ANCHE I SANTI HANNO SOGNATO L’AMERICA

Partecipano: Emanuele Colombo, Docente alla DePaul University di Chicago, USA; Paolo Valesio, Giuseppe Ungaretti Professor Emeritus in Italian Literature alla Columbia University di New York e Presidente Centro Studi Sara Valesio di Bologna. Introduce Letizia Bardazzi, Presidente AIC (Associazione Italiana Centri Culturali).

ANCHE I SANTI HANNO SOGNATO L’AMERICA

LETIZIA BARDAZZI:
Buonasera a tutti. Benvenuti a questo incontro dal titolo “Anche i santi hanno sognato l’America”, in questa giornata inaugurale della 37° edizione del Meeting di Rimini, dal titolo “Tu sei un bene per me”. L’incontro di stasera nasce da due fatti principali. Il primo è la pubblicazione di un libro che fa da cornice, da riferimento alla mostra “American Dream. In viaggio con i santi americani” curato da Pietro Rossotti e Mathieu S. Caesar, edito da Marietti, mostra che avrete modo di visitare in questi giorni e che mette a tema la vita di alcuni santi, uomini e donne vissuti nell’America del Nord in quattro secoli. I martiri gesuiti nord americani sono: Kateri Tekakwitha, che è stata canonizzata da Benedetto XVI ed è la prima santa nativa americana. Junípero Serra, padre delle missioni in California, canonizzato da Papa Francesco, Damien De Veuster, il santo che si è dedicato ai lebbrosi delle Hawaii, Katharine Drexel, che è una grande educatrice, costruttrice di scuole e opere sociali. Questi santi per la prima volta sono presentati al pubblico italiano grazie ad un lavoro molto accurato, alla traduzione di documenti, lettere, testimonianze della loro vita. Una cosa che hanno in comune questi santi è il fatto che sono stati presentati dalla Chiesa in tempi molto recenti. Santi che continuano ad essere delle forze trasformatrici in ogni tempo e che ancora oggi superano le barriere dello spazio e del tempo: la Chiesa ce li indica come modello per l’uomo di oggi. Il secondo spunto per questo incontro è il tema dell’America come terra del sogno. Come ha detto Papa Francesco quando è andato al congresso negli Stati Uniti nel 2015, l’anno scorso: si è augurato che l’America continui ad essere per molti una terra di sogni, sogni che conducano all’azione, alla partecipazione, all’impegno, sogni che risveglino ciò che di più profondo e di più vero si trova nella vita delle persone. Ma di quale sogno stiamo parlando? Qual è il sogno di cui parliamo, in questo periodo di grande instabilità, un periodo della nostra storia di profondo malessere, in quel periodo che, come dice Taylor, è il periodo dell’umanesimo autosufficiente, che si è privato della trascendenza di Dio? Il sogno americano è quello che si basa sull’uomo che si fa da solo, sul self-made man, o su colui che afferma “tu sei un bene per me”, sull’uomo che ha sempre costruito sulle opportunità che la storia ha presentato, che ha gettato ponti, che ha creato comunità, che ha aperto vie nuove e che è andato incontro al diverso, superando le barriere della lingua, della cultura, della diversità geografica? Questo è quello che vogliamo verificare stasera con i nostri ospiti: per noi il sogno americano è proprio quello che afferma il titolo di questo Meeting, “Tu sei un bene per me”, com’è documentato dal sonetto della poetessa newyorkese, Emma Lazarus, scolpito su una lapide di bronzo della Statua della Libertà, in attesa del pellegrino nel porto di New York: “Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare libere, datemi i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate, mandatemi loro, i senzatetto riscossi dalle tempeste, mandateli a me. E io là solleverò la mia fiaccola, accanto alla porta dorata”. Ecco, questo è lo spirito del popolo americano che cerchiamo di riscoprire e sviluppare stasera attraverso i nostri ospiti, che mi appresto a presentare: Emanuele Colombo, che è docente alla De Paul University di Chicago, un dottorato in Storia del Cristianesimo, membro dell’Accademia Ambrosiana a Milano e un autorevole studioso, come vedremo stasera, di missioni gesuite e di relazioni fra il mondo cristiano e il mondo musulmano. Grazie e benvenuto a Emanuele. Il Prof. Valesio è uno dei più significativi autori della poesia italiana contemporanea, ha insegnato per molti anni Letteratura alla Columbia University ed è Presidente del Centro Studi Sara Valesio di Bologna. E’ un professore emerito della Giuseppe Ungaretti Class alla Columbia University, è poeta, scrittore, autore di molti volumi, volumi di critica letteraria e critica narrativa, da poco è in libreria la sua antologia di poesie Il servo russo, una raccolta delle sue opere dal ’79 al 2002, che ha la peculiarità di essere un libro bilingue. Ricordo altri libri famosi che conosco, come Mezzanotte a Spoleto, L’Ospedale di Manatthan, Il Regno doloroso. Faccio cenno al fatto che, da attento osservatore d’America per tutti gli anni che ha passato a New York, è un po’ di tempo che commenta la vita americana per il giornale online Il Sussidiario. Quindi accogliamo i nostri ospiti: do subito la parola al prof. Colombo per iniziare la sua presentazione.

EMANUELE COLOMBO:
Grazie della bellissima introduzione. Vorrei cominciare con un’osservazione sul titolo del Meeting di quest’anno riferito alla ricerca storica: “Tu sei un bene per me”. Mi sembra che sia particolarmente interessante per chi per lavoro cerca di ricostruire il passato, di percorrere i fili e le tracce, le fonti del passato. Perché, come diceva lo storico francese morto negli anni ’70 Henri-Irénée Marrou, il mestiere dello storico è innanzitutto un mestiere di amicizia, di incontro con un altro. Cito un passaggio di un suo famoso libro. Marrou diceva: «La comprensione del passato richiede un’ampia e profonda comunione fraterna tra il soggetto e l’oggetto, tra lo storico e il documento (o meglio, tra lo storico e l’uomo che rivela attraverso quel segno che è appunto il documento). E’ Impossibile comprendere senza questa disposizione dell’animo che ci rende connaturali agli “altri”, che ci permette di risentirne le passioni, di riprenderne le idee in una prospettiva non diversa dalla loro e – in definitiva – di comunicare con loro. In questo caso, anche il termine simpatia si dimostra insufficiente: se lo storico vuole veramente comprendere, deve cercare di creare un legame di amicizia con il suo oggetto perché, secondo la bella formula di sant’Agostino, nemo nisi per amicitiam cognoscitur, “nessuno può conoscersi se non attraverso l’amicizia”». Ecco, concepire, immaginare il lavoro dello storico in questo modo, evidentemente rende il mestiere dello storico uno dei più appassionanti. Il curatore del libro che fa parte dell’incontro di oggi è collegato con una delle mostre offerte dal Meeting, American Dream. Secondo me, ci hanno fatto un bellissimo regalo nel presentarci alcuni profili e nell’offrirci una raccolta di fonti di alcuni santi “americani”, tra virgolette perché si tratta di uomini nati in America o in Europa ma accomunati dal desiderio di portare il cristianesimo in America e che per questo hanno speso la loro vita. Si tratta di santi che vanno dalla costa Est fino alla costa Ovest, che abbracciano un territorio enorme, dal VII secolo fino al XX secolo e che, muovendosi con quel desiderio di portare il cristianesimo nel continente americano, hanno creato pezzi di umanità nuova. Si pensi alle missioni dei Gesuiti nel ’600, nella regione dei grandi laghi, alle missioni del padre della California, Junípero Serra, alle missioni di Damien De Vauster alle isole Hawaii, un uomo che ha speso la vita per occuparsi dei lebbrosi che erano confinati in un isola delle Hawai, o al genio educativo di Katharine Drexel, vissuta tra la fine del 1800 e la fine del 1900, ricca ereditiera che spese la vita per costruire scuole e opere per gli indiani e per i neri, una parte della popolazione di cui nessuno si occupava in quel periodo. Si tratta quindi di un American Dream, come dice il titolo, una sorta di provocazione di questo libro diverso da quello che normalmente abbiamo tutti in mente ma che, nello stesso tempo, fa parte della costruzione della società americana. Il libro è uscito è fresco di stampa per l’editore Marietti, ma vanta già un lettore illustre, come vedete dalla immagine di Papa Francesco che lo riceve per le mani di due giovani. Quello che i curatori hanno fatto nel mettere insieme questo progetto, è molto di più che collegare vite di uomini che hanno vissuto in epoche diverse in questo sottile filo rosso. I curatori hanno creato un gruppo di lavoro di circa 40 studenti di college, università, provenienti da luoghi diversissimi degli Stati Uniti: Harward University, Saint Thomas University, McGill in Canada, ecc. Un gruppo di persone molto diverse che hanno lavorato per alcuni mesi sulle fonti, sulle traduzioni e sulle vite di questi santi, una sorta di laboratorio storico. Avendo avuto la fortuna di contribuire a una parte di questo lavoro, devo dire che sono rimasto molto colpito dal fatto che quello che Marrou descriveva, la possibilità che la storia diventasse amicizia, è realmente accaduto in un gruppo di giovani che apparentemente sono molto distanti da queste figure. E’ affascinante che un gruppo di giovani studenti del XXI° secolo possa cominciare ad entrare in contatto, in amicizia con i gesuiti del XVII° secolo, che hanno un linguaggio, un modo di pensare, una mentalità apparentemente molto diversa, o con i francescani del XVIII° secolo, che hanno una mentalità ancora più distante. Qualcosa che chiunque insegna sa che non accade molto spesso, e quando accade è una festa, sta succedendo qualcosa di speciale. Oggi pensavo per introdurre quello mi ha colpito di questo libro, a quello che mi è piaciuto di più. Invece di commentarlo, vorrei usare i circa 20, 25 minuti che mi restano per fare un esperimento, cioè per portare tutti dentro questo viaggio che può avvicinare a una di queste personalità. Ho scelto Damien De Veuster, una delle personalità secondo me più affascinati di quelle descritte in questo libro, cercando di vedere, attraverso le sue lettere, attraverso le fonti dell’epoca e attraverso le lettere di chi lo ha incontrato, di chi l’ha conosciuto, che cosa quest’uomo può avere da dire a noi, che cosa possiamo imparare da quest’uomo, che cosa significa dialogare con quest’uomo. Farò tre accenni: il primo alla vita di Damien De Veuster, il secondo ad alcuni incontri che sono accaduti a lui o alla sua opera, e un terzo accenno alla canonizzazione. E lo farò attraverso alcune immagini che appariranno sullo schermo e attraverso un amico, Paolo, che mi aiuterà leggendo e interpretando le lettere. Dopo essere diventato il 50° degli Stati Uniti d’America, le Hawaii hanno donato al National Statuary Hall di Wanghinton, il luogo in cui ogni Stato americano invia due statue che rappresentano i due uomini più importanti, più rappresentativi della sua storia, le statue del primo re delle Hawaii – e si può capire perché – e poi questa strana statua di un missionario fiammingo che nel 1800 ha speso la vita nella più piccola delle isole Hawaii e che evidentemente i cittadini delle isole hanno considerato come uno degli uomini più rappresentativi del loro popolo. Si trattava appunto di Damien De Veuster, un uomo nato vicino a Lovanio nel 1840 da una famiglia di contadini. La sua è una storia molto semplice. Tramite un missionario si appassiona alla vita religiosa, decide di entrare in una congregazione, i Missionari dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria, noti anche come Padri Picpus, un ordine religioso francese nato nel 1800 che si occupava soprattutto di missioni in Oceania o comunque nelle terre lontane.
Siamo in un periodo di grade revival missionario sia per la Chiesa cattolica che per la Chiesa protestante. Durante gli anni del noviziato, nasce in Damien l’idea e il desiderio di partire per la missione: e qui si introduce uno degli aspetti per cui il sogno americano non è soltanto quello che tutti conoscono. Ci sono migliaia di giovani in Europa, tra il XVII° e il XX° secolo, giovani appartenenti a diversi ordini religiosi, che scrivono lettere ai loro superiori chiedendo di partire per le Indie che erano tutte le terre lontane, tutte le terre al di fuori dell’Europa, tutte le terre in cui il cristianesimo ancora non era conosciuto. Damien non è un novizio molto apprezzato dai suoi superiori, che quindi non vogliono farlo partire. Ma succede che il fratello di Damien, Pamphile, che fa parte dello stesso ordine religioso, venga assegnato alle Hawaii, si ammali e non possa partire. Damien coglie l’occasione per scrivere ai Superiori Generali una lettera molto accorata in cui chiede di essere mandato in missione al posto del fratello. Nonostante la resistenza dei superiori locali, il Superiore Generale, ammirato dalla lettera di questo giovane novizio, decide di mandarlo. E così tra il 1863 e il 1864 c’è questo lungo viaggio, cinque mesi di navigazione, per cui Damien arriva nella sua nuova casa, nella sua nuova meta alle Hawaii, e scrive al fratello: Mio caro fratello, mi dispiace non essere né un poeta né uno scrittore, così da poterti mandare una buona descrizione della nuova patria. Mi dovrò accontentare di scrivere solo qualche riga. Il nostro arcipelago è composta da otto isole, quattro grandi e quattro piccole. Hawaii, quella dove mi trovo, è più grande di tutte le altre messe insieme. Al centro ci sono tre vulcani, due dei quali sembrano essere estinti, il terzo è ancora attivo ed è nelle sue vicinanze che la Provvidenza mi ha destinato. E’ impossibile descrivere l’incommensurabile felicità di un missionario nell’avvistare la sua nuova terra che ogni giorno dovrà bagnare col sudore per conquistare a Dio le anime selvagge.
E proprio a Honolulu, all’età di 24 anni, comincia la nuova avventura: Damien viene ordinato sacerdote. Mio caro fratello, sabato siamo stati ordinati sacerdoti e il giorno dopo abbiamo celebrato la nostra prima messa nella cattedrale di Honolulu. Ricorda cosa hai provato tu, il giorno in cui hai avuto la fortuna di stare in piedi presso l’altare per la prima volta e offrire la vittima divina per la nostra salvezza. Per me è stato lo stesso, con questa differenza: che tu eri circondato da amici e fratelli nella fede mentre io ero circondato da bambini e persone convertite di recente, che sono venute da tutte le parti del mondo per vedere i loro nuovi padri spirituali il cui arrivo avevano così a lungo desiderato.
I primi nove anni della sua missione abbiamo molte lettere di Damien in cui descrive il suo rapporto con i Canachi, gli indigeni locali delle Hawaii. Molto interessante il desiderio di imparare la lingua, gli usi e costumi, la musica locale. Ma è un dramma a rendere la vocazione, la vita di Damien, ancora più intensa, il dramma della lebbra che, probabilmente giunta dalla Cina, si diffonde in quegli anni nell’arcipelago delle Hawaii. Il Re delle Hawaii decide di confinare tutti i lebbrosi in una delle isole più piccole, Molokai, in particolare nelle due cittadine di Kalaupapa e Kalawao. Un grande lazzaretto in cui i confinati non potevano uscire in nessun modo – era vietato dalla legge -, e in cui era impossibile ricevere delle visite. Un giornale locale di quegli anni descrive la situazione drammatica del lazzaretto di Molokai: “La situazione è drammatica soprattutto per l’assenza di speranza: chi è mandato a Molokai sa che lì morirà”. L’articolo di giornale termina con un appello che non passa inosservato ai superiori di Damien: “E se un cristiano dall’animo nobile, prete cattolico o pastore protestante o suora che sia, si sentisse ispirato a offrire la sua vita per la consolazione di quei poveretti, un animo così regale risplenderebbe in eterno su di un trono fondato sull’amore per l’uomo”. Damien decide di offrirsi volontario per questa missione estrema e di seppellirsi letteralmente sull’isola di Molokai. Scrive così al fratello: Mio caro Pamphile, Dio si è degnato di scegliere il tuo indegno fratello per aiutare la povera gente attaccata da quella terribile malattia così spesso menzionata nel Vangelo, la lebbra. Negli ultimi dieci anni questa piaga si è diffusa nelle isole e alla fine il governo si è sentito obbligato a isolare gli infetti. Chiuse in un angolo dell’isola di Molokai, fra le scogliere inaccessibili e il mare, queste creature sfortunate sono condannate all’esilio perpetuo. Un sacerdote era desiderato ma qui c’era un problema, perché siccome ogni comunicazione con le altre isole è proibita, un prete che fosse destinato qui dovrebbe accettare di essere rinchiuso con i lebbrosi per il resto della sua vita e il nostro superiore dichiarò che non avrebbe mai imposto questo sacrificio a nessuno di noi perciò mi sono offerto io stesso. Di conseguenza, l’11 maggio scorso un vaporetto mi ha lasciato qui insieme ad un gruppo di una cinquantina di lebbrosi che le autorità avevano raccolto nell’isola di Hawaii.
Le prime lettere di Damien da Molokai sono le lettere di un uomo che si scontra con una realtà terrificante e questo è molto interessante perché alcune presentazioni l’hanno dipinto come un uomo sempre forte, sempre impassibile di fronte al dolore. Dalle fonti emerge tutta la sua umanità. In particolare, Damien era colpito dalla violenza che nasceva dall’assenza di speranza: prostituzione delle donne, bambini abbandonati a se stessi e assenza di cure. La lebbra per quanto è noto è incurabile, sembra iniziare con una corruzione del sangue, sulla pelle compaiono della macchie chiare, soprattutto sulle guance, e le parti interessate perdono la sensibilità. Dopo un po’ queste macchie coprono tutto il corpo, poi iniziano ad aprirsi delle ulcere, soprattutto sull’estremità, la carne si consuma ed emana un odore fetido, anche il respiro del lebbroso diventa così marcio che l’aria intorno ne è avvelenata. Ho avuto grandi difficoltà ad abituarmi ad una tale atmosfera. Un giorno durante la messa mi sono trovato così soffocato che ho pensato di dover lasciare l’altare per respirare un po’ d’aria esterna, ma mi sono trattenuto pensando a nostro Signore quando comandò di aprire la tomba di Lazzaro, nonostante le parole di Marta: “Già emana cattivo odore”. Ora il mio olfatto non mi provoca più tanto disagio, entro nelle capanne dei lebbrosi senza difficoltà. A volte però sento ancora un po’ di ripugnanza quando devo ascoltare le confessioni di coloro che si avvicinano alla morte, le cui ferite sono piene di vermi. Spesso non so come amministrare l’estrema unzione quando entrambe le mani e piedi non sono altro che ferite putride.
Si vede poi dalle fonti una sorta di conversione, un cammino di Damien che comincia ad avvicinarsi ai lebbrosi e a desiderare di vivere con loro. I suoi superiori, lo ripete molte volte, gli avevano dato un suggerimento, un consiglio: non toccarli, non farti toccare e non mangiare con loro, non permettere di mangiare con te. E Damien ad un certo punto si accorge che questo è impossibile, soprattutto è inutile che lui stia a Molokai se non può entrare in contatto con i lebbrosi. E quindi, con la dovuta prudenza, cerca modi sempre nuovi per vivere con loro. Per esempio, comincia a fumare la pipa perché l’odore del tabacco copre l’odore terribile, insopportabile di Molokai, e poi ha questa idea, io sono uno di loro, che ripete in un passaggio bellissimo di una lettera al fratello: Quanto a me, mi faccio lebbroso con i lebbrosi, per guadagnare tutti a Gesù Cristo. E’ per questo che nel predicare, dico noi lebbrosi, non fratelli miei, come in Europa.
Due aspetti vorrei sottolineare della sua opera, della sua azione. Prima di tutto, restituire la dignità ai lebbrosi: Damien si era accorto che non lavorando, perché i lebbrosi ricevevano dei sussidi da Honolulu, questi uomini e queste donne avevano perso la loro dignità e così comincia ad invitare tutti a lavorare e introduce l’agricoltura sull’isola di Molokai. Comincia ad invitare tutti quelli che possono farlo, anche per poco, a lavorare, e poi per i cattolici e per tutti quelli che erano incuriositi della sua presenza, c’è la liturgia, la musica, il canto. Alcuni visitatori erano rimasti commossi dal fatto che questi uomini che passavano attraverso terribili sofferenze sviluppavano un gusto per la liturgia assolutamente inaspettato. Senza la presenza costante del nostro Divino Maestro nella mia povera cappella, io non avrei mai potuto perseverare, condividendo la mia sorte con quella dei lebbrosi di Molokai.
Un altro aspetto faticoso era il fatto che Damien non poteva lasciare l’isola e quindi non poteva confessarsi: ci sono varie lettere che si riferiscono al suo desiderio di confessarsi. Ad un certo punto il vescovo decide di fargli visita, violando la legge per poterlo confessare, ma lo fermano, non gli permettono di attraccare la nave all’isola e così Damien si reca con una barca vicino alla nave e decide di confessarsi ad alta voce in francese, una lingua che gli altri non potevano comprendere. Ma succede, dopo alcuni anni, che il noi lebbrosi diventa una realtà. Nel dicembre 1884, mettendo i piedi nell’acqua bollente, Damien si accorge che non percepisce più il calore: è un sintomo della lebbra che sta arrivando, passeranno altri quattro anni e mezzo prima della sua morte e sono anni in cui, lottando con la malattia e il dolore, continua la sua azione, continua a celebrare la messa anche con una certa ironia. Aveva deciso dove voleva essere sepolto. Aveva detto che la sua tomba sarebbe stata vicina al grande albero presso cui aveva dormito i primi giorni, quando era arrivato a Molokai, era impaurito, non sapeva dove andare, non voleva avvicinarsi ai lebbrosi. Ma le morti erano così tante a Molokai che anche il suo spazio rischiava di essere occupato. L’altro giorno ero abbastanza irritato avendo scoperto che avevano iniziato a scavare una fossa vicino alla grande croce, nel punto che da tanto riservavo per me. Ho dovuto insistere che il posto fosse lasciato libero.
E proprio in quel luogo Damien fu sepolto alcuni anni dopo, e sulla sua tomba che adesso si trova in Belgio compare una delle frasi che aveva scritto alla famiglia e che rimane come una sorta di breve riassunto della sua vita: La mia più grande gioia la trovo nel servire il Signore nei suoi figli poveri e ammalati, rifiuto della società. Questa in breve la storia, che avrebbe molte più sfumature, molte più domande, molti più interrogativi. Ma vorrei adesso andare avanti e vedere cosa succede nella gente che incontra un uomo come Damien, sia quando Damien è ancora in vita sia soprattutto dopo la morte. E’ uno degli aspetti più interessanti di questo libro. L’idea che la vita dei santi continua come un filo rosso e costruisce a lungo, anche dopo la loro morte. La scelta di Damien fece scalpore fin da subito e sui giornali, prima alle Hawaii, poi in buona parte del mondo, comparvero storie di quest’uomo che aveva deciso di dare la vita per i lebbrosi. Alcune di queste storie erano storie edificanti, che esageravano nei dettagli, come spesso succedeva e come succede anche oggi, che non fecero molto bene né a Damien né al suo rapporto con i superiori. Però ci furono anche uomini realmente incuriositi dalla sua vita che desideravano incontrarlo. Uno di questi è Charles Warren Stoddard, un viaggiatore inglese molto noto al tempo, amico di Twain e di Stevenson, che aveva viaggiato alle isole Hawaii e che documentò il proprio incontro con Damien in un libro poi pubblicato The Lepers of Molokai, I lebbrosi di Molokai. Calvinista, poi convertito al cattolicesimo, era un uomo eccentrico e inquieto e aveva visitato più volte le Hawaii perché le considerava un posto dove poter vivere liberamente la propria omosessualità. C’era stato alcuni anni prima dell’arrivo di Damien e aveva visitato il lazzaretto, e quando aveva saputo di un sacerdote cattolico che non era lebbroso ma voleva stare con i lebbrosi, aveva deciso di tornare alle Hawaii. Dopo una discussione con le autorità, era riuscito ad avere il permesso eccezionale di visitarlo ed era rimasto stupito innanzitutto dalle condizioni del lazzaretto, da quello che Damien aveva costruito e fatto costruire. C’è una lunga descrizione di quello che succede. Ma soprattutto era rimasto colpito da quell’uomo, ci sono delle pagine stupende che descrivono la personalità di Damien.

LETTORE:
Quando uscimmo dal verde labirinto della colonia, ho pensato a Dante che riemergeva dall’inferno seguendo Virgilio: stringendo la mano di padre Damien, entrai nella sua casa. Padre Damien è un medico dell’anima e del corpo, magistrato, maestro di scuola, falegname, pittore, giardiniere, guardiano, cuoco e qualche volta addirittura impresario funebre e becchino.

Tornato in Inghilterra, aveva scritto una lettera a Damien che ancora oggi si trova a Roma nell’archivio dei Picpus.

LETTORE:
Quando posai la penna alla fine dell’ultimo capitolo di questa storia dolorosa, mi raggiunse la notizia che padre Damien era morto: nell’arco di dodici mesi dal giorno in cui eravamo seduti insieme tra i morti e i moribondi, quando vidi con i miei occhi le prove del suo influsso benefico e santo e ascoltai con le mie orecchie le opere di carità cui aveva consacrato la propria vita e ascoltai dalle labbra di uomini e donne i cui cuori erano così traboccanti di gratitudine, in un anno egli è stato preso, quasi a tradimento, oserei dire, e il suo destino è ora legato a doppio filo con quello del suo sfortunato gregge. Eppure c’è più eroismo cristiano nella sua resa che in tante conquiste celebrate negli annali della storia …

Oltre a questi uomini desiderosi di incontralo, nacquero anche delle polemiche intorno alla figura di Damien, ed è bello e utile ricordarlo, fa parte del mestiere dello storico. E una delle principali polemiche nacque da Charles Hyde, che era un pastore presbiteriano a Honolulu che scrisse una lunga lettera dopo la morte di Damien, descrivendo Damien come un uomo volgare, sporco, testardo e diffondendo sui giornali questa lettera per contrastare la fama di santità di questo missionario cattolico. E la lettera pubblicata destò scandalo e ci furono varie risposte: vorrei attirare la vostra attenzione su una di queste risposte perché, oltre a essere straordinaria dal punto di vista letterario, è anche piuttosto incredibile dal punto di vista storico. Si tratta di Stevenson, l’autore de L’isola del tesoro, noto scrittore, noto viaggiatore, figlio di un presbiteriano. Si dichiarava agnostico ma era legato alla tradizione presbiteriana e frequentava per motivi di salute le isole Hawaii.
Stevenson non aveva mai conosciuto Damien ma aveva visitato Molocai dopo la sua morte, e decise quindi di rispondere alle accuse di Hyde con una lettera aperta in difesa di Padre Damieno che nessuno voleva pubblicargli e che quindi decise di pubblicare a proprie spese. In questa lettera c’è la descrizione del suo incontro non con Damien ma con quello che di Damien era rimasto dopo la sua morte.

LETTORE:
Quando visitai il lazzaretto, Damien era già morto, tutto quello che so lo appreso conversando con persone che lo avevano conosciuto bene e per molto tempo. Alcuni ne veneravano la memoria ma altri, che avevano discusso e lottato con lui, non dipingevano un santo con l’aureola, e anzi lo trattavano forse con poco rispetto. Grazie a queste informazioni dirette e imparziali, quest’uomo mi è apparso nei suoi tratti più semplici e umani. Se vi foste trovato là, avreste compreso che la vita nel lazzaretto è un calvario per i nervi di un uomo, come quando l’occhio sfugge i raggi splendenti del sole, avreste capito che quello è ancora oggi un luogo che commuove il visitatore ma è un inferno per chi ci vive. Non è tanto la paura di un possibile contagio, essa è ben poca cosa se paragonata al dolore, alla pena, al disgusto che assalgono il visitatore, all’atmosfera di afflizione, malattia e menomazione fisica che si respira. E notate che la colonia che ho visto e mi ha fatto soffrire era una colonia già purificata, affinata, ingentilita. Era un luogo diverso quando Damien vi giunse e fece la sua grande rinuncia e dormì quella prima notte sotto un albero tra i suoi fratelli deformi, lui solo in mezzo alla lebbra, guardando avanti con quale coraggio, con quali pietose vertigini di terrore, solo Dio lo sa, verso una vita intera dedicata a curare le ferite e i moncherini.

E qui chiederei un attimo di attenzione per questo secondo passaggio di Stevenson che vorremmo proporre, perché Stevenson rifiutava in modo categorico l’immagine idealizzata del missionario che spesso circolava. Al contrario, a suo avviso, era esattamente l’umanità, la normalità di padre Damien, con tutti i suoi limiti a renderlo straordinario.

LETTORE:
Ci sono molti, non solo cattolici, che vogliono che i loro eroi e i loro santi siano infallibili: per loro questa storia sarà sgradevole, non lo sarà invece per i veri amanti, per i benefattori e per i servitori degli esseri umani. Questo è ciò che sono riuscito a scoprire su questo semplice, nobile e umano fratello e padre nostro. Le sue imperfezioni sono i tratti del suo volto grazie al quale lo riconosciamo come un compagno. I fatti qui raccontati sono stati riportati dai protestanti che hanno osteggiato il padre durante tutta la sua vita. Se non mi inganno, essi hanno dipinto un uomo con tutte le sue debolezze ma senza dubbio eroico, pieno di vita, di una onestà inflessibile, di generosità e di allegria. Voi dite che Damien era volgare, molto probabile, ci fate quasi dispiacere per quei lebbrosi che ebbero come amico e padre un vecchio volgare e contadino. Ma voi che siete così raffinato, perché non eravate là a rallegrarli con i lumi della cultura? Posso ricordarle che abbiamo qualche dubbio sul fatto che Giovanni Battista fosse un gentiluomo e nel caso di Pietro, sulla cui carriera certo vi diffondete con approvazione del pubblico, non c’è dubbio che fosse un rude, testardo pescatore. Eppure, anche nelle nostre Bibbie protestanti Pietro è chiamato santo. Dite anche che Damien era sporco. Lo era: pensate anche a quei poveri lebbrosi contrariati da quel compagno così sporco. Ma il lindo dottor Hyde sedeva a tavola in una casa elegante. Infine, dite che Damien era testardo: penso che abbiate ragione ancora una volta e ringrazio Dio per la sua testa dura e il suo cuore forte. L’uomo che cercò di fare ciò che Damien fece, è mio padre, il padre dell’uomo del bar, il padre di tutti coloro che amano il bene ed è anche stato vostro padre, se Dio vi avesse fatto la grazia di comprenderlo.

Questa simpatia di Stevenson può sembrare strana o difficile da credere ma non era un fatto isolato. E qui si apre un aspetto veramente affascinante della presenza di Damien e del suo rapporto con il mondo protestante. Da una parte, Damien è figlio del suo tempo e quindi chiama i protestanti eretici, oppure ironizza sul fatto che mentre le missioni cattoliche sono sempre piene, le chiese dei protestanti sono vuote. D’altra parte, sono commentati una serie di gesti di carità reciproca che sorprendevano e qualche volta preoccupavano le autorità, sia cattoliche sia protestanti. L’ultima citazione, l’ultimo incontro con Damien che fa vedere come la testimonianza di quest’uomo abbia viaggiato per il mondo e per il tempo, è quella di Ghandi: il Mahatma Ghandi conosceva Damien, ebbe molto a che fare con la lebbra ed era rimasto colpito da quest’uomo che considerava come una fonte della sua ispirazione. In un’intervista disse così.

LETTORE:
La politica e il mondo giornalistico possono vantare molti eroi, ma pochi possono essere paragonati a padre Damien di Molocai. La Chiesa cattolica al contrario conta migliaia di persone che, seguendo l’esempio di padre Damien, hanno votato la loro vita alle vittime della lebbra. Sarebbe interessante comprendere la fonte di tale eroismo.

Concludiamo con l’ultimo aspetto, quello della canonizzazione, perché anche questa è un’altra storia affascinante, che ci dice qualcosa su di lui e sulla sua testimonianza. Nonostante la fama di santità che si era diffusa da subito, c’erano state delle resistenze, soprattutto da parte di alcuni superiori di Damien, per la canonizzazione. Non era quello che potremmo definire un santo di porcellana, e non era un santo che rispondeva ai canoni di santità di quell’epoca: quindi c’era una certa prudenza. La persona che ebbe un ruolo decisivo, prima per la beatificazione, poi per la canonizzazione di Damien, fu Madre Teresa di Calcutta, a cui è dedicata una mostra qui a Rimini e che sarà canonizzata tra poche settimane. Madre Teresa, nel 1984, dopo una messa privata con Giovanni Paolo II, disse al Papa: “Abbiamo bisogno di un santo per i lebbrosi, dovrebbe essere Damien”. Il Papa rispose che non c’erano i miracoli richiesti per la canonizzazione e la beatificazione. Madre Teresa sembrava che non ritenesse questo un grosso problema e Giovanni Paolo II, che era abituato a discutere con Madre Teresa, decise di mandarla dal Cardinale Palazzini che era il Prefetto per le Cause dei Santi di allora. Palazzini si presentò da Madre Teresa che gli presentò la stessa idea. Palazzini rispose: “Benissimo ma mancano i miracoli”. Leo Maasburg, il prete che seguì Madre Teresa nei suoi viaggi racconta così il dialogo tra Madre Teresa e il Cardinale.

LETTORE:
“Sarà anche così” disse Madre Teresa, “ma nella Sacra Scrittura c’è scritto che… “. E mise davanti agli occhi dello stupefatto Cardinale una Bibbia aperta al capitolo XV° del Vangelo di Giovanni, leggendo a voce alta il versetto 13: Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i proprio amici. “E questo è proprio quello che ha fatto padre Damien, è questa dunque la beatificazione della Bibbia: cos’altro si deve aspettare?”. Madre Teresa aveva messo sul tavolo il suo argomento più forte ed era certa della vittoria ma il suo piano non era destinato ad un successo tanto facile. Allora il Cardinale Palazzini fece un profondo respiro e giocò il suo asso: “Lei ha senz’altro ragione, Madre Teresa, ma sa, da più di 400 anni, per far santo qualcuno ci vogliono per tradizione tre miracoli riconosciuti e fino a questo momento padre Damien non ne ha fatto nemmeno uno”. La risposta di Madre Teresa non si fece attendere: “Allora sarebbe proprio l’occasione per cambiare questa tradizione” disse entusiasta. Aveva fatto centro un’altra volta e il successo le appariva ormai a portata di mano. E’ chiaro che la Bibbia ha la precedenza sul diritto canonico, aggiunse per concludere la discussione. Il Cardinale tuttavia sorrise in modo tanto bonario quanto furbo e ribatté: “Madre Teresa, lei ha tutte le ragioni, ma non crede sarebbe molto più facile se lei pregasse il buon Dio perché avvenga questo miracolo, piuttosto che aspettare che cambi una tradizione vecchia di 400 anni?”. Fu l’unica volta che vidi Madre Teresa rimanere senza parole. Dopo una breve pausa, disse infine: “Well, then let’s pray”; bene, allora preghiamo. L’astuto cardinale italiano aveva avuto il sopravvento”.

In realtà, Madre Teresa ebbe il sopravvento perché nel giro di quattro anni una tradizione lunga 400 anni cambiò, solo due miracoli furono riconosciuti necessari per la beatificazione e per la canonizzazione e nel giro di pochi anni due miracoli furono riconosciuti: Damien fu prima beatificato da Giovanni Paolo II a Lovanio, alla presenza di Madre Teresa, e poi canonizzato nel 2009 da Benedetto XVI. Concludo con un’osservazione: la ricerca storica attraverso lo studio delle fonti permette di conoscere più a fondo gli uomini del passato. Nel caso dei santi, essi emergono come uomini del loro tempo, con limiti, fatiche, miopie, e molti miti vengono sfatati. Ma questo non rende le loro vite meno affascinanti o meno edificanti, al contrario. Riscoprendo i santi come uomini, è possibile, per citare Malraux, “comunicare con loro”, è possibile quell’idea di amicizia tra un uomo del presente e un uomo del passato. Aveva ragione Stevenson quando reclamava l’umanità di Damien: le sue imperfezioni – diceva Stevenson – sono i tratti del suo volto grazie ai quali lo riconosciamo come compagno. Ma soprattutto l’umanità di Damien rende ancora più necessario l’interrogativo di Ghandi: “Sarebbe interessante comprendere la fonte di tale eroismo”.

LETIZIA BARDAZZI:
A te la parola, Paolo Valesio

PAOLO VALESIO:
Buonasera a tutti, grazie per la vostra ospitalità. Il mio piccolo intervento causerà forse una lieve fatica di riadattamento, sarà un livello più modesto, io non sono un esperto di storia del cristianesimo o agiografia, sono un saggista, uno scrittore e questo limite si avvertirà. Mi servirò come base di un articoletto che ho scritto e che è apparso stamattina nel Sussidiario, e che consiste in una recensioncina del libro del prof. Colombo: lo dico per avvertire che quello che farò sarà eliminare da questo piccolo testo la descrizione del libro, che era necessaria ai lettori che non lo conoscevano, che adesso è ampiamente a noi nota, e invece seguire la traccia del discorso che partiva e si soffermava soprattutto sul concetto del sogno americano che è appunto anche lì in inglese, giustamente, “the american dream” e non è esattamente la stessa cosa che “sogno americano”, reca con sé una serie di connotazioni, quindi sarà una prospettiva diversa che ci porta lontano forse dalle virtù eroiche in un’area più psicologica che estetica. E appunto, seguirò la traccia dell’articoletto aggiungendo i paragrafi, gli appunti e le riflessioni che, come tutti noi sappiamo, quando scriviamo per i giornali non possiamo includere per i limiti ben rigorosi di spazio. Non ricordo più francamente quale titolo editoriale il quotidiano abbia scelto, di solito i quotidiani scelgono redazionalmente il titolo. Il titolo originale a cui vorrei ritornare era “Ma quale sogno”, senza punto interrogativo o esclamativo, quindi con un certo, diciamo così, scetticismo. E cominciavo col dire che il sogno americano, che un tempo esercitava un enorme fascino di attrattiva internazionale, è svanito alla fine del secolo scorso. Quella che era stata per più di due secoli una grande bandiera, è divenuta nel nostro millennio qualcosa di forse troppo simile ad uno straccio, buono per essere agitato in quei regni del convenzionale che sono le cosiddette convenzioni e simili occasioni politiche destinate alla demagogia. Quello che ho appena detto non è – preciso subito a scanso di equivoci – una forma di cinismo, perché cinismo sarebbe dire che il sogno è sempre stato un mito nel senso negativo e demistificante del termine. E questa visione sarebbe troppo semplicistica perché non distinguerebbe tra mito come energia viva, chiamiamola idea forza, che è stato il mito americano forte, negli ultimi due secoli, e il mito nel tempo del suo esaurimento. Nel periodo moderno il “sogno americano” è figlio dell’Illuminismo, ed è subito diventato un mito che era anche un’idea di forza laica e razionalistica, con pretese pragmatistiche tanto sfrontate da ipnotizzare il cittadino, così da incoraggiarlo a trasformare con successo la realtà (in fondo è questo, il segreto americano: il realismo non sta al di qua, bensì al di là dell’eccesso). Ma l’interesse maggiore di un libro recente sta nell’allargare lo sguardo – almeno nella sua prima parte – al periodo premoderno, quando gli Stati Uniti, e il Canada e il Messico, non esistevano ancora. Si tratta di American Dream. In viaggio con i santi americani, a cura di Mathieu S. Caesar e Pietro Rossotti, con la supervisione di Emanuele Colombo (Marietti, 2016): un’attenta rassegna con ricco corredo bibliografico, che si muove tra storia e agiografia (con una particolare insistenza, nell’ Epilogo, su questa seconda dimensione). Il libro è diviso in quattro parti, che corrispondono ad altrettanti periodi storici e zone geografiche diverse. Si comincia con I martiri gesuiti nordamericani (1642-1649), nell’area del Québec e parte dell’odierno Stato di New York. Poi ci si sposta sulla costa occidentale, con le attività fra l’odierna California e l’odierno Messico, del frate minore Junípero Serra (1713-1784), la figura religiosa di maggiore importanza nella storia della California. In seguito si balza ancora più a ovest, nell’oceano Pacifico, per descrivere l’apostolato del missionario belga Damien de Veuster (1840-1889) nelle isole Hawaii (è soltanto nel 1959 che le Hawaii divengono il cinquantesimo fra gli Stati Uniti), dove padre Damien vive fra i lebbrosi nell’isola di Molokai e muore come uno di essi. Infine, si torna al Nord-Est e precisamente allo Stato di Pennsylvania, dove Katharine Drexel (1858-1955) nasce, a Filadelfia, e dove comincia a elaborare la sua vocazione di educatrice, fondando – in lungo e in largo per gli Stati Uniti – scuole per afroamericani e nativi americani.
Come gli autori stessi riconoscono, il termine che dà il titolo alla loro ricerca è “provocatorio e insolito”: con l’eccezione della Drexel, tutti questi “santi” sono nati in Europa (anche se all’America hanno dedicato la loro esistenza), e il sogno di cui si parla è quello “di portare Gesù nel continente americano attraverso la propria testimonianza e il dono gratuito della propria vita” (p. 11). Inoltre, il sogno qui entra anche a contrario: costoro si occupano di “chi era rimasto ai margini del sogno americano” (p. 191).
Questi missionari premoderni portano la loro testimonianza spirituale in un mondo che, almeno a prima vista, non ha molto di spirituale: essi fanno parte di una comunità di colonizzatori che importa per sua natura nel Nuovo Mondo malattie nuove che decimano le popolazione native (vedi p.19 e altrove); i missionari entrano inoltre, volenti o nolenti, in un panorama politico complicato e spesso velenoso, che trasferisce in America i conflitti nazionali in Europa coinvolgendovi le popolazioni native, e dove altre confessioni cristiane sono in competizione con i cattolici per la conquista delle anime. Gli autori menzionano a un certo punto gli “interrogativi che sorgono di fronte all’opera missionaria: come leggere oggi, nel mondo postcoloniale e postmoderno, la storia delle missioni cristiane e qual è il ruolo di un missionario nel mondo in cui viviamo?” (p. 91). Il libro non si offre di dare risposta a questi interrogativi, e tanto meno lo presume il sottoscritto. Ricordo soltanto un’acuta osservazione di Papa Francesco, che potrebbe offrire lo spunto a tutta una ricerca fra spiritualità e psicologia: “La missione nasce sempre da una vita che si è sentita cercata e guarita, trovata e perdonata” (da un’omelia del settembre 2015, citata a p. 94).
Due osservazioni, per concludere, su due immagini nelle quali l’estetica si rivela come componente essenziale dell’esperienza spirituale, e della sua descrizione. La prima riguarda la più bella di gran lunga fra tutte le lettere raccolte in questo libro: quella che il padre gesuita Charles Garnier scrive nell’aprile del 1638 al fratello Joseph in Francia, il quale vive un’esperienza di crisi spirituale. Charles, in lotta per la sopravvivenza e sempre sull’orlo del martirio (che incontrerà una decina d’anni più tardi) trova tuttavia il tempo e l’energia mentale per svolgere un’analisi profonda e simpatetica, scritta nello stile di quello che è stato giustamente chiamato “il gran secolo” in Francia, della situazione d’anima di Joseph. Infine, un’immagine della vita di Damien de Veuster, la cui decisione di vivere nell’isola dei lebbrosi era permanente e irrevocabile: chi vi risiedeva non poteva più uscirne, e le visite erano molto difficili. “Un giorno, quando al vescovo Maigret giunto in visita fu vietato di attraccare all’isola, Damien si avvicinò con una barca alla nave su cui si trovava il vescovo e si confessò a distanza, ad alta voce, in francese”, p.128 (il francese era la seconda lingua di Damien, la cui lingua madre era il nederlandese). Ci sarà un poeta o un grande regista che vorrà descrivere questa confessione urlata al vento e al mare?
Vorrei tornare, dopo questo scheletro narrativo, a due o tre concetti che non avevo avuto tempo di sviluppare e che mi permetto di segnalarvi. Il sogno americano, il sogno anti-sogno, il sogno diverso: mentre leggevo questo libro mi veniva in mente il titolo di un libro che sono andato a verificare, è il primo romanzo che Pasolini scrisse tra il ’49 e il 50 e fu pubblicato solo dieci anni dopo. Si intitolava originariamente con un titolo realistico-sociologico, I giorni del lodo De Gasperi, evocava tensioni contadine nel Friuli. Poi lo intitolò, secondo me con un colpo geniale, con la citazione di un passo di Marx: si chiama Il sogno di una cosa. C’è una lettera ben nota che Marx scrive a Arnold Ruge che si trova a Parigi: “…il nostro motto deve essere quindi riforma della coscienza”, veramente Marx scrive della coscienza mistica e Pasolini salta questa parola, ma va bene, “…non per mezzo di dogmi ma mediante l’analisi della coscienza non chiara a se stessa che si presenti sotto forma religiosa o politica. Apparirà allora che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa”. Mi pare interessante perché rivela quella che è il Marx vivo, filosofo utopista, un discorso di tipo utopistico che fornisce quasi una giustapposizione un po’ ironica al sogno americano che è stato di solito concepito, evidentemente, in chiave antimarxista. In altri termini, sembra che tutti noi stiamo parlando di missionari e non del sogno di una cosa. Vorrei soffermarmi un momento sull’idea di sogno di cui ho parlato prima col professor Colombo che mi ha fornito prima alcune indicazioni più precise alle quali dovrò ripensare. Nel libro i gesuiti descrivono i loro tentativi di incivilire: fra l’altro, adoperano spesso le parole barbaro e selvaggi, come avvertono giustamente gli studiosi, bisogna storicizzare. Ma a parte questo, un elemento che rimproverano ai nativi è di dare troppa importanza ai sogni. I nativi credono nei sogni in un modo che secondo i missionari un po’ razionalisti è eccessivo e conturba le loro decisioni: credo che questo sia senz’altro vero. D’altra parte, non è possibile non pensare – c’è una lunga tradizione moderno-gesuitica in proposito – alla psicoanalisi ed alla psicologia del profondo, soprattutto a Jung ed alla sua idea di grande sogno. Bisognerebbe auspicare un rapporto dialettico fra la razionalità laica e cristiana, moderna, che non prende il sogno letteralmente, e un atteggiamento psicologicamente approfondito che però interroga il sogno, quella che una psicanalista di scuola junghiana ha definito “una lettera dall’inconscio”: ogni sogno è una lettera dall’inconscio. Questo anche per dire che la mia critica del sogno americano non vuole essere troppo razionalistica e intellettualistica, ma simpatetica. L’altro punto che vorrei suggerire, di cui abbiamo cominciato a parlare con il prof. Colombo, e che varrebbe uno studio più approfondito, è la possibilità di studiare da un punto di vista estetico-psicologico l’osservazione molto profonda di Papa Francesco, che non si sofferma sul presente-futuro del missionario ma sul possibile trauma, sulla ferita che lo precede. La missione nasce sempre da una vita che si è sentita cercata e guarita – se è guarita, allora c’è una ferita -, trovata e perdonata. Mi sono venute in mente due figure relativamente recenti, che certamente i molti tra voi che appartengono ad una certa generazione conosceranno: uno è Black Robe, si potrebbe tradurre “mantello nero”, un termine con cui gli indiani designavano i missionari. Black Robe è un film del 1991, canadese- australiano, tratto dal romanzo omonimo, che io ancora non ho letto, di uno scrittore cattolico-irlandese, Brian Moore, che descrive in modo spietato e violento questi tentativi dei missionari gesuiti francesi di comunicare con i nativi: nel momento storico inquadrato dal film, si riducono quasi sempre a un fallimento traumatico. E’ un film tutto proiettato sul presente-futuro, con brevi flashes back al passato francese di queste persone. C’è un altro film, credo più noto, del 1986: si chiama Mission, un termine che ormai nel linguaggio americano è divenuto banalmente mediatico. La mission è questa drogheria di fare, ecc. Il film si svolge molto più tardi, nel 1767, nel momento in cui i gesuiti stanno per essere espulsi con violenza dalla regione fra il Brasile, l’Argentina, il Paraguay. Uno dei protagonisti è un militare che per penitenza, perché ha ucciso il fratello per una questione di gelosia, si sente sconvolto. E allora si arrampica su per questa cascata misteriosa, con tutta la sua corazza spagnola, un tentativo evidentemente folle, e alla fine arriva su disperato e trova un indigeno che gli dice: “Ma perché non la butti via?”. E la butta via e in certo modo insomma si converte laicamente, e lavora con i nativi. Il che mi ha fatto venire in mente un romanzo minore ma bello di Graham Greene, che si chiama A Burnt-Out Case, difficile da tradurre, Un caso bruciato, sarebbe Un uomo in crisi, alla Papini, Un uomo finito. E’ la storia di un architetto molto mondano che ha avuto successo e una serie di donne, che a un certo punto si sente stanco, disgustato di tutto questo, si auto-esilia, si nasconde in un piccolo villaggio africano dove c’è anche una comunità di lebbrosi e comincia a lavorare aiutando come architetto un gruppo di missionari. Fa amicizia con una signora sposata, conversano, ma qualcuno, vista la sua notorietà passata, fa dei pettegolezzi, insomma, il marito lo uccide. Quindi, è la storia di un fallimento, A Burnt-Out Case, ma l’indicazione di Greene è chiara: quest’uomo ha trovato se stesso e quello che succederà dopo la morte non si sa. Intanto lui ha introdotto nozioni di architettura e di raffinatezza in mezzo a questo gruppo di missionari, ha fatto qualcosa, senza che ci sia alcun tentativo di descrivere una conversione, una storia edificante seguente. C’è un’esperienza spirituale intensa e conclusa nell’ambito della vita naturale. Ultimo riferimento: c’è un libro molto noto, che avevo letto senza rendermi conto di quello che diceva, di un grande critico americano, il più grande forse del ’900, Edmund Wilson. A un certo punto qualcuno lo visita dall’Inghilterra, Wilson vive nello stato di New York, e gli chiede degli irochesi. Lui risponde: “Ma gli irochesi non esistono più da anni!”. Dopo di che si vergogna perché scopre che in realtà lo Stato di New York è pieno di irochesi. Allora scrive tutto un libro che si chiama Apologies to the Iroquois, tradotto molto bene, secondo me, con Dovuto agli Irochesi. Wilson descrive tutto un mondo che lui non conosceva e che certamente non frequentava attraverso lo studio delle missioni cattoliche, molto laico, anche con accenti anticoloniali: un mondo misterioso che riemerge improvvisamente perché lui è andato in giro a vedere dove stanno queste persone. Ultimo punto, vorrei leggere una lettera completamente diversa da quelle lette, anzi, credo che leggerò solo la seconda parte. E’ una lettera scritta il 28 aprile 1638 – siamo circa due secoli prima di Padre Damien – dal gesuita francese Charles Garnier al fratello Joseph, detto Monseigneur de Sainte-Marie, un titolo molto pittoresco. In sostanza, il fratello era in crisi, aveva abbandonato l’ordine dei cappuccini, si faceva chiamare Mons. de Sainte-Marie ma viveva una vita diversa, liturgicamente irregolare, e poi pare sia ritornato all’Ordine. Quello che mi ha colpito in questa lettera sono alcune cose, ve le comunico molto rapidamente. E’ firmata “dalla residenza dell’Immacolata Concezione di Nostra Signora alla Rochelle, il 28 aprile 1638”. Sembra una di quelle lettere che almeno da ragazzo io leggevo nei romanzi di Dumas, dei Tre moschettieri, la Rochelle, la Francia, l’Immacolata Concezione. Uno si immagina immediatamente la Francia letterata e colta ma questa è scritta da una capanna, da un tugurio immerso nei boschi in cui quest’uomo sta rischiando la vita ogni giorno. In effetti, verrà ucciso circa due anni dopo. Ma ha nobilitato, inventato quella che loro chiamavano “la nouvelle France”, che è ancora una parte del Canada. Lui vive in questa Nouvelle France della mente. La prima parte, che forse è troppo lunga da leggere, descrive la situazione in cui si trova: “Da un anno in particolare gli indiani lanciano accuse contro di noi, l’opinione generale del paese è che la causa dell’epidemia siano i francesi”. C’è un’epidemia. “Se la sono presa con il nostro tabernacolo, il venerabile santuario del Santo dei santi, la convinzione generale era che noi custodissimo nella nostra capanna qualche cosa, qualunque cosa fosse, che appestava il paese. Perciò non si parlava d’altro che di spaccarci la testa”. Detto molto chiaro, questi uomini vivono continuamente in situazioni in cui gli indiani parlano soprattutto di “spaccargli la testa”. E in effetti, a lui succederà questo dopo due anni. Poi c’è un salto straordinario, da un punto di vista compositivo. Lui continua in questa lettera, a un certo punto dice, dopo la descrizione di un paesaggio disastrato, selvaggio, brutale: “Non posso nascondervi che, benché sia solitamente occupato a cercare modi per far conoscere e amare Dio a questi poveri barbari, non di meno molto spesso parlando a loro voi bussate segretamente al mio cuore attraverso questo pensiero: ahimè, dov’è il mio povero fratello? È forse morto? È in vita? Sarà forse all’inferno? Oh mio Dio, sarebbe forse possibile che vi maledicesse per sempre e che abbia già cominciato a farlo? Ma non posso soffermarmi che un istante su questo triste pensiero perché subito mi rivolgo verso la misericordia di Dio. Tuttavia, dal momento che non ho saputo dalle lettere che ho ricevuto l’anno scorso che vi trovavate in uno stato tale per cui eravate contento di morire, non posso fissare il mio animo sulla certezza che voi state bene. Sicché spesso mi affligge questo pensiero: ma morirà dunque in questo stato? Ma il suo povero cuore si troverà sempre tra le inquietudini e in una malinconia così nera? Fino a quando la sua anima sarà teatro di tutte queste passioni strazianti?”. Questo è il linguaggio dei grandi tragici, il linguaggio di Pascal. “Fino a quando la sua anima sarà teatro di tutte queste passioni strazianti? Ah, che riposo, che sollievo ha avuto in questi dodici anni da quando si è ritirato dal servizio dell’Unico che lo ama?”. Quindi, crisi religiosa e allontanamento dall’Ordine. Poi salta, con una mossa che potrebbe dirsi ingenua se non che è molto brillante, dal parlare di suo fratello in terza persona a parlare direttamente con lui: “Sì, caro fratello, Egli vi ama e non di un amore comune ma ahimè voi fuggite da lui, voi rifiutate le sue carezze, credo che voglia fare di voi qualcosa di grande. Tornate un po’ indietro, aspettatelo! Egli vi insegue da tanto tempo, andategli incontro. Non vi dico niente di specifico, di seguire questa o quella strada, non è opportuno che lo faccia, vi chiedo solo di mettere la vostra anima nelle mani di qualche persona davvero virtuosa e prudente che possa considerare davanti a Dio cosa dovreste fare. Non so se avete abbastanza fiducia nel Padre Hayeneuve, scegliete voi, caro fratello, ma se gli volete bene, fatelo. In nome di che cosa potrei implorarvi per non essere respinto? Della mia condizione di fratello? È troppo poco. Vi scongiuro per la vostra anima, per quest’anima immortale per la quale Gesù Cristo ha versato il suo sangue, che oggi ho tenuto fra le mani e che offrirò ancora, a Dio piacendo, dopodomani, per voi, al Creatore delle nostre anime. Fratello mio, chiuderete questa lettera prima di aver dichiarato al Salvatore, che ci vede e contempla, che volete fare ciò che a Lui piacerà, prima di aver deciso nel vostro spirito la persona alla quale chiederete consiglio? Caro fratello mio, se pensassi che potesse servire scrivervi con il mio sangue, lo farei. Mi vergogno a dire questo, è troppo poco, se pensassi che lasciare questo paese, che per me è un paradiso terreste” lui sa benissimo che è esattamente il contrario, ma proietta questa immagine che non è certo il tugurio in cui vive “per tornare in Francia da voi e solo per voi potesse servire, e Dio e i miei superiori lo volessero” qui c’è un uomo consacrato, un uomo d’ordine “lo farei molto volentieri. Dio lo sa e lo prego per questo, se volesse accettare la mia vita per la vostra conversione, dichiaro solennemente che gliela offro di tutto cuore come e quando a Lui piacerà”. E’ quasi una profezia forse delirante della sua uccisione che avverrà dopo due anni: gli spaccheranno la testa come lui ha predetto, sembra quasi che lui la offra già, ma in connessione al fratello. “Fratello mio, mi getto spiritualmente ai vostri piedi, con tutta la tenerezza di cuore di cui sono capace e vi rivolgo queste cinque parole: miserere animae tuae, placens Deo”. Pietà dell’anima tua se a Dio piace, ma è interessante che lui lo scriva in latino. “Infine, vi prego di scrivermi in modo dettagliato lo stato in cui vi trovate: vi assicuro che questa è una delle principali consolazioni che io possa avere in questa vita e se non ve l’ho testimoniato abbastanza negli anni passati, ve ne chiedo perdono, è un errore che ho commesso”. Non so abbastanza di cosa sia successo ma, insomma, c’era forse una tensione fra i fratelli, torniamo al discorso del Papa, la guarigione di una ferita dietro questa missione di Garnier, c’è forse una storia molto francese e molto locale della Francia. “Vi prego di credere che sono e sarò sempre con tutto il cuore Charles Garnier e, ripeto, dalla residenza dell’Immacolata Concezione di Nostra Signora alla Rochelle il 28 aprile 1638”. Quello che mi ha colpito, e finisco, perché forse non l’ho spiegato bene, credo che la lettera sia bella ma non basta dirlo, è che si tratta della lettera che più mi ha spiazzato di tutto di questo libro, in cui le lettere di solito sono, e l’abbiamo sentito, oggettivistiche, descrittive di una situazione presente, in un luogo presente. Quello che mi ha colpito in questa lettera è che Garnier passa da un suo rapporto sulla situazione presente a una autoanalisi spirituale, a un dialogo spirituale con un altro, è come se entrasse in se stesso, abbandonasse completamente la capanna e la foresta e vivesse in un mondo diverso. Questo è l’elemento più spirituale che io abbia trovato riflettendo sulle testimonianze di questo libro. Grazie.

LETIZIA BARDAZZI:
Grazie a tutti, grazie ai nostri ospiti per la ricchezza e l’originalità e la bellezza dei loro interventi. Vi dò solo, data l’ora, tre velocissimi avvisi. Stasera abbiamo conosciuto in particolare due di questi santi che potete conoscere acquistando il libro che trovate in libreria e visitando la mostra dei santi americani. Vi ricordo che c’è una visita guidata fatta dai ragazzi in inglese alle 10.40, alle 13.40, alle 16.20 e alle 19.20, tutti i giorni allo stand della mostra. Vi invito a considerare la nostra campagna di fundraising che è stata decisiva per il sostentamento e la vita del meeting negli ultimi anni. E vi invito stasera a questo unico spettacolo fatto da tre cantautrici di provenienze diverse: una italiana, un’araba e un’aramaica, che interpretano e preparano un concerto intorno al titolo del Meeting. Vi invito a considerare la partecipazione allo spettacolo di stasera. Grazie a tutti e buona cena.

Data

19 Agosto 2016

Ora

19:00

Edizione

2016
Categoria
Incontri