattere? Come si può parlare di liberazione della schiavitù del peccato e di perdono quando il tuo popolo soffre per la dominazione di un’autorità straniera? È lecito misurare il dolore e le perdite di vite in base al criterio della quantità: tre qui, quindici là, uno qui, chi di più, chi di meno? Più concretamente mi si chiede spesso: come posso pensare di perdonare l’israeliano che mi opprime finché sono sotto oppressione? Non significherebbe dargliela vinta, lasciare campo libero senza difendere i miei diritti? Prima di parlare di perdono non è forse necessario che si faccia giustizia? L’israeliano a sua volta potrà aggiungere: come posso perdonare chi uccide la mia gente? Sono domande dietro alle quali vi è un dolore sincero. In fondo Barabba non è così male, anzi è ragionevole. È chiaro che scegliere Cristo non è scegliere l’indifferenza al male del mondo. C’è la mentalità di Barabba, l’integralismo di chi vuole fare una sorta di nuove crociate, ma c’è anche l’indifferenza di un cristianesimo disincarnato. Però bisogna prender atto che in fin dei conti il cristiano ha scelto Cristo e Cristo è morto in croce, fallito e sconfitto. Da un punto di vista strettamente umano non c’è alcun dubbio che il perdono assomiglia a una sconfitta. Gesù non ha risolto nessuno dei problemi sociali, politici del suo tempo, non ha liberato, dopo di lui è stato ancora peggio, Gesù non ha liberato l’uomo da questa o quell’oppressione umana, non ha operato una liberazione, ma La liberazione, ha recuperato nella sua radice profonda la relazione tra Dio e l’uomo e degli uomini tra loro. Di fronte al male del mondo, in conclusione, il mio dovere di pastore allora in cosa consiste? Sta nel dire che il compito del cristiano è semplicemente quello di soffrire, di morire in croce come Gesù, di lasciarsi trafiggere, di farsi sconfiggere, che il cristiano non ha nulla da dire di fronte al dramma che ha davanti? Certamente no. Di fronte alla situazione del Medioriente, della Terrasanta il cristiano si dà da fare come qualunque, chiunque altro perché la giustizia, la pace, la libertà, la dignità, l’uguaglianza tra gli uomini sono atteggiamenti di cui ha fatto esperienza personale, che gli appartengono e che vuole che diventino comuni a tutti e collabora con tutti, senza esclusione per realizzare questo suo desiderio di pace e di giustizia. Il cristiano vuole e lotta par la giustizia e la dignità perché appartengono all’armonia riconsegnataci da Gesù il Cristo. O non si lascia sconvolgere dal male che è di fronte a lui, anche se ne soffre come chiunque altro perché è già stato liberato e redento. Secondo la mentalità di Barabba, comunque, questo modo di impegnarsi per la giustizia e la pace è un fallimento, non porterà a nulla, è una strategia di pii desideri senza futuro. Secondo questa visione il cristianesimo in Medioriente è impotente, finito, schiacciato. La testimonianza di tante persone, invece, soprattutto dei piccoli e dei poveri, quelli che non hanno nulla, ci dice che molto è distrutto ma il seme è rimasto e da lì rinascerà nuovamente la vita. Adesso devo tagliare, ma voglio portare brevemente la testimonianza della mia piccola comunità di Gaza, poche centinaia di persone in mezzo a un mare di due milioni di persone, che ha tutti i diritti di sentirsi oppressa per tantissime ragioni, eppure è una comunità attiva, tante attività sociali, caritative, per i poveri, i disabili, e non ho mai sentito da loro che ne avrebbero tutti i diritti una sola parola di rancore o di rabbia nei confronti di alcuno, sempre attivi nel fare qualcosa per gli altri, soprattutto per i poveri, loro che son già poveri, che si danno da fare per cose banali: portare il frigorifero a chi ha case che sono tuguri fatte di lamiera, o scarpe per i bambini, sciocchezze però sono la testimonianza, gocce in un oceano, ma testimonianze di una comunità che non è ripiegata su di sé, che ha voglia di fare qualcosa per l’altro, che scommette per il futuro anche là, a Gaza dove tutti dicono che non c’è futuro. E questo è una grande consolazione, soprattutto è stato bellissimo sentire da questi giovani che si danno da fare dire che la cosa più importante per loro non è soltanto portare le scarpe o il frigorifero, ma dare tempo a queste persone che vogliono parlare, ascoltarli, dare il loro tempo, e questo ti dice lo stile con il quale questa piccola comunità si muove. E la testimonianza di Gada ad esempio che dice che lei vuole la giustizia e vuole la libertà per il suo popolo ma chiede ogni giorno al Signore la grazia di aver la forza del perdono. Non sono testimonianze scontate per chi vive ogni giorno dentro una situazione di gravissima povertà ma anche di grande oppressione.
Salto un po’. Ecco …. Ci sarebbero tante altre cose ma vado in conclusione. Allora mi chiedo continuamente quale sia nel mio contesto specifico che forse può essere differente rispetto ad altri, il modo di stare dentro queste complesse situazioni e di impegnarsi per la giustizia e la pace, vissute, sperimentate e non vuota retorica ideologia. Posso dire che è bene diffidare da chi offre risposte certe, chiare, facili. Risposte facili in contesti complessi, feriti come il nostro sono sempre fallaci. Credo che spesso si tratti soprattutto di stare, esserci dentro quel mondo ferito, di accettare a volte di non avere soluzioni che stare lì, essere vicino, farsi prossimo senza la pretesa di insegnare a perdonare, ma cercando di condividere. L’unico modo per insegnare il perdono, la giustizia e la pace è sperimentarli sulla propria persona e testimoniarli. Un esercizio accademico o una decisione politica potranno ratificare, spiegare, ma mai precedere la decisione di impegnarsi per la pace, la giustizia e il perdono, che è frutto di un’opzione del cuore. Perché, diciamolo, in fondo perdono non è altro che sinonimo di amore. E solo un amore grande per Dio e per la propria comunità può dare fondamento e senso al nostro impegno per la pace e la giustizia e a un gesto così autenticamente rivoluzionario come il perdono. Grazie.
Scholtz: Grazie Eccellenza per questa sincerità, trasparenza, autenticità e anche una concretezza che sorprende nella sua apparente semplicità ma che ha una lungimiranza diciamo divina. Tra l’altro in tutti e due gli interventi ho scoperto proprio: nessuno cede a questa tentazione della pretesa di avere risultati immediati che diventa prima o poi o alibi per un disimpegno o per una nuova violenza.
Monsignor Pezzi grazie di essersi collegato. La domanda che abbiamo voluto porle è questa: come è possibile promuovere la conciliazione quando ci sono profonde divisioni non solo nella vita sociale, ma anche dentro le comunità, dentro le famiglie. Grazie, la ascoltiamo.
Paolo Pezzi: Ma innanzitutto devo dire che è non semplice parlare dopo due giganti della testimonianza come quelli che abbiamo ascoltato. Innanzitutto ringrazio il Meeting per il coraggio di questo incontro, per la passione che da più di quarant’anni muove tante persone ad annunciare Cristo che è la nostra pace, come abbiamo sentito, e che è l’evento presente ad ogni passo della storia, è l’eterno l’infinito nella storia e nel mondo. Penso che senza la prospettiva dell’eterno io non riuscirei a, non solo parlare, ma vivere la riconciliazione e la pace. Dunque innanzitutto la pace. L’esperienza della pace è in me, l’abbiamo già sentito, quanto di più lontano ci sia dal cuore dell’uomo. Pace è una parola tra le più ripetute, forse anche la più ripetuta e non solo nella letteratura mondiale, nei discorsi politici e religiosi, ma anche nel parlare quotidiano e sappiamo bene che quando si parla tanto di qualcosa normalmente è perché è assente.
Addirittura c’è un salmo in cui il povero salmista si lamenta con Dio del paradosso di quello che succede a lui, e cioè, quanto più lui parla di pace e tanto più quelli attorno a lui vogliono e fanno la guerra. A me è capitato spesso in questi mesi, anni diciamo, e non solo dopo il 24 febbraio, di sentire tanti fedeli, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica, europei, africani, asiatici, americani che non vogliono o non riescono a sentire parlare di pace. Eppure la desiderano dal più profondo del loro cuore. Molto forte e commovente è stata la mia esperienza di confessare quest’anno, durante la settimana santa, soprattutto il giovedì, venerdì e sabato santo, mi ha colpito che la stragrande maggioranza praticamente posso dire tutti, spesso in lacrime, sia venuta a confessare non tanto e non solo un peccato quanto proprio questa impossibilità, incapacità a respingere la violenza, a respingere l’odio che sentivano insorgere nel loro cuore e non potevano scacciarlo. Per qualcuno la unica via di fuga, tra l’altro altrettanto terribile a mio parere, era come l’indifferenza, una impossibile atarassia, un cercare di non pensarci. Ecco, questo mi ha fatto capire che l’esperienza della pace, dono della pace, non è innanzitutto una conquista umana, possiamo sforzarci quanto vogliamo, ma noi non raggiungeremo la pace dopo un certo passo, dopo una certa tappa, di un certo cammino. Penso che dovremmo ricordarcelo più spesso che l’odio, questa rabbia cattiva, la cattiveria, ecco, proprio, non sono parte della nostra esperienza umana, è qualcosa che penetra perché noi lo lasciamo entrare, è la spada di Satana è la menzogna, però noi abbiamo una forza che è quella di domandarla la pace e di accogliere questa pace così come Dio ce la dà, così come Cristo ce la dà, nei nostri rapporti. La pace è un dono, e come tale va innanzitutto accolta e anche riconosciuta. Gesù ai suoi amici, l’abbiamo sentito poco prima di morire, dice che sarà Lui a dare la pace e sarà una pace diversa da quella che dà il mondo. Per il mondo infatti è l’instaurarsi di un certo potere e di solito, chissà perché, è rimandata sempre a un certo futuro e chissà perché occorre che ci siano alcuni, normalmente sempre quelli, cioè i più poveri e i più deboli, che dovranno fare certi sacrifici, mentre altri no. Quindi è una menzogna la pace che dà il mondo. Per Gesù invece la pace è un’esperienza presente che riverbera una certezza affettiva del rapporto con Lui. Certo il male è diffuso e dilaga, mentre il bene è ridotto a lumicini, però anche la notte più buia può essere illuminata da misere fiammelle. Mi è capitato quest’inverno, al nord della Russia, di trovarmi in una zona molto buia, era un buio pesto, e oltretutto l’inverno al nord è molto più buio. Ecco, a un certo punto una miriade di stelle, realmente di piccolissimi puntini infinitamente lontani ha rischiarato quel buio oppressivo. Un amico recentemente mi diceva: “Certo, perché chi ricorda il nome dell’aguzzino di Auschwitz? Mentre tutti sappiamo chi è Massimiliano Kolbe. Oppure chi ricorda quell’etiope dal nome molto strano, che abbiamo sentito recentemente nelle letture della messa, che incarcerò ingiustamente Geremia, ma il nome di Geremia ce lo ricordiamo tutti. Cioè queste fiammelle non si spengono. Se è vero che non possiamo operare, vivere con una certa scadenza, d’altra parte è anche necessario vedere questi reali punti di costruzione della pace che già ci sono, non sono rimandati a un frutto. A me ha sempre colpito che Gesù risorto saluti i suoi con le parole Pace a voi dove non c’è nessuno sforzo, nessun potere, nessuna manifestazione regale neanche, è un gesto assolutamente naturale per la sua persona risorta ed è il segno di una gratuità senza confini. Tant’è vero che quando sono divenuto vescovo, il vescovo all’inizio della messa saluta i fedeli con queste stesse parole di Gesù risorto Pace a voi, mi veniva un tremore le prime volte, perché salutavo i fedeli con queste stesse parole Ecco, dopo il saluto Gesù non si attarda troppo a dire la mancanza di fede e fiducia degli apostoli, figuriamoci di noi, ma dà loro un mandato e questo mandato che dà è di conciliare. È importante capire che la riconciliazione, ma il battesimo stesso, la misericordia sono esperienze che prolungano il permanere dell’eterno, che mantengono la prospettiva dell’eterno aperta nel nostro vivere quotidiano. Nell’eternità non ci sarà più un cristianesimo, non ci sarà più la misericordia, non ci sarà più il perdono, queste esperienze sono necessarie a noi per il nostro vivere oggi e ci sono necessarie come il pane da mangiare come l’aria da respirare. L’esperienza della riconciliazione, della comunione, dell’amicizia è esattamente quella miriade di fiammelle di speranza ed è comunque anche l’unum necessario che possono portare solo i cristiani nel mondo. Tante altre cose, dialogare, cercare di costruire buoni rapporti con tutte le migliori intenzioni lo possono fare tutti, ma nessuno ha questa responsabilità e questa opportunità, come abbiamo noi cristiani, cioè quella di portare il perdono e dire che tutti ne hanno bisogno o papa Francesco addirittura dice che tutti ne hanno diritto. Ricordo spesso, e forse lo avrete già sentito, il racconto di un mio incontro con una vecchietta in Siberia nei miei primi anni di missione. Giovane prete andai a visitare una parrocchia per sostituire il prete ammalato e le due suore che erano in questa piccola parrocchia mi chiesero di portare la comunione a una vecchietta che era inferma, non poteva venir alla messa. Mi dissero anche che questa vecchietta era di origine tedesca, quindi parlava un tedesco mischiato al russo, però capiva il russo, quindi avrei anche potuto confessarla probabilmente. Queste due suore mi dissero anche che a questa donna, negli anni ‘30, dopo averla deportata, ammazzarono i due figli davanti agli occhi. Va bene, io arrivai in questo posto, confessai e comunicai la vecchietta e poi come si è o comunque come io penso di essere stato da giovane prete un po’ superbo e anche curioso, alla fine cedetti alla tentazione e chiesi a questa vecchietta prima di andar via: “Ma lei cosa pensa di Stalin?” Questa vecchietta sgranò gli occhi e mi disse: “Cosa penso di Stalin? Cosa vuole che pensi, io l’ho perdonato altrimenti come avrei fatto a vivere?” Ecco, ricordo che me ne tornai e Novosibirsk senza dire una parola e con gli occhi che si erano riempiti di lacrime. Ma anche l’esperienza di perdono che ho vissuto nelle parrocchie del nord della Russia, della mia diocesi, in una zona purtroppo tristemente nota per i lager, mi ha molto commosso il fatto di vedere alle celebrazioni, parliamo di parrocchie di 10, 12 persone, ma mi ha sempre commosso vedere queste persone che sono, mi dicevano, figli di deportati o figli di aguzzini. Lì non c’è alternativa. I locali sono rimasti molto pochi. Eppure a me commuove sempre vedere la loro letizia, anche il loro entusiasmo, pur essendo così in pochi e anche con una certa età ormai, ma con questa letizia che viene dal perdono, dal guardarsi, insomma, con uno sguardo che non ha dimenticato, che non ha sorpassato quello che è successo, ma che lo ha realmente perdonato, cioè hanno rifatto spazio in sé all’altro. Penso anche al dialogo che ho avuto con una ragazza ucraina, il cui fratello è stato richiamato alle armi e, dopo un incontro che avevamo avuto, in cui avevo parlato del perdono, lei giustamente un po’ arrabbiata mi ha fatto allora questa domanda: “Ma allora mio fratello deve andare a farsi ammazzare?” Io risposi che suo fratello doveva certamente andare e imbracciare il fucile, nel senso che difendere la patria, in certi momenti, è un valore importante, in certe occasioni può richiedere la vita, quindi avrebbe dovuto uccidere o essere ucciso, non poteva certo far finta che questo non sarebbe successo e la giovane età di suo fratello non lo aiutava. Però le ho detto: “Guarda che se tuo fratello non perdonerà prima di sparare al russo, lui si porterà l’odio nel suo cuore per tutta la vita, finché campa e se ucciderà il nemico, avrà perso un’occasione perché questo nemico potesse trasformarsi in fratello”. Certo non si può obiettare molto, non voglio discuterlo, si può dire che questo non è possibile, che non è ragionevole, poi non si può chiedere così tanto. In ogni caso io voglio dire questo, che non è possibile eludere l’esperienza del perdono per poter vivere. Anche l’esperienza della moglie di un poliziotto di CL che fu ucciso a Roma dalle Brigate Rosse a cui don Giussani disse: “Senti perdona, sarà utile ai tuoi figli” anche questo va in questa direzione. Senza l’esperienza del perdono non si può vivere. Comunque pace e riconciliazione riguardano i rapporti tra gli uomini; in questo senso mi è molto piaciuto che nel titolo di questo incontro si parla di artigiani, non voglio sminuire le definizioni di costruttori, operatori, ci mancherebbe, è nel Vangelo. Ma il fatto è che dell’artigiano mi colpisce che è totalmente implicato, che ha le mani in pasta, cioè al punto che costruisce la realtà che ha tra le mani secondo il destino inscritto in quella realtà dall’inizio alla fine del processo. La pace è pace e basta, la conciliazione, la conciliazione e basta, essere artigiani significa innanzi tutto chiamare le cose con il proprio nome e poi essere artigiani fa appassionare alla pace, fa prendere gusto a provare a conciliare. Chi non si è commosso guardando il volto commovente e sorridente allo stesso tempo serio mentre si abbassava ad abbracciare i signori della guerra del Sud Sudan se non sbaglio ed erano tutti cristiani. Péguy, parlando di sua madre che impagliava le sedie, disse che lo faceva con una dedizione di fare bene quel lavoro perché impagliare sedie era annunciare Cristo, era costruire il cristianesimo. Ecco, per me essere artigiano di pace significa rispondere al mistero di Dio, rispondere della mia chiamata alla mia vocazione, cioè non venire meno al compito che mi è chiesto. Significa rispondere del mio ministero di vescovo cattolico, e questo mi fa costruire pace innanzitutto in me medesimo, perché anch’io ho bisogno della pace, anch’io ho bisogno di serenità, altrimenti che cosa comunicherò? Nel rapporto col popolo che mi è affidato, infine con la realtà con cui mi vengo a trovare. Per questo non mi stanco di invitare al perdono in famiglia, in comunità, al lavoro. Sarebbe interessante, ma adesso divento un po’ lungo, sentire l’esperienza di perdono nella lotta, diciamo così, tra alcuni colleghi per fare carriera. Molto interessante e costruttiva. In ogni caso a me è questo rispondere a Cristo che mi fa iniziare col perdono, mi fa perciò vedere il positivo, il buono dell’altro che è diverso da me. Non so come dirvi ma questo è quasi matematico, ci sono delle volte che io mi riscopro un certo rancore nei confronti di alcune persone. Bene, se mi fermo a pensarci un attimo, mi accorgo che questa mancanza di pace in me deriva dal fatto che io non ho di cuore perdonato questa persona, anche se l’ho fatto diciamo così anche da un punto di vista formale ma in realtà in fondo al cuore non l’ho detto, non ho chiesto a Cristo di perdonarlo, non ho chiesto a Cristo la forza di rifargli spazio in me. Ma quando lo faccio, non è una questione magica, ma realmente la pace e la serenità mi tornano in cuore. Quando invece prevale la preoccupazione di costruire, poi costruire chissacché, che allora improvvisamente tutto mi si annebbia, mi si oscura e anche il giudizio diviene un compromesso politico. Una nostra giovane a un incontro recentemente di giovani che ho fatto, mi diceva questo: “Sa non c’è più una verità per tutti, ci sono solo delle giustificazioni, delle verità parziali, ideologiche.” In russo suona meglio perché si usano la parola istina e la parola pravda e penso che la seconda, almeno per i più grandi, sia una parola familiare perché ricorda appunto il giornale ideologico di regime, la Pravda. Questo si vede bene quando vengono sottolineati dal potere determinati valori, cioè, la pace oggi è un valore, non un’esperienza ed è molto importante cogliere, cioè giudicare, questa differenza. Un tempo si parlava dei valori comuni, oggi si dice valori cristiani o religiosi. Allora, se vengono sottolineati ideologicamente, questi valori ci si rivoltano contro, appunto, basta pensare al valore della pace o al valore della patria. La contraddizione all’amore alla patria, alla pace che è un valore sacrosanto, porta a identificare in un potere terreno la verità che si raccoglie intorno alla pace. Così che poi questi valori in mano a un potere terreno diventano una giustificazione della più spietata violenza. E noto che ogni potere si sente portatore di una chiamata messianica o, perlomeno, utopica. Solzenicyn parla di questa tentazione messianica di Lenin a Zurigo. Una volta rientrato in patria, in Russia, Lenin cercherà a ogni costo di realizzare questo messianismo, anche a un prezzo altissimo di vite umane, come purtroppo sappiamo bene. Questa tentazione, così ho letto da qualche parte, sarà solo momentaneamente scalfita da un pensiero fuggivo, sembra che Lenin l’abbia detto in un momento di lucidità: “Daremo elettricità ai soviet, all’uomo sovietico, ma non potremo mai dare loro la felicità”. Comunque, ad ogni modo, penso che la situazione per noi sia ancora più grave. Se i Romani, infatti, potevano sostenere il paradosso “Se vuoi la pace prepara la guerra” perché a quei tempi ancora senza Cristo la guerra era uno strumento, ahimè, ma è così, per risolvere diverbi giuridici. Ma per il nostro ventunesimo secolo, con il crescere di conflitti aperti in Medio Oriente, in Europa, in Africa e neanche poi tanto velati in Asia, ma nell’America stessa, forse un po’ si salva l’Oceania, ma tutto questo in realtà non fa che annunciare la debacle della convivenza tra gli uomini per cui papa Francesco parla di una terza guerra mondiale a pezzi in tutto il globo. Ecco, in un clima così sembrerebbe che appunto l’indifferenza per i miei fedeli, o la disperazione per altri, sia la cosa normale, invece no, ha ancora ragione Péguy quando dice che la disperazione è l’ultimo sponda del diabolico che è in noi, che si incesta in noi, perché invece la disperazione è estranea all’esperienza dell’umano, all’esperienza dell’umano è familiare invece, e deve tornare ad essere normale, l’esperienza del desiderio, l’esperienza della tristezza in un certo senso potremmo dire, cioè quella nostalgia, quel desiderio di pace e riconciliazione che ci fanno venir voglia di accettare il perdono. Nell’umano si oppone, alla prepotenza del potere e alla disperazione, questa esperienza del perdono che rifà letteralmente l’umano, come cantiamo in un inno, rifà di nuovo innocenti. Quarant’anni fa papa Giovanni Paolo II concluse dicendo “Costruite la nuova civiltà della verità e dell’amore, pregate per questo, lavorate per questo, soffrite per questo”. Ecco penso che quest’annuncio, profetico in quei tempi, sia ancora molto attuale. Grazie per l’attenzione.
Scholz: Grazie, grazie di cuore mons. Pezzi per queste, anche qua, più che per le parole per la testimonianza che ci ha dato, per la situazione così difficile che lei sta vivendo. Io penso che a questa testimonianza non possiamo aggiungere altre parole. Mi permetto solo di aggiungere una cosa, ognuno di questi tre testimoni ognuno avrebbe giustamente potuto meritare un incontro a sé, ma questa profonda unità che è emersa in questi interventi che ci hanno regalato, che ci hanno donati è a sua volta una testimonianza che nelle parti diverse del mondo c’è una esperienza, una presenza che comincia a creare un mondo diverso, anche in situazioni che, da un certo punto di vista potremmo pensare disperate, ma che attraverso queste esperienze stesse emergono come luoghi di speranza, certamente non per il nostro merito ma perché c’è qualcuno che opera.
Vi ringrazio, buon Meeting a tutti, grazie a voi.