Chi siamo
Arabi cristiani e nazione araba
Hanno partecipato: S.E. Mons. Michel Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme; S.E. Mons. Egidio Sampieri, Vicario apostolico per i Cattolici Latini in Egitto; S.E. Mons Fouad Twal, Vescovo di Tunisi. Moderatore: Alfio Pennisi.
Pennisi: Ci sono terre e popoli che hanno visto nascere Gesù Cristo ed hanno contribuito in misura determinante alla prima diffusione della parola di Gesù. Sono le terre e i popoli in cui è nato il monachesimo, in cui sono nati Sant’Atanasio, San Cipriano, Sant’Agostino, eppure per troppi di noi, dire arabi significa dire non cristiani. Oggi dire arabi può significare e significa dire cristiani: i cristiani in Oriente non sono un ricordo, sono un fatto, un evento vivo ed operante. La prova migliore di quanto stiamo dicendo sono i tre pastori della Chiesa d’Oriente che oggi pomeriggio sono qui tra noi per offrirci la loro testimonianza. A questi tre pastori della Chiesa noi abbiamo chiesto che raccontino oggi la loro esperienza di arabi cristiani in terra d’Oriente.
Sua Beatitudine Monsignor Michel Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme
Sabbah: 1. Nazione Araba e cristiani arabi. La nazione araba è costituita da vari paesi arabi uniti tra di loro dalla lingua araba e dalla stessa cultura araba, il cui fattore principale è la religione musulmana. Ma in questa cultura araba musulmana il Cristianesimo è rimasto un dato permanente, sia nell’elaborazione della cultura stessa, nei primi secoli dell’Islam, sia nella presenza di cristiani arabi rimasti fedeli alla loro fede e alla loro cultura cristiana e araba allo stesso tempo. In alcuni paesi arabi oggi ci sono cristiani, in altri non ci sono, o meglio, non ci sono cristiani arabi indigeni.
Nell’Africa del Nord, nell’Arabia Saudita e negli Emirati del Golfo, non ci sono cristiani arabi indigeni, ci sono cristiani stranieri, arabi del Medio Oriente o cristiani occidentali immigrati per lavoro. Negli altri paesi arabi, Sudan, Egitto, Iraq, Siria, Libano, Giordania, Palestina, ci sono cristiani arabi indigeni, che sono parte del popolo arabo, e parte del paese in cui vivono. I cristiani arabi sono in ogni paese un piccolo gruppo, in proporzione alla maggioranza musulmana del paese. Una sola eccezione a questo fenomeno è il Libano, in cui i cristiani, essendo una maggioranza, hanno avuto il governo in mano. In ogni paese, tra i cristiani arabi c’è un gruppo maggiore: in Egitto il gruppo maggiore sono i copti, nella Siria i siriani, nell’Iraq i caldei o nestoriani, nel Libano i maroniti.
Attorno a questi gruppi maggiori ci sono altre due confessioni: greca e latina. I greci si trovano in tutti i paesi, eccetto l’Iraq, i latini si trovano maggiormente nella Terra Santa, nella diocesi del patriarcato latino di Gerusalemme, Palestina, Giordania, Israele. I protestanti si trovano un po’ in tutti i paesi arabi, ma in piccolo numero. Gli armeni sono rimasti fedeli alla loro cultura religiosa, ma hanno adottato la lingua araba in tutti i paesi arabi in cui hanno scelto di vivere. Tutti i cristiani arabi (ortodossi, cattolici e protestanti) sono raggruppati nel Consiglio della Chiesa del Medio Oriente.
Le varie comunità cattoliche (Siriani, Greci, Maroniti, Latini, Caldei, Armeni) sono riunite in una Assemblea dei Patriarchi e Vescovi, così nell’Egitto, Siria, Iraq, Libano e Terra Santa. Nel Sudan c’è una conferenza episcopale dei vescovi sudanesi (sette diocesi). Nell’Africa del Nord, c’è la conferenza Episcopale per i cinque paesi (Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e Mauritania). Per le Chiese latine nei paesi arabi, c’è la Conferenza Episcopale per le Regioni Arabe (CELRA), che comprende, oltre i paesi propriamente arabi (Medio Oriente e Golfo), i Gibouti e la Somalia, essendo entrambi come paesi arabi, avendo come lingua ufficiale l’arabo e la religione ufficiale è l’Islam. Dal 1990, c’è il Consiglio dei Patriarchi Cattolici dell’Oriente.
2. Le caratteristiche della presenza dei cristiani. Per quanto riguarda i rapporti con le autorità civili e religiose dell’Islam, sono generalmente buone. Le leggi e la costituzione sono fatte per tutti i cittadini, cristiani e musulmani. Malgrado questo positivo, rimangono campi in cui i rapporti esigono più chiarezza. Alcune difficoltà sono per il cristiano un mezzo di purificazione e di precisazione della propria identità religiosa. A livello delle masse c’è un’ignoranza, sia tra i cristiani che tra i musulmani, e questa ignoranza è causa di incidenti, piccoli o gravi, o di una interpretazione confessionalista o religiosa di certi fatti culturali.
Nell’inserimento nella nazione e nella partecipazione alla vita pubblica ci sono tre atteggiamenti che si possono notare: a) un inserimento sano col quale il cristiano, ispirato dalla sua fede e fedele ad essa, partecipa alla vita della nazione; b) un inserimento non sano, quando si perde la fede come vita (questo avviene specialmente nei partiti politici di sinistra); c) c’è la marginalizzazione, se il cristiano stesso scoraggiato ha paura, non vuol combattere, fugge o rimane nel paese, emarginato. Nel seno di quest’ultimo atteggiamento fatto di paura e di emarginazione, si aggiunge o nasce l’attesa di un salvatore, esito di un certo messianismo molto temporaneo, confuso, stretto e illusorio.
I cristiani, pur essendo un piccolo numero, sono divisi in tante comunità. Questo fatto crea una psicologia di difesa nei confronti dell’altro, una paura di sparire, di essere divorato dal più forte. Così la vita presente diventa in gran parte un’azione di conservazione, più che di sviluppo e a volte questo istinto di conservazione diventa un ostacolo allo sviluppo o all’adattamento al presente e alla preparazione dell’avvenire.
Un’altra caratteristica è l’instabilità politica, e questa non è particolare per i cristiani arabi, ma è generale a tutti i paesi e popoli arabi. Questa instabilità politica è accompagnata ad uno sforzo del paese verso lo sviluppo, la democrazia e la stabilità in genere. In questo sforzo il paese deve lottare su due fronti: all’interno con l’estremismo religioso, all’esterno con l’ingerenza, o con interessi, o anche con l’aiuto stesso prestato da amici dall’esterno. Questa instabilità politica generale si manifesta a volte in conflitti aperti come quello della Terra Santa, conflitto tra israeliani e palestinesi, israeliani e mondo arabo, conflitto del Libano, del Sudan, dell’Iraq e in quello che riguarda l’estremismo religioso, in Egitto e nell’Algeria.
Cerchiamo ora di chiarire la posizione del cristiano rispetto a queste caratteristiche evidenziate. La Chiesa ribadisce: 1) il cristiano arabo non si trova per caso nel mondo arabo. La sua vocazione è di essere cristiano nel mondo arabo, e non altrove. La sua vocazione è una vocazione ad una vita difficile, oggi e domani, perché è “piccolo numero”, perché è “differente” nel seno del suo popolo, dovrà sempre lottare per giustificare la sua presenza, e perciò per precisare a se stesso e consolidare la sua propria fede ed identità cristiana. La sua vocazione nel seno del mondo arabo è di continuare una testimonianza a Gesù Cristo nel suo paese che è la Terra Santa e nelle regioni arabe vicine. Il cristiano arabo deve dare l’immagine giusta di Gesù nel mondo musulmano e arabo: questa è una grande responsabilità.
2) Il cristiano arabo, come ogni cristiano nel mondo, è parte integrante del suo popolo. Il cristiano arabo è arabo, come il cristiano italiano è italiano, il francese è francese, e così via. Il cristiano palestinese è palestinese, il giordano è giordano, il libanese è libanese.
Nonostante il fatto del “piccolo numero” i cristiani non sono “un gruppo estraneo”: appartengono al popolo con gli stessi diritti e doveri. Perciò non sono una comunità chiusa su se stessa: non sono solamente comunità religiosa, sono questo sì, ma anche parte del popolo. A questo riguardo alcuni cristiani spinti da esigenze pragmatiche e da agenti politici al di fuori della comunità cristiana, sono tentati di creare “un partito politico cristiano” come strumento di difesa, di affermazione di se stessi e della fede. Davanti a questa tentazione, noi come Chiesa diciamo: a) un partito cristiano arabo, in qualunque paese arabo o non arabo (per esempio Israele), si presenterà davanti al cristiano e al non-cristiano, come partito della Chiesa. La Chiesa deve essere madre di tutti i figli di qualunque partito siano, e non si può avere un partito politico della Chiesa.
b) Un partito cristiano arabo non avrà mai tutti i cristiani nel suo seno. Sarà comunque un nuovo agente di divisione, più che un agente di unione e di difesa. c) Nell’Oriente e nel mondo arabo, un partito cristiano avrà un significato religioso fino al fanatismo; la fede cristiana non può e non deve condurre a nessuna forma di fanatismo. Per questo i cristiani arabi, malgrado il loro “piccolo numero”, non devono avere paura, sono parte del popolo e devono essere coinvolti nella vita politica economica sociale del loro popolo.
3) Il cristiano arabo ha vocazione all’ecumentismo: in ogni paese arabo come abbiamo detto, ci sono tante confessioni cristiane. Ad esempio in Palestina, tutti i cristiani, cattolici, ortodossi, protestanti, siriani, maroniti, sono palestinesi. I fedeli laici hanno la coscienza di essere “uno”, malgrado le differenze di confessioni: da qui viene la responsabilità delle autorità ecclesiastiche di orientare i fedeli verso l’unità voluta da Cristo stesso e dalle circostanze vissute dai cristiani.
4) Il cristiano arabo è chiamato al dialogo con le religioni, con l’Islam e col giudaismo.
Con l’Islam. Il cristiano ed il musulmano sono tutti e due arabi. Appartenendo ad un solo popolo, tocca a loro due costruire insieme la loro società. Il rapporto del cristiano arabo con l’Islam è un rapporto intimo. Non è un rapporto di fede e di dogma, ma un rapporto di cultura e di storia. Tutta la storia dell’Islam, e la cultura musulmana è patrimonio del cristiano arabo. Il cristiano arabo ha due patrimoni, quello cristiano e quello musulmano e perciò può fare il dialogo e può aiutare a farlo. Ma bisogna dire anche che il patrimonio cristiano stesso, quello della terra che era cristiana, dell’Africa del Nord, dell’Egitto, della Siria, dell’Iraq, è patrimonio anche del mussulmano arabo. Questa presa di coscienza della partecipazione allo stesso patrimonio sia cristiano che mussulmano, aiuterà l’uno e l’altro ad un dialogo positivo e sano. Il cristiano arabo deve sapere distinguere tra Islam ed estremisti musulmani. L’estremismo è un fenomeno che appare spesso nella storia per varie ragioni. Oggi le ragioni principali dell’estremismo religioso sono le ingiustizie sociali e politiche e le leggi che gestiscono i rapporti tra i popoli, ed i diritti alle ricchezze naturali dei popoli. Se si fa giustizia in questi campi di ingiustizia, si toglierà molto all’estremismo religioso.
Con il giudaismo. Il giudaismo si presenta a tutto il mondo arabo sotto il fatto del conflitto politico tra Israele e Palestinesi, tra Israele e Paesi Arabi. Le leggi della politica o del diritto internazionale devono reggere questo conflitto. Ma come religione, e come coesistenza quotidiana, il cristiano arabo deve iniziare un dialogo ispirato dalla sua fede. Nel dialogo religioso giudaismo-cristianesimo, bisogna distinguere tra il conflitto politico ed il dialogo delle religioni. Perché ciascuno ha le sue vie e le sue leggi. Il dialogo religioso non deve essere manipolato dalle forze politiche, e non deve far dimenticare le ingiustizie, nel campo politico e nella vita quotidiana. Il criterio d’un dialogo è il rispetto della persona umana, della verità vissuta dagli uomini in dialogo, ed il rispetto della fede in Dio, come Dio l’ha rivelata, secondo le sue vie misteriose.
Dall’Oriente è venuta la Rivoluzione: dall’Oriente abbiamo conosciuto Dio ed il Suo Verbo Incarnato. L’Oriente rimane oggi la terra santa, sorgente dello Spirito, dimora di Dio, per tutte le tre religioni monoteistiche: giudaismo, islam e cristianesimo. Ma oggi l’Oriente è coinvolto in un conflitto politico a dimensione internazionale, proprio perché la terra disputata rimane la dimora di Dio per tutti i credenti. Ma oltre il conflitto della Terra Santa, tra israeliani e palestinesi, ci sono interessi diversi e specialmente il petrolio che regola i rapporti tra Oriente e Occidente: c’è anche l’intromissione dell’estremismo religioso.
L’islam deve essere concepito come il partner, l’interlocutore, l’altra voce del dialogo, della cultura e del nuovo ordine da costruire. L’Occidente deve riprendere i suoi valori cristiani per arrivare ad un incontro adeguato con l’islam, un incontro di collaborazione e di costruzione, e non più di guerra, di sfiducia mutua e di ostilità. L’islam non può essere il nemico, non è il nemico, ma è l’interlocutore necessario per costruire la nuova società mondiale. I cristiani arabi condividendo già la fede cristiana e la cultura musulmana, possono essere un aiuto prezioso in questo nuovo incontro.
Sua Eccellenza Monsignor Egidio Sampieri, vicario apostolico per i Cattolici Latini in Egitto
Sampieri: Durante il Concilio Vaticano II, molti vescovi dell’America latina cercavano di convincere i miei predecessori a chiudere le case e le opere in Egitto, per mandare missionari nell’America Latina. Pensavano che tenere 1500 religiosi e religiose in Egitto fosse un personale sprecato, e la prova che adducevano sembrava evidente: “Voi siete là senza poter convertire i musulmani, che non si convertiranno mai; i Copti hanno il loro patriarca e la loro gerarchia, voi 1500 missionari latini siete perlomeno inutili o persone in più”. I missionari hanno risposto: “Noi rimaniamo in Egitto anche senza battezzare, soltanto con la nostra testimonianza”. Questo per vari motivi, per obbedienza, perché i missionari sono mandati dalla Chiesa. In secondo luogo, la conversione è un’opera di Dio, non è opera mia. Gli uomini potranno convertirsi quando il Signore vorrà. Noi non conosciamo i tempi, non conosciamo le ore, dobbiamo accettare la condizione e offrirci in oblazione a Dio. I nostri missionari non sono partiti per l’America latina, ma i missionari dell’America Latina sono venuti da noi come le Missionarie di Santa Teresa del Bambin Gesù, perché sono stati attirati da questo mondo che ha tante ricchezze e tante possibilità di presenza cristiana.
I cristiani arabi egiziani sono 7 milioni, con un patriarca, 60 vescovi, 5 vescovi ausiliari, qualche migliaio di sacerdoti, di monaci, di persone consacrate. Tuttavia questa Chiesa è in difficoltà. Ogni anno da 10 a 15 mila vengono assorbiti dall’Islam, perché sono piccole comunità di cristiani in mezzo ad una grande comunità islamica.
Non c’è la possibilità di mandare un sacerdote per assistere due o tre famiglie cosicché molti cristiani non sanno neppure chi è Gesù Cristo. Un padre gesuita in visita ad un villaggio dell’Alto Egitto ha chiesto ad un ragazzino: “Conosci Gesù Cristo?” “Veramente io non l’ho mai visto. Forse abita nel villaggio. Chiedilo al capo villaggio e te lo dirà”.
Abbiamo compreso che non potevamo accontentarci delle nostre strutture, ma che dovevamo cercare la persona. Ci siamo detti: “Usciamo dai conventi e andiamo per le strade, nei quartieri popolari in cerca di queste persone non interessanti che nessuno cerca”. Abbiamo scoperto un campo immenso di apostolato e man mano che si scopriva qualcosa, si creava una piccola struttura o si rispondeva al bisogno. Vi porterò alcuni esempi. Facendo il giro dei villaggi ho scoperto ragazzi molto intelligenti, ma analfabeti. Così sono nati i corsi di alfabetizzazione che ora sono centinaia.
Una ragazza cristiana, per fuggire la povertà familiare si era unita in matrimonio ad un musulmano che dopo un anno l’aveva ripudiata. Così questa ragazza era stata costretta a passare di casa in casa con un bambino in braccio rifiutata da tutti, dai cristiani che la consideravano un’apostata, e dai musulmani, poco convinti della sua conversione all’Islam. E così abbiamo iniziato ad aiutare le ragazze povere a sposarsi.
Un’altra iniziativa è stata suggerita dalla morte di una madre di quattro figli. Dopo la celebrazione del funerale ho saputo che i figli, ancora in tenera età, erano stati accolti da una famiglia musulmana, che, peraltro, non era in grado di mantenerli. Allora ho preso quei bambini e li ho affidati ad una donna cristiana, dandole qualcosa per il loro sostentamento. Oggi abbiamo circa mille orfani che assistiamo a domicilio.
Le condizioni della popolazione sono estremamente povere; per questo, la nostra opera in Egitto è stata ed è il tentativo di aiutare la persona, l’uomo nelle sue necessità. Ma la persona nei suoi bisogni deve essere rispettata per potere svilupparsi e comprendere perché vive la sua religione e la sua dignità. Così abbiamo allargato il campo della carità e abbiamo chiamato anche Madre Teresa di Calcutta, che appena è venuta sul posto è rimasta colpita dalla miseria di questa gente e in meno di un mese ha aperto quattro comunità.
Si parla molto di dialogo con l’Islam: bisogna dialogare, ma non dobbiamo essere sempre noi in prima fila i responsabili di questo dialogo. Anche l’Islam deve dialogare con l’Islam, perché nell’Islam c’è già una divisione, un Islam moderato e un Islam estremista. Il moderato non accetta l’estremista e come conseguenza ci sono il terrorismo, le lotte. I moderati non vogliono questo, non vogliono coprire le loro mogli come fossero delle claustrali, non vogliono richiudere e far perdere i diritti della donna nella società moderna, vogliono il rispetto della persona, la libertà.
Bareau ha scritto un libro, L’Islam e la modernità, ed è stato subito condannato a morte come Sulmon Rushdie: anche noi appena diciamo i nostri principi siamo condannati, e qualsiasi musulmano può addirittura ucciderci perché entriamo in un campo indiscutibile. L’Islam è ancora in fase di sviluppo; noi l’aiuteremo, perché lo amiamo sinceramente. Ho vissuto con i musulmani fin dalla mia infanzia e non ho fatto mai distinzione fra cristiani e musulmani. Siamo tutti fratelli, però non dobbiamo essere ingenui in questa apertura, neppure pessimisti, ma persone intelligenti nel vedere la realtà così com’è, e portare un contributo, fiduciosi della grazia e della forza della nostra parola.
Sua Eccellenza Monsignor Fouad Twal, vescovo di Tunisi
Twal: Il mio intervento si limiterà a fornire un cenno circa la mia tribù cristiana araba in Giordania; poi farò un salto a Tunisi e parlerò dei rapporti fra la mia chiesa e l’Islam e delle difficoltà locali del dialogo. Sono numerose le pubblicazioni circa il mondo arabo e cristiano e l’apporto dei cristiani alla cultura araba-musulmana. Mi limito, con tutta la modestia, a offrire una testimonianza personale di un contesto geografico e storico ben delimitato.
A Madaba in Giordania, mia città natale, situata fra i due santuari di Montenebo e Macheronte, da piccolo non sentivo parlare di dialogo. Nelle tribù nomadi non si parlava di tolleranza mussulmana verso la minoranza cristiana: tolleranza è una parola da sostituire nel nostro linguaggio con la parola uguaglianza. C’era una convivenza quotidiana, tessuta nei contatti di commercio, di ospitalità, di giochi nei quartieri e di studi nei collegi e nelle scuole. Nella mia città, da piccolo cristiano arabo che correva scalzo per le strade polverose con altri ragazzini mussulmani, c’erano una reciprocità, una uguaglianza indiscutibili, condivise nella povertà dei consumi. La sopravvivenza della mia tribù nei secoli, nonostante l’invasione musulmana, non è stata assicurata né dalle potenze cristiane dell’Occidente né dalla carità cristiana, ma dal “diritto tribale”, frutto di esperienze secolari e di una sapienza orientale. Tutte le tribù riconoscevano l’esistenza di tale diritto valido sia per i cristiani che per i mussulmani, avendo la stessa mentalità, le stesse reazioni, gli stessi obblighi e diritti, avendo come dogma il senso della ospitalità, della fedeltà alla parola, della accoglienza dello straniero, a prescindere dalla sua religione e origine; avendo infine la stessa ignoranza religiosa comune a tutti i nomadi. La parola “dialogo” nel senso moderno di oggi non era ancora entrata nel linguaggio tra la maggioranza mussulmana e la minoranza cristiana.
Dopo secoli di vita nomade siamo giunti al progresso e alla civilizzazione moderna: è stato promulgato il diritto civile e la costituzione in cui si legge che la Giordania, come tutti gli altri Paesi arabi, è un paese di religione mussulmana. Così, con il progresso e con la politica che spesso divide e raramente unisce, abbiamo preso coscienza anche legalmente della nostra diversità confessionale e siano entrati nell’arena della moda, per parlare del dialogo.
Faccio un salto geografico e storico. Da un anno mi trovo a Tunisi come vescovo per servire la chiesa di S. Agostino. La Santa Sede, sempre più attenta e sensibile alle aspirazioni dei popoli, ha pensato di rompere con una tradizione secolare che vedeva succedersi nella sede di Cartagine vescovi francesi e, per la prima volta, ha nominato un Vescovo arabo-giordano. Per il patriarcato latino che fa capo a Sua Beatitudine, qui presente, questa nomina a Tunisi può essere considerata una prova di maturità ecclesiale e missionaria eccezionale. Per me personalmente la nomina a vescovo, prelato di Tunisi, fa parte del servizio alla stessa Chiesa universale, allo stesso Signore Gesù Cristo. La reazione della mia tribù, della mia famiglia, alla mia nomina si riassume nelle parole di mia madre: “questo figlio è nato nomade e rimarrà nomade per tutta la vita”.
L’islam tunisino e il dialogo. La religione mussulmana è nata in un contesto geografico ricco di pluralismo religioso e il Corano fa cenno chiaramente alla gente del libro. L’Islam vissuto non è monolitico per ragioni di paesi, di lingua, di livelli di cultura e di grado di adattamento alla modernità. Perciò ci sono paesi e popolazioni con cui è impossibile dialogare e collaborare. A Tunisi il dialogo è possibile per i seguenti motivi: a) Nel paese si sono succedute diverse culture: punica, greca, romana, cristiana e mussulmana e ognuna di esse ha lasciato delle tracce. Tuttavia, nei libri di scuola si insiste sulla cultura islamo-araba, trascurando tutto il resto. b) L’elemento umano tunisino è pacifico e non violento, si presta al dialogo ed è in contatto continuo con stranieri. c) La politica dell’attuale regime del presidente Ben Ali è una politica di apertura, e il paese vive la sua vocazione di ponte fra il continente africano e l’Occidente. Basterebbe pensare all’altissimo numero di congressi internazionali e nazionali che si svolgono a Tunisi, e alla corrente democratica sostenuta dagli intellettuali del regime a favore dei diritti della donna e della sua emancipazione, a tal punto che ogni donna mussulmana vorrebbe essere tunisina e alcuni tunisini vorrebbero rimanere soltanto mussulmani.
Il processo di democratizzazione in Tunisia è ormai avviato: per noi cristiani ogni progresso è una certa realizzazione del disegno di Dio. La nascita dell’integralismo ha spinto tutti i mussulmani a ripensare la loro posizione religiosa.
A Tunisi coesistono vari tipi di Islam: a) L’islam dei dirigenti politici, inseparabile dagli interessi economici politici. Questi dirigenti professano la tolleranza e il pluralismo anche politico. L’ultimo congresso del partito “Ressemblement Constitutionel Democrathique”, svoltosi a Tunisi il 5 e 6 c.m., ha riaffermato la libertà del pluralismo etico e il ripudio dell’integralismo. b) C’è l’Islam degli intellettuali, che sono a favore della libertà di espressione e di opinione e che vedono nella modernità il frutto di una lunga storia umana che è sfociata nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (1948). Grazie agli sforzi di questi intellettuali, sarà fondato, a partire dal prossimo settembre, nella facoltà di lettere, l’istituto di scienze religiose. Si esce in tal modo dallo schema rigido della tradizione e del Corano. Non so se questi intellettuali arrivino a concepire la libertà di conversione dall’Islam ad altre religioni.
c) C’è l’Islam popolare della gente semplice, preoccupata per la sopravvivenza e tesa ad assicurarsi il pane quotidiano: è la maggioranza in Tunisia. d) C’è infine l’Islam dell’integralismo e della violenza, che a Tunisi è controllato ed è ormai fuori gioco.
Giova ricordare che tutte le suddette correnti dell’Islam fanno riferimento al sacro Corano e trovano facilmente versetti che affermano la loro corrispettiva posizione. Questo semplice sguardo alle varie correnti ci invita a non dare lo stesso giudizio, positivo o negativo, verso tutti i mussulmani.
La Chiesa a Tunisi e il dialogo. “La Chiesa propone e non impone. Rispetta le persone e le culture, si ferma dinnanzi all’altare della coscienza” (Redemptoris Missio, 19). La mia diocesi si estende su tutto il territorio tunisino: è composta da 8 milioni di abitanti, di cui circa 20.000 cattolici, provenienti da 44 diverse nazioni, 50 sacerdoti, 170 religiose. Ci sentiamo responsabili anche dei due o tre milioni di turisti attirati dal sole e dalle spiaggie. I rapporti fra Chiesa e Stato, retti da un modus vivendi firmato dal 1964 fra la Santa Sede e il governo tunisino, sono corretti e buoni.
La mia diocesi non ha una fisionomia propria: è in Africa e non è una Chiesa africana; si trova in un paese arabo e non è una Chiesa araba. La nostra missione a Tunisi è umile e discreta, ma viva dinnanzi alla gente: opera nel settore educativo con 18 scuole di circa 6.000 alunni, tutti tunisini; nel settore socio-caritativo dove sono impegnate circa 60 religiose, al servizio degli handicappati, servizio diretto nei domicili oppure attraverso le associazioni tunisine governative e non governative. E’ un dialogo, di servizio, di carità e di vita, impregnato dal difficile rapporto tra una maggioranza mussulmana e una minoranza cristiana proveniente dall’estero. Una parola caratterizza la nostra attività: la gratuità totale. Siamo veramente lontani dalla falsa idea di una conquista, e non corriamo il rischio di essere una Chiesa di potere o di proselitismo. Nella nostra vita quotidiana è difficile delimitare la missione dal servizio, dalla testimonianza e dalla presenza.
Il tutto si chiama “vivere il Vangelo” ed è una vita di qualità: in questo consiste il nostro unico dialogo. Vorrei, con il nostro modo di vivere, fare sentire la nostra convinzione, che siamo parte integrante della grande e bella Chiesa cattolica, e non c’è motivo di chiuderci in un ghetto, sotto il pretesto che siamo una minoranza. D’altronde, i fedeli al Signore sono e saranno sempre una minoranza anche nei paesi cosiddetti cristiani e cattolici.
Chiesa e politica. La Chiesa a Tunisi, partendo dalla sua missione religiosa ed umana, fa una distinzione tra religione e politica. Il modus vivendi stabilisce che la chiesa non deve svolgere alcuna attività politica: però siamo certi di fare parte della CERNA (Conference Episcopal Regionale du Nord-Afrique) e tutti i problemi e aspirazioni della Chiesa africana sono nostri. La Tunisia fa parte della Lega Araba, e non possiamo non sentire e vivere i problemi, il dramma e le difficoltà del mondo arabo. E’ il nostro mondo! La composizione dei fedeli provenienti da 44 nazioni diverse non facilita la presa di posizioni politiche; è necessario al riguardo avere un grande equilibrio.
La chiesa e le conversioni. Ognuno di noi vive e deve completare la propria conversione, prima di tentare di convertire gli altri. La conversione dal cristianesimo all’Islam è ammessa, anzi, nel caso di un matrimonio misto, è obbligatoria per l’uomo e non importa che sia contro la libertà di coscienza, contro il Corano stesso che ammette un pluralismo religioso e vieta l’ipocrisia, l’inganno e la bugia.
Tale obbligo è contro la Costituzione, che dichiara l’uguaglianza dei sessi. Non so quando e come un regime democratico mussulmano, in seno alla Nazione araba avrà il coraggio un giorno di rompere con questa pratica. I matrimoni misti sono da sconsigliare: è già assai difficile il matrimonio tra coniugi cristiani o mussulmani; come sarebbe quello fra due culture, due mentalità, due mondi tanto diversi? La felicità di alcuni matrimoni misti è una eccezione che conferma la regola. A Tunisi esistono non meno di 7 mila matrimoni misti. Rare sono le donne cristiane, nei matrimoni misti, che possono avvicinarsi alla Chiesa. Come spiegare la difficoltà di tali matrimoni a delle ragazze spinte dal romanticismo o dall’avventura, innamorate di un orientale mussulmano dai capelli neri?
E’ da sottolineare che la Tunisia rimane, dentro il mondo arabo, il paese mussulmano che ha fatto di più a favore della donna. Sarebbe molto utile alle ragazze europee che intendono contrarre un matrimonio con un tunisino, conoscere prima la legislazione al riguardo, ed essere al corrente dei loro diritti e obblighi. Eppure, è il caso di “sperare contro ogni speranza”: la presenza delle ragazze cristiane in seno alle famiglie mussulmane potrebbe essere un fattore di dialogo, di incontro e di rispetto reciproco e in alcuni casi potrebbe aiutare ad una conoscenza mutua: una certa integrazione è possibile.
Difficoltà del dialogo a Tunisi. Oltre alle difficoltà menzionate nell’ultimo documento (19 maggio 1991) “Dialogo e Annuncio”, oltre a quelle sottolineate nei diversi interventi al Meeting del Mediterraneo e in vari articoli, mi permetto, partendo dalla nostra esperienza a Tunisi, di aggiungere alcuni fatti che rendono più arduo il dialogo nei paesi arabi.
1) La democrazia unilaterale occidentale, con le sue conseguenze, corre il rischio di essere incompresa, mal interpretata o anche ben sfruttata. Un’incomprensione della libertà e della democrazia occidentale può spingere i non cristiani all’autodifesa religiosa e culturale, e perfino ad un integralismo o ad un’appartenenza religiosa ed etnica più marcate, fenomeno che non si verificava nel paese d’origine.
2) Il dialogo islamo-cristiano fra arabi è spesso ostacolato da decisioni politiche ed economiche prese in Occidente circa problemi mediorientali senza prendere in considerazione la presenza delle nostre minoranze cristiane; e il laicismo che ha sostituito il Cristianesimo in Europa non fa che aggravare la confusione tra Occidente e Cristianesimo.
3) L’uso smisurato da parte di alcuni cristiani di invocazioni coraniche come “Al Basmala” e la soppressione nei testi liturgici di alcune parole relative al Mistero dell’incarnazione (Madre di Dio, Morte, Croce, Figlio di Dio etc.), per facilitare il dialogo e non urtare la sensibilità degli interlocutori, è ingannare se stessi e dare ai mussulmani l’impressione di una strategia, di un modo forzato di dialogo o di intenti pacificatori.
Tutti i cristiani, anche in mezzo ai non cristiani, sono chiamati a vivere e a confessare la loro fede nella sua integrità. La conversione è frutto della grazia divina, e non delle nostre strategie e del nostro dialogo. Sovente, i mussulmani in seno alla Nazione araba non riescono, per motivi politici, ad avere un dialogo, nonostante la loro fede comune in Allah e nel suo profeta: perciò non dobbiamo meravigliarci se il nostro dialogo con loro non riesce sempre.
Se la Nazione araba intera attraversa delle difficoltà per riconoscere la sua vera identità, il suo ruolo in seno alla comunità internazionale, è evidente che le relazioni tra i figli di questa nazione soffrono le conseguenze. Un motivo di più per vivere i ranghi tra i credenti in un rapporto orizzontale: “Amatevi gli uni gli altri”, senza dimenticare la nostra dimensione verticale con Dio, unico creatore del genere umano.
Faccio mie le parole del S. Padre: “Finché i credenti non saranno uniti per ripudiare la politica dell’odio e della discriminazione e per affermare il diritto alla libertà di culto e di religione, la pace autentica non sarà possibile” (Allocuzione alla Delegazione Mussulmana, Assisi, 10/01/93). Con tutta la buona volontà da parte degli interlocutori, ci saranno in tutte le fasi del dialogo alcuni ostacoli insuperabili, e divergenze fondamentali e irriducibili, come l’incarnazione, la libertà di coscienza, la libertà pubblica di conversione, la libertà delle ragazze mussulmane a scegliere un marito cristiano etc.
Il nostro servizio pastorale a Tunisi può risultare, umanamente parlando, un fallimento come quello di Gesù, e la nostra vita nella terra di S. Agostino potrebbe essere come quella del Signore, “un seme condannato a morire” per dare frutto al tempo opportuno. Il nostro dialogo con i mussulmani potrebbe essere paragonato a quello che ebbe Gesù con i farisei, con gli Ebrei, con l’umanità, con ciascuno di noi. Non è detto che comporti sempre una corrispondenza e una risposta. “E’ da questa gratuità che nasce la fecondità”. Lasciamo più spazio alla libertà, al tempo e soprattutto alla Provvidenza del Signore.
Mi auguro che questi Meetings servano a vincere i pregiudizi, ad allacciare dei rapporti più umani e più giusti in seno alla famiglia umana e favoriscano l’incontro delle culture e delle religioni. Mi auguro che la minoranza mussulmana vivente in Europa, liberata dalle pressioni sociali, tribali e dai pregiudizi sia più disposta al dialogo, alla collaborazione, a difendere la libertà di coscienza. Mi auguro che la vostra carità occidentale, la vostra accoglienza e i vostri sforzi per aiutare gli immigrati siano esempi vivi che i mussulmani in Europa potranno, un giorno, esportare nei loro paesi arabi mussulmani. Mi auguro che il lodevole impegno per inserire ed aiutare le minoranze mussulmane, provenienti maggiormente dal Nord-Africa, sia seguito ed applicato reciprocamente nei paesi arabi e mussulmani nei riguardi delle minoranze cristiane. Mi auguro che questo impegno evangelico sia vissuto più intensamente anche verso i cristiani arabi che vivono in Europa (studenti o lavoratori), per inserirli nella pastorale locale e diocesana; che non siano soltanto oggetto della vostra carità, così che non si sentano “stranieri” nell’unica chiesa del Signore.
Mi auguro veramente che il servizio e i lodevoli sforzi prima, durante e dopo il nostro Meeting, siano motivati dal nostro amore per il Signore e per l’uomo, la più bella creazione di Dio, e sbocchi al termine dell’incontro anche in più amore.