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ANNO EUROPEO DEL VOLONTARIATO: OPPORTUNITÀ E SFIDE PER IL VOLONTARIATO
Anno europeo del volontariato: opportunità e sfide per il volontariato
22/08/2011 - ore 19.00_x000D_ In collaborazione con la Consulta Nazionale Comitati di Gestione dei fondi speciali per il volontariato. Partecipano: Cristina De Luca, Presidente Comitato di gestione dei fondi speciali per il volontariato del Lazio; Marco Granelli, Assessore alla Sicurezza e Coesione Sociale, Polizia locale, Protezione civile, Volontariato del Comune di Milano e Presidente CSVnet; Mario Melazzini, Vice Presidente del Centro Clinico NEMO e Presidente dell'AISLA; Antonio Miglio, Vicepresidente dell'ACRI; Carlo Vimercati, Presidente della Consulta Nazionale Comitati di Gestione. Introduce Monica Poletto, Presidente Compagnia delle Opere-Opere Sociali.
In collaborazione con la Consulta Nazionale Comitati di Gestione dei fondi speciali per il volontariato. Partecipano: Cristina De Luca, Presidente Comitato di gestione dei fondi speciali per il volontariato del Lazio; Marco Granelli, Assessore alla Sicurezza e Coesione Sociale, Polizia locale, Protezione civile, Volontariato del Comune di Milano e Presidente CSVnet; Mario Melazzini, Vice Presidente del Centro Clinico NEMO e Presidente dell’AISLA; Antonio Miglio, Vicepresidente dell’ACRI; Carlo Vimercati, Presidente della Consulta Nazionale Comitati di Gestione. Introduce Monica Poletto, Presidente Compagnia delle Opere-Opere Sociali.
MONICA POLETTO:
Innanzitutto, grazie della partecipazione, grazie ai relatori che hanno accettato questo invito del Meeting a un incontro che ha come tema Anno europeo del volontariato: opportunità e sfide per il volontariato, organizzato insieme ai comitati di gestione. Noi sappiamo che è un tema caldissimo. Il Meeting è molto affezionato al tema del volontariato: guardandoci intorno, abbiamo quattromila ragazzi, di cui io ho fatto parte in età giovanile, che volontariamente portano avanti questo tipo di esperienza. Legate al Meeting, ci sono tantissime realtà associative di gratuità che nascono dalla libertà delle persone che decidono di darsi, e dandosi, scoprono un certo tipo di compimento umano. Perciò il tema del volontariato ci è caro. Vogliamo affrontarlo a 360 gradi con un partner un po’ d’eccezione. Man mano potrò introdurre i nostri ospiti, sono persone che hanno davvero una competenza nei comitati di gestione, nei centri di servizio volontariato, soprattutto nelle esperienze personali. A tutti loro, ho chiesto di raccontare i punti di vista – in alcuni casi farò delle domande – ma di raccontarci soprattutto la loro esperienza legata a questo tema, al tema della gratuità che ci piace sempre ricordare come parola fondante l’azione di volontariato. Perciò affronteremo questo tema dello stato attuale dei centri di servizio, dei comitati di gestione, il ruolo delle fondazioni all’interno del sistema. Ho chiesto a queste persone di dirci: cosa vedete del volontariato in Italia? A che punto siamo, cosa sta succedendo? Allo stesso tempo, chiederò loro che tipo di esperienza facciano nell’impattare questo mondo. Partiamo dal mio nuovo assessore perché, trasferitami a Milano, mi sono trovata Marco Granelli come assessore: oltre ad essere un amico caro e antico, ha un’esperienza importante. Lo conosciamo tutti, è il presidente di CSVnet , e di recente è diventato assessore a una cosa che devo leggere perché non la so, si chiama “Sicurezza Coesione Sociale, Polizia locale, Protezione civile e Volontariato”, cioè tantissime deleghe e nessun soldo. A lui ho chiesto di raccontarci innanzitutto come vanno i centri servizi per il volontariato, quale tipo di volontariato ha potuto vedere in questi anni dal suo punto di osservazione e qual è la sua esperienza personale di volontariato. Anche perché è interessante che, partendo da un’esperienza molto legata al mondo del privato sociale, abbia deciso di buttarla in politica. Ci interessa anche capire quale tipo di percorso ti abbia portato qui. Perciò do la parola a Marco e lo ringrazio.
MARCO GRANELLI:
Grazie per l’invito, grazie per come mi hai presentato e grazie a tutti voi. Tante volte ci siamo trovati in queste occasioni a parlare di volontariato, di centri di servizio, di comitati di gestione, di scenari. Penso che quest’anno sia stato proprio bello che abbiate scelto di mettere questo nel programma, non solo perché siamo in un anno speciale, l’Anno Europeo del Volontariato, ma anche perché siamo in un anno in cui dobbiamo fare scelte che oserei chiamare epocali. Siamo veramente di fronte – non dico come volontariato ma come persone, come cittadini, come Paese – a un momento in cui dobbiamo fare delle scelte grandi di cambiamento. E quando si cambia, bisogna avere la forza di lasciare alcune cose, di cambiare alcune abitudini ma soprattutto bisogna sapere verso dove bisogna cambiare. In questo senso, mi fa piacere che tu abbia parlato d’esperienza e che, nel messaggio del Meeting, abbiate legato le certezze e le esperienze, perché penso che uno dei dati veri e forti del volontariato, il contenuto che il volontariato può dare, la sfida che può cogliere, è proprio questa: dare al Paese un contributo di cambiamento, la conoscenza della necessità di questo cambiamento, la direzione di questo cambiamento, a partire dall’esperienza quotidiana. Ho avuto negli anni la fortuna di ricoprire diverse responsabilità ma sono nate da un’esperienza concreta di volontariato. Ho avuto la fortuna di vivere in un quartiere di periferia di Milano dove ho trovato persone più grandi di me che, quando facevo la prima superiore, mi hanno coinvolto in un trasloco alle nuove case popolari. Portavo su e giù i mobili: può sembrare una banalità, ma l’avere avuto delle persone che mi hanno aiutato nella mia storia – penso che tutti voi abbiate avuto questa esperienza – ci ha messo in un percorso che ha cambiato prima noi stessi, che ci ha dato certezze e fiducia. Perché l’esperienza di volontariato è questa, un’esperienza concreta: io ho cominciato così, portando su e giù dei mobili da case popolari vecchie, da abbattere, a nuove case popolari di diciassette piani. Mobili di anziani, che andavano ad abitare, dalla casa di ringhiera nel monolocale al diciassettesimo piano. Un’esperienza di fatica concreta, a fianco delle persone e quindi non da solo.
Io pensi che qui dentro ci siano le caratteristiche forti del volontariato, le vere energie e risorse che il volontariato può dare al Paese, in questo momento così difficile. Cioè, un’esperienza concreta di risposta al bisogno, a partire dalla concretezza, dal condividere, dal mettersi a fianco e non sopra, dal capire il bisogno e intervenire con gratuità. E questa gratuità mi ha insegnato a costruire relazioni con gli altri amici volontari, relazioni con le persone che si incontravano. Perché attraverso quei gesti semplici, si capiva che si rispondeva non solo al bisogno di gente singola ma ai bisogni comuni: in primo luogo, il bisogno di relazione tra le persone. In quel momento, un trasloco, poi dare una mano ai bambini delle case popolari o condividere l’esperienza della vacanza con persone disabili ha permesso questo l’esperienza concreta, che crea quella fraternità non scelta ma condivisa, trovata. Essendo insieme con altri, si è scoperto che c’era un valore nelle altre persone, e c’erano anche difficoltà, che tutto non era come uno lo può pensare a priori, ma va costruito giorno per giorno, avendo un punto di riferimento, cioè delle certezze. Per me erano la fede, per altri, il rispondere a dei beni comuni: ma sono queste le linee che aiutano e che rendono il volontariato un esperienza che sa far conoscere cosa sia il bene comune
Tutto questo è stato fondamentale nell’attività dei centri di servizio, perché svolgere il compito di individuare i servizi per far crescere un volontariato vuole dire partire dall’esperienza concreta e dall’esperienza delle associazioni: il principio non è di avere in mente e costruire a tavolino dei servizi, ma partire dall’esperienza delle associazioni e mettersi insieme per rispondere meglio. Questa è l’idea che stiamo costruendo come CSVnet: ora che lascerò il CSVnet, sarà compito della classe dirigente costruire sempre più centri di servizio che abbiano al loro interno il volontariato, cioè che sappiano avere un atteggiamento sussidiario. Non si tratta di andare a cercare qualcuno che, dal di fuori, mi dica qual è il bene delle associazioni, ma di mettere insieme le associazioni e far dire a loro i percorsi che le rendano più capaci di svolgere la loro funzione. Questo però c’entra molto con la parola sfide: Opportunità e sfide per il volontariato. Allora penso che la sfida più grande che oggi ha il volontariato sia la capacità di dare una risposta al Paese, perché il volontariato, in un momento difficile, non pensa alla sua sopravvivenza ma a come rispondere alle difficoltà che vive questo Paese. E dico Paese in senso lato, perché siamo di fronte a una crisi mondiale.
La risposta vera che il volontariato può dare è di intervenire concretamente e mettere qualche pezza – scusate se utilizzo questo linguaggio -, fare un cambiamento educativo e culturale, re-insegnare – anche a noi stessi, perché tutti dobbiamo essere capaci di metterci in discussione – che c’è un bene comune più grande di noi, e che questo è molto concreto, non sta nelle filosofie. Forse un po’ di delirio tecnologico di onnipotenza e un po’ di nichilismo hanno fatto perdere alle nuove generazioni il senso e il significato vero di che cosa sia il bene comune, che non vuol dire quello di tutti ma qualcosa in cui ci sentiamo, uno spazio pubblico vero. La mia esperienza di assessore mi sta insegnando: se prima, quando stavo dalla parte del volontariato e dei centri di servizio, quando parlavo con il mondo della politica, dicevo “attenzione, prima il consenso, non pensate di sostituirvi a noi ma metteteci nelle condizioni di lavorare al meglio”, questo oggi devo cercare di farlo come assessore.
Forse uno degli errori della politica è anche questo, essere troppo centrati sulla leadership personale invece di pensare che uno svolge un ruolo e che, quando è assessore, deve assumersi le proprie responsabilità fino in fondo. Però lo fa perché ha dietro una storia, una comunità, delle amicizie che gli hanno permesso di arrivare lì e che, da quel giorno, lo devono aiutare. Anche in questo senso, la mia esperienza di assessore vuol dire pensare a come aiutare le associazioni a continuare ad essere presenti in questo cambiamento culturale, avere il coraggio di questa sfida. La politica e le istituzione hanno bisogno di questo perché, di fronte ai numeri che conosciamo, il problema non è solo quello di mettere qualche pezza e cercare qualche soldo in più. Si tratta di dirci quello che, nella Caritas in Veritate, il nostro Papa diceva con chiarezza: con la crisi è fallito un modello economico centrato sull’economia finanziaria, sul massimizzare il profitto immediato. Quello che aspetta le generazioni future è quello che hanno rischiato di fare gli Stati con il debito pubblico e rischiano di fare i Comuni: lo vedo anche nella mia esperienza di Giunta a Milano, dove bisogna cercare i soldi. Allora, il tentativo è quello di trovarli sul dopo. Bisogna invece avere il coraggio forte di creare il consenso per andare a toccare, per esempio, le rendite finanziarie speculative. Per fare questa cosa, ci vuole coraggio politico e le istituzioni questo coraggio politico non possono averlo da sole, hanno bisogno di avere un consenso dalla società civile, che aiuti a ricostruire la gerarchia dei valori.
Veniva fuori anche oggi, nell’incontro sulla famiglia: è più importante garantire un servizio di asilo nido a una famiglia, rispetto ad altre cose? Però, per fare queste scelte che sono dolorose, bisogna avere il consenso: e oggi la politica è abituata a prendere il consenso, quello più forte, quello che emerge dai sondaggi. Invece qui bisogna aiutare la società a capire quali sono le cose vere: e questo non possono che dircelo la società civile e il volontariato.
Cito il volontariato anche in senso lato: chi s’è occupato di bene comune, chi tutti i giorni si confronta con il bene comune e cerca di produrne una parte, deve aiutare a far conoscere a tutti i cittadini quali siano le priorità di scelta e dove sia necessario andare per trovare le risorse e aiutare le istituzioni a prendere il coraggio di fare dei cambiamenti, che sono difficili, perché vanno a toccare alcuni poteri che si sono sedimentati. Lo dicevamo anche prima, chiacchierando. Io l’ho visto nel Comune di Milano, ma è un dato nazionale e internazionale: alcune ricchezze patrimoniali sono concentrate, il 50% della ricchezza a Milano è concentrata nel 10% della popolazione. Dobbiamo avere il consenso, non per fare la lotta di classe ma per far capire a questo 10% di persone che detengono la metà della ricchezza a Milano che devono condividere delle scelte per cui queste ricchezze vengono messe a disposizione di tutti, in maniera giusta, con delle regole, in maniera non assistenziale e non paternalistica. Se non riusciamo a sbloccare questo, ci ritroveremo di fronte una società che poi vive conflittualità da guerra civile: e purtroppo, in Europa o vicino all’Europa, vediamo tutti i giorni accadere questo.
Occupandomi un po’ di polizia locale, ho guardato con preoccupazione i recenti fatti di Londra: significano che dobbiamo costruire il consenso per i cambiamenti difficili. Abbiamo visto, qualche mese fa, cosa è successo in Grecia: dobbiamo prevenire quelle situazioni. Un’alleanza forte tra i soggetti di questa società – la società civile, il terzo settore e il non profit, il volontariato, insieme allo Stato e al mercato -, in una corresponsabilità. E’ l’esperienza che abbiamo vissuto tutti quando da volontari, da associazioni di volontariato, abbiamo cercato di andare da chi rappresentava le istituzioni, il mercato, l’impresa, a dire: ho un’idea, un’esperienza concreta, mi aiuti a costruirla e a farla. Oggi ci vuole coraggio, e questo coraggio viene dato dalla forza che il volontariato ha. E concludo: il volontariato ha il soggetto, l’entità, la maggiore fiducia da parte dei cittadini, cose che dobbiamo usare per motivare scelte difficili, dove però il volontariato e il terzo settore non rimangono solo un palliativo, ma diventano chi sa mettere insieme istituzione e mercato e creare vere risposte. Forse bisogna riuscire a farlo prima della fine di quest’anno, chiedendo al volontariato di mettersi insieme tra le singole associazioni tra di loro e il mercato insieme con l’impresa sociale con il resto del terzo settore per diventare un interlocutore politico forte questo lo diceva anche la carta dei valori del volontario di dieci anni fa, forse può essere la crisi così grave, come vediamo in questi giorni a ridarci la forza di farlo. Grazie.
MONICA POLETTO:
Grazie, Marco. Allora passo la parola a Carlo Vimercati, che è presidente della Consulta Nazionale dei Comitati di Gestioni, in sigla COGE, a cui chiedo di raccontarci cosa sta succedendo in quel mondo, come vede lui la situazione, cosa accade dei centri di servizio. Raccontaci.
CARLO VIMERCATI:
Vi ringrazio, ormai abbiamo una familiarità, noi Comitati di Gestione, con tutti i servizi del Meeting: è la continuazione di un dialogo, non partiamo da zero con questa esperienza ma è un percorso che abbiamo accompagnato. Credo che il lavoro che è stato fatto in questi anni, grazie ai comitati di studio e ai centri di servizi, con le fondazioni di origine bancaria, che naturalmente sono quelli che danno le risorse – dopo Antonio ne darà conto – sia un contributo importantissimo alla concretizzazione del nostro Paese, di una sussidiarietà veramente orizzontale, cioè utile. E ci fa piacere che in questi tempi di crisi, in cui mancano i soldi, tutti parlino di questa sussidiarietà orizzontale come il toccasana, la sistemazione dei problemi. Non sempre è stato così perché la sussidiarietà, in questi anni, è stata usata anche male e strumentalmente. Ci fa piacere che adesso molti comincino a indirizzarla ad una utilità vera, ai bisogni veri. Io credo che l’esperienza dei comitati gestione di questi anni abbia dato un contributo vero. Innanzitutto, i comitati di gestione sono organismi nati dalla legge 266, fatti da persone, nominate dalle fondazioni bancarie, dal volontariato, dagli enti locali: persone che, in questi undici anni di vita della legge 266 e del sistema dei fondi speciali del volontariato, hanno fatto un lavoro di volontariato vero. Lo abbiamo fatto gratuitamente, non è banale, in questo momento in cui uno va lì e prende il gettone. Non esiste nessun gettone, non esiste niente, è tutta gente che decide gratuitamente di mettere a disposizione il proprio tempo e fa delle cose importanti per la comunità. In dodici anni, abbiamo avuto centinaia di persone che hanno fatto tutto gratuitamente e hanno messo insieme questo sistema, con i vari soggetti che hanno fatto cose importanti per il nostro Paese.
In questi dodici anni abbiamo distribuito, grazie alle fondazioni di origine bancaria, oltre un miliardo di euro, sono cifre importanti. Però abbiamo dotato il nostro Paese di questi centri servizi, strumenti unici in Europa, soggetti grazie ai quali uno può andare a chiedere una consulenza gratuita, fare l’ atto notarile, avere uno statuto, un avvocato che gli dà un consiglio, non farsi fregare dalla burocrazia: abbiamo creato una infrastrutturazione sociale per il nostro Paese che non ha esempi altrove. E questo è dovuto all’intelligenza del mondo del volontariato che ha detto: “Noi non vogliamo i soldi dalle fondazioni, dallo Stato, eccetera, ma vogliamo che lo Stato ci dia servizi tali per cui tutti i cittadini possano avvicinarsi al mondo del volontariato”. Il mondo del volontariato, quindici anni fa, aveva percepito profeticamente che sarebbe stata importante una risorsa come il volontariato in momenti di crisi che ciclicamente avvengono in tutte le società del mondo. Sono fiero di essere stato scelto, dodici anni fa, in Fondazione, assieme a altri amici, per fare questo lavoro che è stato possibile grazie alla collaborazione fra i vari soggetti, i Comitati di Gestione, i centri di servizi al volontariato, le fondazioni di origine bancaria che hanno anche attuato, nel corso di questi anni, una serie di correttivi. Perché, quando siamo partiti, non andava tutto bene. Io e Granelli siamo stati i pionieri e, fin dall’inizio, litigavamo anche parecchio, perché io affermavo il mio potere e lui il suo. Non è stata una partita facile. Però avevamo questa intuizione di fare qualcosa di buono per il nostro Paese, di utilizzare bene i soldi, perché fossero utili per creare una infrastutturazione sociale per il nostro Paese. E oggi, alla luce della situazione di crisi economica, può veramente diventare strategica se utilizzata bene. La maggior parte dei cittadini non sa che c’è questa grossissima opportunità, per cui ringrazio il mitico Julián che ci dà la possibilità di parlarne.
Questo lavoro ha portato, intanto, a garantire cifre certe a questi centri di servizi, perché possono funzionare e dare un minimo di consulenza nei momenti di crisi, di vacche magre. Poi abbiamo creato anche altre opportunità, una governance che ha tolto autoreferenzialità e che ha fatto diventare questo mondo trasparente. Si è creata questa commissione nazionale per la progettazione sociale che vede, in tutte le Regioni d’Italia, organismi che pariteticamente rappresentano il mondo delle fondazioni e il mondo del volontariato, per dare la possibilità che una parte di questi fondi vengano utilizzati per fare progetti concreti, oltre che servizi. Ma poi, è stato importantissimo consolidare i servizi, secondo me è più strategico, dal punto di vista infrastrutturale, perché permette a tutti i cittadini di entrare in contatto con il mondo del volontariato; un punto di maturazione, anche per il mondo delle fondazioni, maturato dopo un dibattito interno. Senza andare ad inficiare il fatto che, comunque, il mondo del volontariato deve stare in piedi soprattutto grazie alla gratuità, al lavoro gratuito dei volontari, c’è però la possibilità di finanziare una parte dei progetti attraverso questi fondi. L’esperienza che è partita negli anni scorsi sperimentalmente è stata positiva, adesso si sta portando su scala nazionale.
Per cui, questa vicenda dei fondi speciali per il volontariato, che era partita un po’ male all’inizio, è diventata una vicenda molto importante per il nostro Paese: grazie a questo sistema dei fondi speciali ai centri servizi che sono presenti su tutto il territorio nazionale, oggi noi possiamo affrontare anche le sfide della crisi che avremo nei prossimi mesi, nei prossimi anni, con più tranquillità rispetto ad altre realtà del nostro Paese, perché abbiamo gli strumenti per creare una progettualità che va incontro soprattutto a bisogni di cui non si occupa nessuno sul nostro territorio. Ecco perché la nostra preoccupazione, in questi anni, è sempre stata accompagnare il centro servizi attraverso un lavoro che avesse l’orizzonte di essere attenti a che questi soldi fossero spesi bene, perché sono soldi che vengono dalla comunità e vanno a risolvere i problemi di cui non si occupa nessuno. Non si tratta di sostituire quello che non fa lo Stato o l’ente locale ma di andare realmente a risolvere i problemi di cui non si occupa nessuno. Credo che questa sia la mission di questi fondi e questa è la strumentazione, l’infrastruttura sociale che è stata fatta per venire incontro a questa esigenza che oggi è ancora, e lo sarà sempre più, di attualità. Grazie.
MONICA POLETTO:
Grazie. Cristina de Luca, presidente del COGE Lazio, passata da Sottosegretario a esperienze importanti in Abruzzo. Hai un sacco di cose da raccontarci.
CRISTINA DE LUCA:
Grazie di questo invito a riflettere insieme, credo sia sempre un’occasione importante, non solo di raccontare ma anche di ascoltarsi, di provare a fare sintesi. Mentre pensavo a quello che avrei dovuto dire stasera, mi sono venute in mente tre cose. Il Meeting ha sottolineato come questi 150 anni dell’unità d’Italia siano anche 150 anni di sussidiarietà. C’è una mostra che ne racconta molto bene questa logica, diciamo italiana: sono vent’anni dalla legge del volontariato, la legge 266 del ’91, e questo è l’anno europeo del volontariato. Quale migliore occasione che ripensarsi e riflettere anche a queste date, che in qualche modo evocano una valutazione del percorso che si è fatto? Io riesco a fare una valutazione attraverso la mia esperienza. Vent’anni fa, mi occupavo di cooperazione internazionale, lo facevo per lavoro anche se, poi, c’era sempre una componente di volontariato in quello che facevo. Lavoravo per la FOCSI, Federazione degli Organismi di Volontariato Internazionale Cristiano. La cosa che mi colpisce, ripensando a quell’esperienza, non è tanto quello che facevo io, quanto che in quel momento fosse così strano, e comunque poco conosciuto, quello che facevano le ONG Italiane. Le ONG sono le organizzazioni non governative, ovvero il mondo del volontariato internazionale. Questo mi porta alla prima riflessione su questi vent’anni dalla legge, vent’anni di percorso importante che vede anche una ramificazione delle organizzazioni di volontariato sul territorio italiano: oggi c’è un riconoscimento del ruolo e della presenza delle organizzazioni di volontariato in Italia e dei volontari. Oggi, se parli di volontariato nelle sue varie sfaccettature, tutti sanno di che cosa stai parlando. Magari non tutti sanno la differenza tra volontariato e ONG, ma tutti riconoscono il suo ruolo, tanto è che – lo ha detto molto bene prima Marco – è l’elemento al quale tendenzialmente la società, in questo momento così affaticata, guarda con più fiducia. Ed è riconosciuto, anche e soprattutto – questo fa parte della mia seconda esperienza – come un elemento fondante per costruire coesione sociale e per diffondere una cultura di solidarietà.
E’ chiaro che l’esperienza di volontariato è una scuola di cittadinanza. Pensate quanto è importante vedere giovani fare un’esperienza di volontariato. Nella delega che avevo come Sottosegretario alle politiche sociali, c’era anche il servizio civile, un’esperienza non proprio di volontariato ma di cittadinanza attiva. Quello che mi colpiva, quando ogni anno si faceva la relazione al Parlamento, era che scoprivi che quelli che avevano fatto una bella esperienza di servizio civile – il 60% di questi – rimaneva a fare esperienza di volontariato nella realtà in cui aveva prestato l’attività di servizio civile. Indipendentemente dal fatto che questa avesse sbocchi di tipo professionale. La scuola di cittadinanza del volontariato è una scuola di formazione umana. Non ce lo dobbiamo scordare, perché formazione umana vuol dire che il volontariato non è qualcosa che tu fai da solo ma sempre insieme a qualcun altro, e insieme a qualcun altro ti devi misurare per qualcosa. E’ una scuola di formazione umana ma anche di acquisizione di competenze, perché per fare una cosa, e per farla bene, devi acquisire la competenza di quello che stai facendo anche come volontario, sia che tu faccia attraversare la strada ai bambini prima di andare a scuola sia che accompagni la persona che ha problemi motori a fare delle cose, sia che tu faccia assistenza di qualunque tipo alle persone anziane.
Altra cosa che secondo me è importante: do atto al volontariato del fatto che, forse per le sue caratteristiche di leggerezza strutturale, ha intuito prima di altri le risposte ad alcuni problemi. Pensate al problema della tossicodipendenza, pensate al tema delle carceri, solo per citare due esempi. Spesso è stato il volontariato che per primo, intuendo quale fosse il problema, e forse interessato a dare risposte, ha trovato risposte che sono diventate poi sperimentazioni e che, da sperimentazioni, sono state poi acquisite dagli enti locali, dalle istituzioni nel senso più ampio, e sono divenute percorso stabile. Quindi, il volontariato ha avuto un ruolo che non è stato soltanto dare risposta a dei bisogni in quel momento, o la presenza capillare in una società che fa fatica.
Quali sono però le prospettive e le sfide, anche di fronte a quello che è stato definito un cambiamento, non solo epocale per la situazione internazionale in cui ci troviamo, ma un cambiamento epocale perché sono cambiati i connotati di questa società, per cui i legami sociali si fanno più difficili, più deboli e il volontariato si trova dentro? Perché non è diverso, il volontario, è una persona che partecipa dello stesso humus culturale, che vive questa sensazione, fatica, paura del domani di prospettiva. Mi piace il titolo del Meeting che, in qualche modo, richiama anche a questa idea di futuro nel quale avere speranza e passione. Allora, c’è la necessità di un cambio di passo, che non vuol dire rinunciare alle cose che si stanno facendo ma non guardare soltanto le cose che si stanno facendo, cioè non guardarsi alle spalle ma guardare avanti e cercare di dare delle risposte che oggi devono tener conto di due aspetti: da una parte, risposte a un bisogno, a una realtà nella quale il volontariato ha deciso di intervenire; dall’altra, risposte che sono creare cultura e informazione.
Queste due cose si devono tenere insieme, non ci può essere una senza l’altra, e non può esserci un volontariato che si preoccupa soltanto di fare bene qualcosa, senza che in qualche modo si interroghi su come questa cosa venga percepita, di come venga capita, di come altri, che fanno la stessa cosa, si interroghino su quello che lui sta facendo. Credo sia un elemento assolutamente essenziale, da cui consegue una seconda sfida: il volontariato non può più o non può soltanto essere un volontariato che fa da solo. La necessità della rete tra organizzazioni di volontariato e altri mondi del non profit e del profit è diventata una chiave essenziale per poter dare delle risposte che oggi devono essere più organiche, inserite in un contesto in cui vanno pensate, non solo rispetto a un bisogno ma rispetto a quel bisogno, all’interno di un percorso dove si è capaci di dialogare con altri. Se non si fa questo, il volontariato rischia di diventare autoreferenziale. Il terzo punto delle sfide per il volontariato, è re-interrogarsi sulla trazione che le organizzazioni di volontariato devono fare sul mondo giovanile. Non possiamo non dirci che tutti i dati che esaminiamo sul volontariato ci dicono che c’è una flessione da parte del giovane nel fare volontariato, per motivi che sono tutti comprensibili, legati alla fatica di mettere insieme una prospettiva per il domani, alla necessità di fare fronte, forse anche in un contesto più complicato, a tante sfide. Però, se c’era una caratteristica italiana, era una forte presenza del volontariato giovanile che oggi, man mano, si sta spostando verso un’età più adulta. Va benissimo un volontariato adulto, anzi, ce n’è assolutamente bisogno: ma credo che una organizzazione di volontariato serio non possa non interrogarsi su come offrirsi e rendersi appetibile verso una generazione di giovani. Il tema di un volontariato che impegni i giovani è anche strettamente legato a un altro dei temi che dobbiamo affrontare oggi, in maniera molto più seria, come società: il dialogo tra generazioni. Perché siamo un’Europa che invecchia, dove tra poco ci sarà un giovane ogni dieci anziani, per tutti i motivi che conosciamo. Non è questo il momento per ragionarci su, ma è chiaro che il dialogo tra le generazioni, la capacità di un trapasso di nozioni e di competenze tra una generazione e le altre – non solo un passaggio dalle generazioni anziane verso i giovani ma anche una certa capacità dei giovani di innovare e capire, verso gli adulti – è la chiave del possibile cambiamento di una società.
L’altra sfida, per il volontariato, credo consista nel non cadere nella trappola di sostituirsi a un welfare che oggi fa fatica, che va completamente ripensato, non soltanto perché non ci sono risorse o le risorse sono fortemente diminuite, ma perché è cambiata la società, e non solo per i problemi economici: è cambiata culturalmente e socialmente. Non abbiamo ancora un’idea, nonostante diciamo molte cose sul welfare del futuro, un welfare proattivo, di prossimità: abbiamo tante definizioni però non siamo ancora arrivati a capire come occorra ridefinire questo welfare del domani. Io credo che l’attenzione che il volontariato deve avere è di non farsi sostituto – cioè, la zampa corta di qualcosa che non c’è – ma di costituire un contributo, senza cadere nell’altra trappola, quella in cui sono cadute le organizzazioni di volontariato e, dall’altra parte, gli enti locali. La trappola legata alla legge 328 che dice all’ente locale: serve qualcuno che mi faccia un servizio a un costo minore, l’organizzazione di volontariato mi serve per avere qualcuno che mi offre un servizio sottocosto. Quante organizzazioni di volontariato – taglio con l’accetta perché vado veloce – sono nate in funzione di un servizio e non di una riflessione e di una motivazione?
E credo che ci sia, infine, un’altra sfida, prima di concludere: per contribuire a diffondere una cultura, la solidarietà può innovare. Non è un valore che rimane statico, è un valore che si misura con una realtà che cambia, non tanto nel modo di intendere l’uomo e la relazione tra le persone, ma nel modo di fare solidarietà, perché cambiano le situazioni. Allora, credo che il mondo del volontariato debba superare alcune contrapposizioni che spesso ci sono state, soprattutto in passato, e forse ci sono ancora adesso. L’idea che l’efficienza non possa stare esserci con l’equità, che l’interesse sia contrapposto alla solidarietà, che l’organizzazione si opponga alla gratuità. Invece, un’organizzazione di volontariato deve essere anche organizzata. E la disponibilità non fa a pugni con la competenza, perché anche sulle piccole cose bisogna imparare a essere competenti. Queste cose sembrano banali ma a me paiono molto importanti, perché spesso, nelle maglie del mondo del volontariato, ancora si fa fatica, su certe cose. Ed è chiaro che nel mondo di oggi, anche in un momento di difficoltà di risorse, anche per un’organizzazione di volontariato, imparare ad essere efficienti, imparare a saper fare bene un progetto, imparare a capire dove si trovano i soldi, è importante.
In questo senso, è importantissimo il ruolo del centro servizio nel sistema, un ruolo di aiuto e supporto che può favorire la capacità di una organizzazione di volontariato di essere presente sul territorio, di dare risposte e, nello stesso tempo, di saperle dare, utilizzando quelle forme di finanziamento che spesso non si sanno usare perché non si conoscono oppure si utilizzano male. In questa logica – e concludo -, il progetto che ho gestito insieme ad Ermanno di Bonaventura – che non vedo qui ma che probabilmente è nell’altra sala – per l’Abruzzo. Erano due milioni e mezzo di euro: se adesso passate allo stand della Consulta, vedete il risultato e un video che lo racconta, vedete anche le specifiche che descrivono questi progetti. Abbiamo fatto un percorso, era una sfida per tutti noi, una sfida per la Commissione che era stata nominata per fare un lavoro che desse conto di una fiducia che era stata accordata. Ma era anche la sfida di fare in modo che fosse data un’opportunità, non solo alle organizzazioni di volontariato, di fare qualcosa per il loro territorio, per il loro progetto di ristrutturazione sociale, e di crescere nel farlo. Abbiamo fatto un percorso, abbiamo fatto un’analisi dei bisogni, abbiamo aiutato le organizzazioni di volontariato a capire come fare dei progetti sulla base di quelle che erano delle intuizioni, attraverso un percorso di progettazione partecipata, che vuol dire di accompagnamento delle organizzazioni di volontariato nel definire il progetto. Abbiamo imposto, se volete, il fatto di fare partnership con il mondo non profit e profit, perché la dimensione della rete poteva essere un aspetto importante. Abbiamo fatto questo bando, sono stati finanziati ventinove progetti che sono partiti nello scorso mese di maggio, a due anni esatti dal terremoto, quando io e Antonio Miglio siamo andati a inaugurare la partenza dei progetti. Adesso si è avviato il percorso di realizzazione e – nella logica di cercare di capire quali potessero essere i problemi, le difficoltà o anche le opportunità – abbiamo deciso di accompagnare anche il percorso di realizzazione dei progetti, attraverso un monitoraggio costante, una valutazione degli indicatori di performance delle organizzazioni di volontariato che stanno realizzandoli. Perché le risorse che sono state messe a disposizione – tante o poche, non importa, sono comunque tante per il mondo a cui apparteniamo – non siano risorse che fanno nascere dei progetti che muoiono dopo che le risorse sono finite, ma facciano nascere un percorso che può magari continuare, anche nel futuro.
E’ stata una sfida piuttosto complessa e interessante: un anno e mezzo fa, nessuno di noi credeva che saremmo arrivati al punto in cui siamo arrivati oggi, lo dico con un pizzico di orgoglio e ne sono estremamente contenta. Questo mi fa dire – e concludo davvero – che la nostra società ha bisogno del volontario, ha bisogno del mondo del volontariato, ha bisogno di quella ventata di generosità, di passione, di gratuità, di voglia di esserci che è tipica del volontariato. Più oggi di ieri, forse, ha bisogno che questa forza sia incanalata e diventi forza d’urto, che fa cambiare anche il meccanismo di alcuni legami sociali che diventano più fragili, più difficili. E ha bisogno, oggi, di essere più supportata e aiutata a crescere, a incanalarsi in quello che è un percorso nuovo. E allora, anche il senso del dibattito di oggi è riflettere insieme per capire come aiutare questo percorso di continua crescita, maturazione ed evoluzione del mondo del volontariato. Grazie.
MONICA POLETTO:
Grazie. Do la parola a Antonio Miglio, vice presidente ACRI, cui chiediamo alcune cose: qual è il ruolo delle fondazioni nel rapporto con il volontariato, nel welfare? Come va questo welfare?
ANTONIO MIGLIO:
Buongiorno a tutti, grazie. Anch’io sono un po’ veterano del Meeting, mi pare sia la terza volta che partecipo a questi incontri, ed è sempre una bellissima esperienza agostana. Quando tutti sono in vacanza, qui si pensa e soprattutto si lavora perché, per fare il Meeting, agosto se lo scordano, i volontari: ecco l’esperienza di volontariato. Per quanto riguarda il tema dei centri di servizio e dei comitati di gestione, non me ne occuperei più di tanto, nel senso che ne abbiamo già parlato in tante occasioni. Posso solo dire che da qualche anno in qua, dal 2003/2004, proprio in vista di questa rivoluzione, di questa modifica sostanziale che avverrà per forza di cose all’interno del mondo del welfare e del volontariato, abbiamo cominciato il ragionamento sulla Fondazione per il Sud e abbiamo iniziato a lavorare con il mondo delle fondazioni, il mondo del volontariato. Qui, tra l’altro, ci sono due autorevoli esponenti dell’ACLI, Massimo Giusti, che è presidente della Commissione Volontariato e Servizio alla Persona, e il suo omonimo Roberto Giusti, che è responsabile in ACLI di tutti i temi dei centri servizi e comitati di gestione.
Abbiamo dunque fatto questo accordo che ha stabilizzato l’attività relativa ai fondi della 266, dando una certezza di risorse ai centri di servizio. Cito solo un dato: quest’anno, sarebbero stati 42 i milioni di euro ai centri servizi; per i servizi ne vanno 49, quindi 7 in più rispetto a quanti ne sarebbero spettati. Quando ce ne saranno di più, non andranno via ma rimarranno, perché c’è tutto quel discorso della progettazione sociale che abbiamo cercato di uniformare sul territorio nazionale, affidando però il compito, per quanto riguarda il Mezzogiorno, alla Fondazione per il Sud perché riteniamo che l’intervento sia più organico in quanto la Fondazione per il Sud si occupa di infrastrutture sociali nel Mezzogiorno, e creare diversi momenti poteva essere complicato. Sono esperienze che stanno andando avanti, stiamo lavorando e cerchiamo di migliorare il discorso sulla sussidiarietà. Come fondazioni, noi siamo molto preoccupati perché prima si è parlato per molto tempo di sussidiarietà verticale, e la coniugazione della sussidiarietà verticale è stata scaricare compiti ai livelli più bassi senza dare loro le risorse. E ci si trova, quindi, nella situazione di oggi, in cui la tensione cresce. Adesso, c’è l’ultima invenzione dell’abolizione dei piccoli Comuni che personalmente critico, nel senso che è giusto obbligare i Comuni a mettere insieme i dipendenti negli uffici, abolire gli amministratori comunali che spesso sono dei volontari che vanno a riparare gli acquedotti o a tappare i buchi per le strade – perché chi vive la montagna sa che la situazione è quella -, senza neanche prendere un’indennità perché ormai, nei piccoli Comuni, non c’è nessun amministratore che prenda indennità. Ecco, vuol dire semplicemente togliere al popolo una rappresentanza, senza risparmiare risorse. Chiudo la parentesi.
Poi si è cominciato a parlare di sussidiarietà orizzontale: e la coniugazione della sussidiarietà orizzontale è diventata un modo di risparmiare risorse pubbliche in tempi di ristrettezze economiche. Noi, la sussidiarietà la intendiamo in un altro modo. Quindi, il primo tema su cui secondo me bisogna alzare la voce, forte e chiara, anche in questi giorni di manovra – questa voce non la vedo venire fuori perché, purtroppo, il mondo del volontariato, del terzo settore, di chi si dà da fare, ha difficoltà ad andare sugli organi di informazione -, è che bisogna trovare le risorse per i più deboli. Noi, come fondazione, stiamo vedendo una richiesta sempre maggiore di sostituire alle risorse pubbliche che non ci sono più, le risorse delle fondazioni. Solo che non siamo in grado di farlo, perché, come dice il nostro presidente Guzzetti, se ci dovessimo occupare di stato sociale, con le risorse che le fondazioni hanno a disposizione non arriviamo alla befana. Quindi, dal primo gennaio abbiamo risolto tutti i problemi, dopo di che, è finito tutto. Noi non siamo in grado di sostituire lo Stato. L’Italia ha una situazione già storica di carenza di risorse destinate al welfare, l’Italia destina l’87% di tutta la spesa sociale tra pensioni e sanità, il resto viene destinato ad altro. Teniamo presente che, nel resto dei Paesi dell’Unione europea, la spesa per sanità più pensioni fa il 75%: qui fa l’87% del complesso della spesa. Quindi, vuol dire che la famiglia, i disabili e via discorrendo già hanno risorse significativamente inferiori. Se poi queste risorse vengono ancora tagliate, io ritengo – come ha detto Marco – che rischiamo veramente la rottura della coesione sociale. Abbiamo visto l’Inghilterra, abbiamo visto Israele. In Israele stanno succedendo cose mica belle, e quelli sono Paesi “ricchi”. Abbiamo visto i problemi delle balie, e lo Stato francese che corre ai ripari a rinforzare il sostegno all’abitazione, alla famiglia, per risolvere quei problemi.
Qui in Italia nessuno ne parla, stiamo parlando di manovra: ma so, perché vivo la realtà del mio territorio, che il prossimo anno le risorse sono dimezzate rispetto all’anno prima che le aveva già dimezzate, che quindi non potranno più occuparsi di sostegno all’affitto, di sostegno ai bambini, delle donne sole, non potranno più occuparsi dei centri per i disabili, ecc. Allora, il ruolo delle fondazioni è o dovrebbe essere di accompagnare, attraverso il finanziamento delle attività innovative e sperimentali, questa rivoluzione del sistema del welfare, e provare a fare delle esperienze. Perché la ricetta non l’ha nessuno, Cameron si è inventato la Big Society, da un’altra parte se ne inventano un’altra, ma la ricetta per arrivare ad avere quello che viene chiamato welfare comunitario non c’è ancora. Allora, bisogna finanziare la sperimentazione e il pubblico non può finanziare la sperimentazione perché non può permettersi fallimenti, perché poi i fallimenti si pagano elettoralmente. Questo ruolo lo possono avere le fondazioni, però le fondazioni possono finanziare innovazione e sperimentazione se non sono obbligate a finanziare la spesa corrente che qualcun altro non finanzia più, perché altrimenti così non si va avanti. Allora, come fare a finanziare? L’87% di spesa, tra sanità e pensioni, deve essere ridotto e trasferito a parità di spesa, perché è impossibile che lo Stato sociale in Italia, con la situazione che ha, spenda, percentualmente al PIL, di più degli altri Stati. Adesso spende uguale, allora, se spende uguale deve trasferire risorse, da quell’87% verso quella fetta. Come fa? Tocca la spesa pensionistica storica, non ci sono altri sistemi, cioè va a vedere coloro che percepiscono la pensione e non ne hanno bisogno e gliela sospende, e gliela ridarà quando ne avranno bisogno.
Noi in Italia abbiamo, nella classe di età da 15 e 64 anni, dieci lavoratori in meno della media di Francia e Germania. Vuol dire che sono dieci in più che prendono la pensione. Nella fascia tra 55 e 64 anni, abbiamo meno persone che lavorano volta rispetto alla media europea con tutti gli altri Paesi (trenta in meno della Germania). Questo significa che c’è della gente – io ho 60 anni, non mi ritengo vecchio – che, da 55 a 64 anni, prende la pensione e potrebbe lavorare. Se queste persone lavorano, occupano un posto e hanno un reddito, visto che la situazione è quella, bisogna prendere un po’ di risorse lì e spostarle a occuparsi di disabili e ragazze madri, di famiglia, di bambini e quanto altro.
Il secondo discorso, che voglio fare, che non c’entra molto con questo, è che l’altro motivo per cui vedo rischi alla coesione sociale è che lo Stato italiano ha dei pessimi fondamentali. Nelle banche, quando si ragiona sull’impresa, si dice: ha tanti debiti, ma come stanno i fondamentali? I fondamentali sono buoni, ha buoni brevetti, ha clientela, ha ordini. Beh, allora vediamo di finanziarla, si ristruttura e va avanti. Lo Stato italiano, i fondamentali buoni non ce li ha, perché è il terzo debito pubblico del mondo, 120% del PIL, contro gli altri Stati europei che sono a ottanta, settantacinque, compresa la Grecia che ha un debito molto più basso del nostro. Questo debito matura interessi tutti gli anni, continua a crescere e tutta questa manovra lacrime e sangue non tocca gli interessi sul debito. Quindi, il nostro debito continuerà a crescere, non facendo più debito, di 80 miliardi all’anno, che sono gli interessi che si pagano su 1900 miliardi di debito.
Dall’altra parte – l’ha già detto Marco – abbiamo che il 10% degli italiani ha 4000 miliardi di patrimonio che sono il 45% della ricchezza complessiva privata, non delle imprese: parliamo di famiglie, persone fisiche che hanno circa 8600 miliardi – è il volume complessivo in Italia -, di cui 3900, quasi 4000, quindi, sono in capo al 10% dei cittadini. Fa una media per famiglia di 1 milione e 600.000 euro. Allora, immaginate, avendo per decenni privatizzato gli utili e pubblicizzato le perdite – perché il sistema italiano è stato quello -, avendo la casa madre che fa acqua da tutte le parti e avendo i figli, alcuni dei quali, invece, ne hanno veramente tanti, o si pensa di trasferire una quota di quella ricchezza per riportare il debito pubblico sotto il 100% del PIL, e con il risparmio degli interessi che si fa, avere i soldi per finanziare la coesione sociale e le categorie sociali più deboli, oppure non si va da nessuna parte.
Ultimissima cosa e ho finito. Si è parlato di autoreferenzialità, anche le fondazioni sono accusate di essere autoreferenziali. Stiamo cercando di migliorare, essere meno autoreferenziali vuol dire, da un lato, tenere conto delle esigenze della società maggiormente di quanto facciamo oggi, dall’altro, dare conto ai cittadini di quello che noi facciamo. Stiamo elaborando una Carta delle fondazioni che, entro metà del prossimo anno, verrà adottata, in cui ci daremo delle regole ancora più stringenti. Questo vuol dire che dovremo chiedere a voi, al mondo del volontariato, dei suggerimenti, delle proposte: vorremmo tenere conto di quello che ci direte, voi che avete il polso vero della situazione. E d’altra parte, dovendo dare conto, vi chiederemo conto di come sono spese le risorse che le fondazioni mettono a vostra disposizione per finanziare i progetti. Sono 600 milioni l’anno che complessivamente vanno al mondo del welfare da parte delle fondazioni. Questo ci permetterà di conoscerci meglio, di lavorare meglio insieme. Il discorso della progettazione sociale che sta andando avanti ci vede tutti insieme e questo è molto importante perché, più ci si conosce, più si lavora insieme, più si fa squadra e più si riesce a fare le cose.
Noi speriamo che questo aiuti anche il volontariato a superare alcune carenze sulle quali si è soffermata Cristina: è soprattutto il tema del rafforzamento. Un’altra cosa che vediamo è la polverizzazione delle associazioni di volontariato: spesso diverse associazioni fanno lo stesso mestiere, qualcuno litiga, si dividono, a volte in comunità piccole ci sono tre, quattro associazioni che fanno la stessa cosa. Anche qui, dobbiamo andare verso l’efficienza, verso l’efficacia, verso quel lavoro che fa egregiamente la gente dei centri servizi: vedo qui Giorgio e lo saluto, è il mio centro di servizio della Provincia di Cuneo. Dobbiamo aiutare il volontariato a mettersi insieme: più squadre grosse facciamo, più riusciamo a fare sentire la nostra voce e, magari, a cambiare qualcosa di questo – mi vien da dire disgraziato ma non lo dico – Paese. Grazie.
MONICA POLETTO:
Ringrazio anche per l’accento, che mi è caro, Antonio Miglio, e do la parola molto volentieri a Mario Melazzini, vicepresidente della Fondazione Serena, presidente di AISLA, che ci racconta la sua esperienza su questo tema, grazie.
MARIO MELAZZINI:
Prima di tutto grazie a tutti voi per la pazienza: l’ora è tarda, la giornata è calda, avete voglia di tornare a mangiare, a rinfrescarvi. Avevo pensato di fare un intervento basato sull’esperienza personale: chi mi conosce sa che sono un po’ provocatorio. La prima cosa che mi viene da dire è: povero volontariato! Povero volontario, perché siamo qua tutti a piangere. La seconda cosa che mi viene da dire è che non ho sentito parlare di metodo. Una cosa importante, soprattutto nei periodi di crisi, nei periodi di difficoltà, è che bisogna costruire, bisogna rivedere ma bisogna soprattutto partire dal metodo. La mia esperienza personale, grazie a Dio, è legata a questo percorso di malattia che mi ha portato ad affacciarmi al mondo del volontariato in un altro modo, non più da persona cosiddetta sana ma da persona destinataria e portatrice di un bisogno. Mi permette di dire che proprio lo slogan del Meeting di questo anno – E l’esistenza diventa una immensa certezza – deve essere lo slogan del volontario. Perché prima di tutto dobbiamo chiederci chi è il volontario, chi sono io come volontario, che cosa è il volontariato. In secondo luogo, rispondendo a chi è volontario, dirci che volontario è la persona stessa che è destinataria della soluzione di un bisogno, e che diventa motore centrale di quello che deve poi essere il cambiamento. La prima cosa che ho incontrato nell’affacciarmi al mondo del volontariato è stata una persona con la quale ho condiviso i dubbi, le perplessità, le difficoltà, in maniera molto modesta, molto umile. Non voglio parlare di numeri, non voglio parlare di ciò che potrebbe diventare autoreferenziale: si sente parlare di autoreferenzialità ma il rischio diventa un fatto concreto, ciò che faccio io è sicuramente meglio rispetto a quello che fai tu. E fino ad oggi, e fino ad ora, anche stasera, io ho sentito parlare di ciò che si può offrire, di ciò che si è in grado di dare, non di ciò che si è stati in grado di accogliere e identificare come bisogno, come domanda. Il primo momento di cambiamento è questo.
Il sottotitolo del nostro incontro di stasera è Opportunità e nuove sfide per l’anno europeo del volontariato: ecco, l’opportunità è il cambiamento, la sfida è fare il cambiamento. Però, per fare il cambiamento, bisogna pensare anche ad un modo nuovo di approcciarsi al problema che è identificare il bisogno. La mia esperienza mi ha portato a contatto con una parte di voi che vive – dico vive, non lavora – nel mondo del volontariato, legata ad esperienze personali e professionali che l’hanno portato a continuare in questo mondo per cercare di dare delle risposte. Ma la risposta viene data soprattutto dalla persona. Ho sentito parlare di diritti delle persone deboli ma non sono diritti deboli, sono diritti delle persone fragili, sono diritti del cittadino, della persona in quanto tale.
L’esperienza che ho fatto, ad esempio, con la Fondazione Serena, con AISLA, è che diventare volontario, artefice, donatore, soggetto attivo del cambiamento, significa diventare un nodo della rete, nodo di una rete istituzionale, non tanto come supplente di un servizio che viene a costare meno se dato a una cooperativa di servizi piuttosto che ad un’associazione in grado di erogare servizi, ma che viene riconosciuto come parte attiva del percorso, come parte attiva, soprattutto, del sistema. Questo è quello che abbiamo fatto con il centro clinico Nemo, dove siamo io e questa persona stupenda che è Alberto Fontana, presidente dell’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare. Guardandoci in faccia, ci siamo detti: il sistema offre molto, ma siamo sicuri che ciò che ci offre il sistema va a rispondere esattamente a quelli che sono i bisogni delle persone, persone che ci chiedono in qualche modo una risposta? Allora abbiamo cominciato a identificare il bisogno. Identificando il bisogno, abbiamo costruito un metodo di lavoro trasversale, con il coinvolgimento multidisciplinare di varie figure ma soprattutto con la partecipazione attiva della persona. E la persona diventa quindi motore centrale del cambiamento. La persona è il soggetto che più di tutti può contribuire a questo cambiamento; soprattutto può contribuire a migliorare la propria condizione.
Questa piccola esperienza – perché siamo piccoli – ci ha permesso, mi ha permesso di proporre quindi all’istituzione di provare a cambiare. Io vivo nel mondo delle persone con disabilità, è brutto dire nel mondo, perché la persona con disabilità è un cittadino come tutti noi, perché chiunque di noi può, in un contesto ambientale sfavorevole, diventare persona con disabilità. Ecco, questo è il metodo, il cambiamento: pensare che quello che facciamo non è solo per l’altro ma anche per noi. Ciò che noi diamo all’altro, lo riceviamo dall’altro. Ancor di più, nella nostra quotidianità come volontari, andando a stressare quel concetto o principio di sussidiarietà vera. Visto che bisogna parlare solo per 12 minuti, dico ancora quattro cose. Da questa esperienza è nata la voglia di stimolare l’istituzione a cambiare ed è accaduto per esempio, con Regione Lombardia, il tentativo di far sì che ciò che è nato ed è in atto per le persone con disabilità non fosse solo per loro, persone con disabilità, ma fosse per tutti. E quindi abbiamo costruito insieme. Regione Lombardia ha accettato questa sfida perché, parlando con il presidente, ci siamo detti: parliamo sempre di centralità della persona, di libertà di scelta. Siamo certi che questa libertà di scelta può essere, è vera e concreta, siamo certi che le risposte che vengono date ai bisogni – dal sistema o dalle associazioni di volontariato – funzionino, siamo certi e sicuri che non venga settorializzato l’intervento, considerando la persona a pezzetti? Questo ha stimolato molto: raccogliendo la provocazione che ho fatto anche stasera, abbiamo costruito questo gruppo di lavoro interassessorile con varie Direzioni, partendo dalla Direzione Generale, Famiglia, Integrazione e tutte le altre Direzioni Generali. E abbiamo costruito un Piano d’Azione per le politiche per le persone con disabilità: quindi, interventi non settoriali ma trasversali, perché la personalità non ha un problema medico e basta, avrà anche un problema sociale. E’ un cittadino ed è la persona, quella che fa volontariato. I volontari io li chiamo così, angeli silenziosi: poi guardiamo tutti i conti, è importante, però bisogna cominciare a chiederci: il sistema potrà essere cambiato, non dico in meglio, perché ormai si programma e si fa, però partendo da un punto di vista diverso? Non è detto che ciò che finora è stato dato sia il giusto, si deve, si può cambiare….
Per esempio, tante bellissime esperienze di progetti finanziati da Regione piuttosto che da fondazioni e da altri enti filantropici, avevano indicatori di efficacia, ma soprattutto indicatori che permettessero la replicabilità su altri territori della Regione? Come tali, vanno messi a sistema, perché non si tratta solo di investire maggiori risorse ma di ottimizzare l’organizzazione. Perché ciò che manca è l’ottimizzazione dell’organizzazione e, soprattutto, la conoscenza di ciò che è il reale, l’esistente. Sono perfettamente d’accordo sul fatto che manca una rete, soprattutto per le associazioni di volontariato. Bisogna avere il coraggio di creare una rete, non solo fra associazioni ma fra associazioni e istituzioni, perché in questo modo si può costruire una risposta, si può far fronte e superare una crisi; solo in questo modo si può veramente dare una risposta perché – non dimentichiamo – ciò che il volontariato fa è dare delle risposte a delle persone, e non solo alle persone. Perché il volontariato non c’è solo per le problematiche sociali, il volontario lo troviamo dappertutto: in chi va a dare assistenza, lo troviamo in chi lavora sulle strade, in tante cose. Quindi, l’intervento del volontariato non è solo per i più deboli, l’intervento del volontariato e il volontariato fanno parte del sistema, questo è importante.
Certo, dobbiamo evitare di settorializzare il tutto, perché se no c’è una dispersione delle risorse, una dispersione di energie, ci sono arrabbiature: io faccio questo meglio di te, ecc. Però ci sono due momenti fondamentali per il cambiamento che stanno nella variazione del metodo: prima di tutto l’ascolto e la conoscenza. Senza quello, non può essere fatto nulla, secondo il mio modestissimo parere. E poi, con le risorse a disposizione, vedere se modificare quanto è possibile al momento attuale. Se la coperta è corta, è corta. Quindi, bisogna cercare di andare a costruire in un modo diverso. Ecco, porsi in una visione diversa. non è che perché questo era scontato, era dato, non puoi cambiare. Si può cambiare tutto, poi andiamo a vedere soprattutto quello che può essere la partecipazione attiva, però non possiamo trincerarci, dire: non ti do questa risposta perché non ci sono i fondi.
Il bisogno, la domanda è quella e non cambia perché io non ti posso offrire denaro. Andiamo a identificare il bisogno reale, e poi creiamo la risposta. Questo è, nel mio piccolo, ciò che mi ha portato a fare il volontario, e continuo a farlo, e sono fiero di farlo, sia con l’Associazione Italiana SLA che con la Fondazione Serena e il Centro Clinico Nemo, ma soprattutto a essere collaboratore di un’istituzione come la Regione Lombardia, che mi permette ancora di più di poter essere quell’indicatore, visto che è di moda parlare di indicatori, dell’approccio di cambiamento culturale. Per fare il cambiamento, questo cambiamento culturale, però, dobbiamo cambiare anche noi volontari, per primi: le associazioni di volontariato non sono sistema. Io sono un po’ una voce fuori dal coro però ci tengo, perché di una cosa sono certo: ho la presunzione di credere – perdonatemi – che la soddisfazione, la risposta a un bisogno nei confronti di una persona e della sua famiglia sia l’indice di efficacia più grande che si possa trovare. E lo si può fare solo conoscendo e identificando lealmente il bisogno. Non solo: ti posso offrire questo, anche se non so. La risposta sarà sempre un fallimento.
Tornando ancora di più a valorizzare il ruolo del volontariato, ad esempio, partirei dall’esperienza che ho fatto con Nemo, questo bellissimo, piccolo centro, 24 posti letto, per rispondere ai bisogni, anzi, per garantire la presa in carico delle persone con malattie neuromuscolari e dei loro familiari. Un’esperienza che mi ha permesso di conoscere altre realtà progettuali che ci sono e c’erano in Regione Lombardia. Una persona gravemente disabile che deve accedere a un Pronto Soccorso o, ad esempio, a un esame banalissimo come può essere una gastroscopia, una TAC, una qualsiasi altra piccola cosa, una visita ambulatoriale particolare, mette molto in difficoltà il sistema. Grazie all’azione dei volontariati, soprattutto all’azione di un’associazione a tutela dei disabili come la Ledha, in Regione Lombardia, nel 2000, venne iniziato un centro, DAMA, il cui nome è l’acronimo di una sigla inglese – qui in Italia siamo abituati agli inglesismi -: significa Assistenza Medica Avanzata per Persone con gravi Disabilità. Il centro, collocato nell’azienda ospedaliera San Paolo a Milano, accompagna sia la prenotazione per un caso di routine, sia, nel caso di urgenza, un servizio di Pronto Soccorso in una maniera e un’efficacia incredibile, solo con l’ottimizzazione dell’organizzazione del percorso interno, quindi non con risorse aggiuntive. Adesso questa sperimentazione è stata messa a sistema, ma non solo al San Paolo. Grazie al Piano d’Azione per le politiche per le persone con disabilità, è stato messo a sistema anche in tutti gli altri ospedali o aziende ospedaliere provinciali della Regione Lombardia. E questo, grazie al volontariato, perché tutto è nato dal volontario che continua a lavorare e fa parte, con la sua gratuità, dell’accompagnamento alla persona e deve essere formato. Ecco l’esempio di una sperimentazione di altra progettualità che è andata a sistema. Non con ulteriori investimenti ma con l’ottimizzazione dell’esistente.
Ultima cosa, visto che parliamo dell’anno europeo del volontariato, Regione Lombardia vuole – è brutto dire festeggiare – rafforzare ancora di più questo legame forte con il mondo del volontariato. Soprattutto, vuole riconoscere l’azione, il ruolo e il valore del singolo volontario, che a volte non opera sotto un’etichetta ben precisa. Andremo a identificare i singoli, con un questionario particolare, con una consultazione online, per censire il più possibile i nostri volontari. E poi faremo una festa del volontariato: è una cosa importante, un evento che sarà tra la metà e la fine di ottobre, e soprattutto andremo a riconoscere crediti formativi per chi fa attività di volontariato. Questa è una cosa che mi sembra particolarmente importante. Bene, come vedete, da un’esperienza, da un incontro con un’altra persona, dalla voglia di dare risposte, non di supplire ma di entrare come parte attiva, di essere attori insieme agli altri nodi del sistema, da una piccola cosa, che io considero sempre molto, molto piccola, abbiamo cercato di creare queste risposte. Se voi pensate alla piccola realtà che era il centro clinico Nemo: adesso, come progettualità, l’abbiamo già replicata in Liguria, la replichiamo al Sud, a Messina, proprio perché non occorre investire di più ma solo ottimizzare, riorganizzarsi.
È questione di metodo e poi, come sempre, le cose le fanno le persone, si risponde con i fatti. Questo mi ha permesso, nel mio piccolo, in maniera molto modesta e umile, di interagire, interfacciarmi con le istituzioni perché, se vogliamo cambiare questo welfare, dobbiamo passare dal modello dell’offerta al modello della domanda. E’ una cosa importante, una grande sfida, ma noi crediamo nelle sfide, maggiormente in questo momento in cui tutte le associazioni di volontariato possono giocare un ruolo fondamentale. E’ un momento estremamente importante, talmente difficile ma anche talmente bello – non prendetemi per folle – perché è il momento del cambiamento. Se non veniva, era meglio, però cambiare è necessario adesso, e per cambiare si parte dal metodo e dall’identificazione del bisogno. Noi volontari abbiamo la grande fortuna di interagire con l ‘altro, e quindi di sfruttare lo sguardo, perché lo sguardo ci dà una forza incredibile. Prima di tutto, ridà dignità al volontario stesso nello sguardo e nell’assistenza all’altro; nello stesso tempo, riusciamo ad essere anche una sorta di strumento di cura, col nostro sguardo, nei confronti della persona fragile. Soprattutto, il volontario riesce sempre a dare un messaggio di speranza. Speranza è una parola ormai troppo spesso dimenticata: forse noi non dobbiamo dimenticarla. Anche per fare politica, bisogna ricordare la parola speranza, per fare politica bisogna anche conoscere. Senza la conoscenza, non si possono fare strategie corrette e soprattutto non si può arrivare al cambiamento. Grazie.
MONICA POLETTO:
Grazie. È tardissimo e i contenuti sono molti, perciò mi permetto di dire due parole di sintesi e non una di più. Ringrazio molto quest’ultimo intervento di Mario Melazzini, perché ha riportato una cosa che effettivamente era stata un po’ sottaciuta. Non esiste il volontariato, esiste la persona che decide di darsi. Questo, secondo me, è molto interessante perché il fatto di tornare alla natura di un fenomeno risponde anche alla dinamica e a tutti gli inevitabili problemi che questo fenomeno incontra. Mi veniva in mente che è stato molto importante il richiamo alla necessità di implicazione dei giovani. Perché un giovane inizia a fare azione volontaria? Noi ce lo chiediamo spesso, qui al Meeting, dobbiamo rifiutarle le offerte, ne abbiamo troppi. Perché? E’ interessante approfondire questa cosa. Deve esserci una proposta che ha a che fare con la natura dell’uomo. Io mi compio dandomi: se non c’è questo tipo di scoperta, tutto il resto è retorica, autoreferenzialità. Perciò ringrazio molto per questo intervento che ci ha riportato all’origine a cui teniamo: più guardiamo questa origine, più il fenomeno del volontariato sarà grande come è grande questo desiderio di darsi. Esce da una sfera soggettiva e costruisce un tessuto sociale: lo abbiamo visto, ringrazio molto per come gli interventi lo hanno declinato. Costruisce un soggetto sociale importante che risponde realmente a dei bisogni: per questo l’istituzione deve riconoscerlo, non per una generica bontà, un generico credo nel volontariato, ma perché si risponde a dei bisogni e a questi bisogni si risponde spesso in modo più efficace, più efficiente, più innovativo e meno costoso della pubblica amministrazione. Evidentemente, bisogna iniziare a lavorare insieme, è un momento dove non si sa bene dove si sta andando. C’è un cambio epocale: il nostro sistema di welfare non è adeguato alla struttura sociale attuale. Questo, lo sappiamo, non si risolve con tagli orizzontali, non si risolve dicendo “è tutto uguale”, si risolve decidendo di scegliere e di conoscere, di conoscere veramente quello che c’è. Ci sono tante esperienze importanti, esperienze importanti anche di amministrazioni regionali. E’ stata richiamata da Mario Melazzini Regione Lombardia, saluto Roberto Albonetti che è qui in prima fila e ne approfitto, visto che è la mia Regione adottiva, adesso. Mi sembra che sia emerso anche dagli interventi che sono stati fatti un richiamo alla sussidiarietà importante, un riconoscimento di quello che c’è e opera e, per quanto riguarda il volontariato, a un grosso realismo. Non abbiamo paura di misurarci veramente, di guardare veramente all’efficacia della nostra azione. Solo così usciremo da un’autoreferenzialità che ci fa male.
(Trascrizione non rivista dai relatori)