Chi siamo
AMICIZIE INESAURIBILI. DOROTHY DAY E L’AMICIZIA SOCIALE
Simona Beretta, Direttrice del Centro di Ateneo per la Dottrina Sociale della Chiesa e Direttrice responsabile della rivista Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, Università Cattolica del Sacro Cuore; Robert Ellsberg, Collaboratore e curatore dell’autobiografia Dorothy Day Ho trovato Dio attraverso i suoi poveri (ed. Lev); Giulia Galeotti, Giornalista, autrice di Siamo una rivoluzione. Vita di Dorothy Day (ed. Jaca Book). Modera Francesco Magni, Ricercatore di Pedagogia Generale e Sociale all’Università degli Studi di Bergamo.
Dorothy Day (1897-1980), fondatrice insieme a Peter Maurin del Catholic Worker Movement a New York nel 1933, è stata una personalità certamente eclettica ed estroversa: giornalista, scrittrice, attivista per i diritti sociali, convertita al cattolicesimo in una vita piena di vicende drammatiche, di gioie e di dolori, di successi ma anche di incomprensioni e “lunghe solitudini” (come recita il titolo del suo libro autobiografico) che ce la fanno avvertire particolarmente contemporanea ai drammi e alle sfide degli uomini e delle donne del nostro tempo. Riscoprire oggi la sua figura è quindi un invito a interrogarsi sul perché valga la pena ancora oggi vivere per un ideale, piangere, amare, soffrire e costruire qualcosa di buono per sé e per gli altri, a partire dai più poveri e abbandonati, lasciandosi sempre guidare dalla scoperta della fede, unica dinamica dell’amore che genera quella povertà volontaria, quel coraggio, quell’umiltà e quella carità di cui tutti, in fondo, avvertiamo il bisogno.
Con il sostegno di Tracce e Università Cattolica del Sacro Cuore.
AMICIZIE INESAURIBILI. DOROTHY DAY E L’AMICIZIA SOCIALE
AMICIZIE INESAURIBILI. DOROTHY DAY E L’AMICIZIA SOCIALE
Domenica 20 agosto 2023, ore 17.00
Auditorium isybank D3
Partecipano
Simona Beretta, Direttrice del Centro di Ateneo per la Dottrina Sociale della Chiesa e Direttrice responsabile della rivista Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, Università Cattolica del Sacro Cuore; Robert Ellsberg, Collaboratore e curatore dell’autobiografia Dorothy Day Ho trovato Dio attraverso i suoi poveri (ed. Lev); Giulia Galeotti, Giornalista, autrice di Siamo una rivoluzione. Vita di Dorothy Day (ed. Jaca Book).
Modera
Francesco Magni Ricercatore di Pedagogia Generale e Sociale all’Università degli Studi di Bergamo.
Magni. Buonasera a tutti e benvenuti a questo momento che apre il ciclo di incontri dedicato alle amicizie inesauribili di questo Meeting dove avremo l’opportunità di incontrare personalità che a distanza di anni sanno ancora oggi esserci testimoni di una vita spesa per un ideale, con la grazia della fede e per questo veri amici. Nei prossimi giorni, come avrete visto dal programma del Meeting, potremo incontrare figure che a loro modo sono già ben note nel nostro Paese come don Lorenzo Milani, il medico giapponese Takashi Nagai e don Pino Puglisi. Oggi abbiamo l’occasione di incontrare, invece, la figura di Dorothy Day, forse meno nota al vasto pubblico, ma che risulta particolarmente attuale per i tempi di cambiamento d’epoca che stiamo vivendo e che suscita un interesse come la vostra presenza numerosa in sala questa sera testimonia.
Nel 2015 nel corso della sua visita al Congresso degli Stati Uniti d’America, Papa Francesco, nell’indicare a tutto il mondo quattro esempi di personalità eccezionali della storia americana, accanto a veri e propri giganti come Abraham Lincoln, Martin Luther King e Thomas Merton, ha voluto citare proprio Dorothy Day per il suo impegno sociale, la sua passione per la giustizia e per la causa degli oppressi sempre ispirati dal Vangelo dalla sua fede e dall’esempio dei santi. Chi è stata Dorothy Day e perché è interessante incontrarla per noi oggi? Ci aiuteranno in questo percorso i nostri tre ospiti che vado a presentare e a ringraziare per essere qui con noi incominciando dalla mia sinistra Giulia Galeotti giornalista responsabile delle pagine culturali dell’Osservatore Romano e autrice di una delle più recenti anche più belle biografie su Dorothy Day. Grazie per essere qui con noi.
Al centro alla mia destra trovate Robert Ellsberg che ci ha raggiunto dagli Stati Uniti. E’ collaboratore e curatore dell’autobiografia di Dorothy Day appena pubblicata (ripubblicata) dalla Lev “Ho trovato Dio attraverso i suoi poveri”. Qualcuno avrà letto anche oggi sul Corriere la prefazione, la splendida prefazione a firma di Papa Francesco. Robert Ellsberg ha conosciuto Dorothy Day nella metà degli anni 70 e quindi oggi ci offrirà la sua testimonianza di questo incontro che gli ha cambiato la vita e quindi lo ringraziamo di cuore per il viaggio che ha fatto e per essere qui con noi.
Infine, la professoressa Simona Beretta, docente di economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, direttrice del Centro di Ateneo per la Dottrina Sociale della Chiesa e direttrice responsabile della rivista Dizionario di Dottrina Sociale. Grazie anche a lei per essere qui con noi.
Allora, prima di cedere la parola ai nostri tre ospiti, qualche breve flash qualche cenno biografico su chi è stata Dorothy Day. È difficile darne una definizione univoca e sintetica: è giornalista, scrittrice, è un’attivista radicale per i diritti sociali, si converte al cattolicesimo, è una donna del ‘900 che vive drammi, a mio modo di vedere, molto contemporanei: un aborto, la separazione dall’uomo che amava, la fatica di crescere da sola una figlia, il coraggio di affrontare le sfide culturali e sociali del suo tempo. La sua è certamente una personalità eclettica ed estroversa. Come ha scritto anche Papa Francesco nella prefazione del volume che citavo in apertura, la caratterizza una profonda inquietudine esistenziale, che si unisce a un impegno sociale che la accompagnerà tutta la sua esistenza e che la porterà a fondare nel 1933 a New York, insieme al francese Peter Maurin, il Catholic Worker Movement, un movimento, un giornale, una serie di attività in favore dei diritti dei lavoratori, dei poveri e degli emarginati. Papa Francesco in questa prefazione Individua tre tratti che caratterizzano Dorothy Day: l’inquietudine esistenziale, il suo fermo attaccamento e la sua semplice obbedienza alla Chiesa e la sua dimensione di servizio, le opere di servizio, che sono in qualche modo un rendere contemporaneo quelle tradizioni e opere di misericordia della tradizione della Chiesa (dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi…). Quella di Dorothy Day è un’esistenza non lineare, potremmo dire, piena di luci e di drammi, segnata da un incontro, la conversione, che diventa la pienezza della vita e il traguardo della propria ricerca di felicità.
E allora cedo la parola a Giulia Galeotti che sicuramente ci può aiutare a incontrare chi è stata Dorothy Day. Grazie Giulia.
Galeotti. Grazie innanzitutto al Meeting per avere posto al centro della scena una figura così sfaccettata e così contraddittoria, sicuramente così poco conosciuta e non solo in Italia perché quando, come ha ricordato Francesco, Papa Francesco l’ha citata durante il suo viaggio negli Stati Uniti (e guardate che per la prima volta un pontefice ha presentato una laica come figura fondamentale nello sviluppo dei valori di un Paese), ebbene, dopo il discorso di Bergoglio, alcuni senatori chiesero: “Perché il Papa ha parlato ti Doris Day (la fidanzatina d’America)?” Quindi l’ignoranza non è soltanto italiana.
La nostra storia inizia nell’aprile del 1906 con una bambina di 9 anni che guarda il mondo senza capire: è l’alba quando il terremoto distrugge la città di San Francisco, una tragedia che indirizza la vita di Dorothy Day per il buono che vede. In che senso? Davanti alla folla che si riversa sul sobborgo di San Francisco, Berkeley, dove la bambina vive con la famiglia, Dorothy vede che i vicini si rimboccano le maniche e condividono il poco che hanno con le persone in fuga dalla città. Allora la bambina si domanda perché la comunità non può sempre prendersi cura dei suoi membri più fragili, perché questo non può essere la regola? Le ha viste subito le disuguaglianze Dorothy Day e, vedendole, non era riuscita a darsi pace. Ecco, se dovessi riassumerla in una frase direi che non sia mai arresa allo status quo, non l’ha mai fatto lei, che nella sua lunga vita (morirà nel 1980 a 83 anni) è stata tante cose insieme: giornalista, attivista, convertita, anarchica, pacifista, ragazza madre e cofondatrice.
Novant’anni fa fonda con Peter Maurin, prima un giornale Catholic Worker e subito dopo il movimento omonimo, destinati a cambiare la società e la Chiesa americani attraverso picchetti, case dell’ospitalità e file per la zuppa. Mi piace sempre ricordare la cronologia di queste due fondazioni: a maggio del 1933 esce il primo numero del Catholic Worker; dopo qualche tempo qualcuno bussa alla porta (sia di casa che della redazione) e dice “Ho bisogno di un letto”; la risposta è “Non ne abbiamo”; “Come non ne avete! Non scrivete di ospitalità, scrivete di accoglienza…” E quindi in quattro e quattr’otto, velocemente, Dorothy si dà da fare e apre la prima casa di accoglienza, dell’ospitalità. Chi bussa alla porta sarà sempre la priorità del movimento: quando i soldi saranno pochi (e spesso i soldi saranno pochi) il giornale non esce, perché c’è qualcuno da sfamare; quando il tempo sarà poco (e anche qui molto spesso il tempo sarà poco perché c’è tantissimo da fare) l’articolo non viene finito. Nel corso di una intervista televisiva del 1971 con una semplicità estrema (quasi maleducata, se volete), Dorothy risponde a chi le sta chiedendo conto di tutta questa grande attività che il Catholic Worker sta svolgendo, lei risponde: “Se tuo fratello ha fame gli dai da mangiare, non lo metti alla porta, non gli dici vattene”. Noi lo facciamo tutti i giorni, come singoli e come società; lei no, lei non lo fa perché al di là dell’indigenza, al di là dell’odore, dell’aspetto di chi bussa alla porta e anche della stanchezza di chi va ad aprire, per lei quella persona è Gesù.
Ora, ripercorrere la vita di Dorothy Day è veramente fare tante cose insieme è compiere un viaggio nel ‘900, lì incontriamo tutti i grandi personaggi del secolo (Martin Luther King, Castro, Kennedy, il nostro Danilo Dolci, Giovanni XXIII), ma la sua vita è anche un viaggio nella letteratura è stata amica Eugene O’Neill, di Silone. Fin dall’infanzia legge tantissimo, perché ciò che siamo dipende molto anche da ciò che immaginiamo. La sua storia è anche un manuale di giornalismo e a mio avviso c’è una grande lezione su tutti che ci dà Dorothy Day: se l’informazione non è accessibile a tutti viene meno alla sua natura e alla sua libertà. The Catholic Worker dalla prima uscita a oggi costa un centesimo. Ovviamente le donazioni sono bene accette e tutto si regge sulle donazioni, ma il giornale costa un centesimo e se non hai quel centesimo, il giornale te lo regalano.
La sua vita è anche un saggio di teoria politica ed è un paradosso perché Dorothy Day in tutta la sua vita, volontariamente, non voterà mai perché lei rifiuta la politica come enclave lontana dai bisogni reali.
Paradosso nel paradosso, la prima volta che viene incarcerata (e verrà incarcerata spesso), sta manifestando per chiedere il voto alle donne davanti alla Casa Bianca.
La sua vita è anche una riflessione sulla differenza tra giustizia e cura, è uno studio sui molti tipi di pidocchi umani, è un poema di Vangelo incarnato, fatto anche di dolore e di incomprensioni ed è una guida alla città di New York tra il cuore inedito di Manhattan e l’acqua di Staten Island.
Dorothy nasce a Brooklyn nel 1897, è la terza figlia di cinque e il padre è un giornalista sportivo ed è un uomo detestabile: è anticattolico, misogino… c’è l’ha tutte! La madre, invece, sarà una presenza molto importante, costante nella vita della figlia. Al di là di tutte le differenze e una cosa su tutte insegna a sua figlia: le insegna ad affrontare con grande dignità le salite della vita.
L’infanzia è itinerante al seguito del lavoro del padre. A 19 anni Dorothy torna a New York, torna avendo capito che scrivere, fare la giornalista è la sua missione. Davanti a quelle ingiustizie che ha visto, davanti alle sperequazioni lei trova che la sua vocazione sia quella. Viene assunta dall’unico giornale socialista di New York che è The Call.
Inizia il periodo molto dinamico della sua vita (o caotico, fate voi), lavora, vive da sola, beve, diventa molto famosa per quanto regge l’alcol, inizia a fumare (e questo sarà un vizio, un cruccio che si porterà dietro per tutta la vita) e nel contempo, però (in questo è anche la conformazione della città di New York aiuta) quando esce dai locali notturni all’alba si sente attratta come da una calamita nella chiesetta di San Giuseppe ed è attratta soprattutto dalla religiosità che lei vede dei poveri, dei disoccupati, dei migranti e quindi si ritrova spesso ad andare in Chiesa.
Prima guerra mondiale, infuria la spagnola, scrivere non basta più e quindi per un anno è infermiera, dopodiché lascia il lavoro forse perché si è innamorata follemente. Perché dico forse? Dorothy Day ha scritto tantissimo (articoli, autobiografie, libri, diari, epistolari …e qui sia il diario che l’epistolario sono stati curati magistralmente da Eos Berger (incomprensibile minuto 21.36 video YouTube) ed è qualcosa di cui noi non lo ringrazieremo mai abbastanza). Però, nonostante Dorothy abbia scritto tanto e tanto anche di sé, ci sono diversi aspetti della sua vita sui quali, invece, tace. Quindi ricostruire la sua vita è anche cercare di mettere insieme le tessere di un puzzle.
Dicevo che forse lascia il lavoro di infermiera perché si innamora follemente. Che si innamora di Lionel Moise che è un giornalista vulcanico, dinamico (che sarà punto di riferimento di Hemingway, per intenderci) e quindi lei che è andata a vivere da sola, che ha scritto, che lavora … siccome Moise vuole che la sua donna stia in casa a fare la calzetta, effettivamente lascia tutto e sta a casa, finché scopre di essere incinta. Il fidanzato è stato chiaro: non ne vuole sapere di un matrimonio, non ne vuole sapere di figli, non ne vuole sapere di rapporti monogamici unidirezionali (cioè, da una parte si e dall’altra no), mentre invece Dorothy vorrebbe questo bambino, lo vorrebbe perché sente un desiderio di maternità, lo vorrebbe soprattutto perché è follemente innamorata di questo ragazzo, vorrebbe una famiglia con lui. Sa però con grande dolore, che l’unica opzione lei ritiene che gli si pone davanti è quella dell’aborto, all’epoca clandestino e quindi dopo tanto tormento si decide di comunicarglielo, contestualmente il fidanzato le dice che la settimana successiva sarebbe partito per il Venezuela. Si offre almeno di andarla a prendere quando uscirà da questo studio in cui le è stato praticato questo aborto volontario. Non farà nemmeno quello. Quando lei torna a casa in taxi, trova sul tavolo un biglietto che le dice: “Non farla tanto lunga, ti sei sottoposta a quello a cui le donne si sottopongono per secoli” e le augura di trovare un uomo ricco che la sposi e che la faccia felice. Effettivamente di lì a poco Dorothy si sposa, si sposa con un uomo ricco, con il quale parte starà un anno in Europa, sei mesi dei quali trascorsi sull’isola di Capri. E qui Dorothy, sposata a un uomo che non ama, scrive il romanzo, la storia d’amore dell’uomo che amava, perché il principio del chiodo scaccia chiodo non funziona tanto. Quando torna si vergognerà sempre tantissimo di questo matrimonio, riconoscerà di averlo usato, lo lascia. Il libro esce, il libro che non è nemmeno chissà quanto bello dal punto di vista letterario, ma perché ve lo racconto? Perché la vita anche delle grandi fondatrici delle vite così ricche e piene hanno degli snodi di concretezza molto importanti e i diritti cinematografici di questo libro (e il film non si farà mai ma ha un titolo avvincente per Hollywood. “The eleven virgin”, “L’undicesima vergine”) le darà una cifra, sarà un bel gruzzolo di soldi e quindi Dorothy, consigliata da un’amica, acquista una casetta sulla spiaggia di Staten Island, una baracchetta. Però qui vive un periodo molto felice, si innamora nuovamente, questa volta di Forster Batterham, un uomo che sarà molto importante nella sua vita anche perché l’avvicina alla natura. Dorothy è cittadina; eppure, quest’uomo le fa conoscere anche il rapporto con la natura, con il mare, ecc. Dorothy scopre nuovamente di essere incinta; nemmeno Batterham ne vuole saperne di matrimonio, di figli, ma da buon anarchico rispetta la libertà individuale e quindi la sua reazione è diversa e Dorothy ovviamente è cambiata e non ha nessuna intenzione di rinunciare a questa gravidanza anche se volete inaspettata (gli aborti provocati, provocavano spesso la sterilità in chi ci si sottoponeva). E quindi inizia la gioia che questa ragazza prova a 29 anni è immensa ed è una gioia lei scrive e racconta, che è talmente grande, talmente profonda che non può essere qualcosa di semplicemente umano, c’è qualcosa di più. Ed è quindi nell’enorme gioia per quella che sarà la nascita della sua prima e unica figlia, Tamara Teresa, che Dorothy si converte. Prima battezza la figlia e poi si battezza lei stessa, quindi una conversione al culmine della gioia. Se non che, battezzarsi significa rinunciare a tantissimo della sua vita. Iniziano quelli che saranno forse i cinque anni più difficili di tutta la sua esistenza. Lei dice: “Quando uscii dalla chiesa dopo aver ricevuto il sacramento, non provai nulla di quella gioia di cui parlano tanto i convertiti”. Perché? Perché essere diventata cattolica, essersi battezzata significa per lei dover rinunciare all’uomo della sua vita, perché Forster Batterham non si vuole sposare, è anarchico, non crede nei rapporti riconosciuti davanti a una autorità e nelle lettere poi che lei poi gli scriverà continuerà di fatto a implorarlo di sposarla. Alcune lettere sono quasi difficili da leggere. Tu pensi a questa ragazza, che ha fatto così tanto, ha scritto, ha fatto la cronista per le strade di New York e che lo implora di essere sposata e continua a farlo anche quando saprà che lui ha una compagna, compagna che decenni dopo Dorothy accompagnerà alla morte.
Quindi questi cinque anni sono durissimi. Primo, perché lei deve rinunciare all’amore della sua vita. Lo sa che è l’amore della sua vita, ma ci deve rinunciare perché la convivenza more uxorio lei la sente come incompatibile con la sua fede. Deve rinunciare a tutti i suoi amici perché, voi capite, che un conto è finché tu entri ogni tanto nella chiesetta (può essere un comportamento un po’ strano, peculiare), un conto – mettendoci dal lato dei suoi amici anarchici, comunisti e socialisti – ti converti nella Chiesa che questo mondo vede come la Chiesa dei ricchi e dei potenti, la Chiesa del patriarcato e c’è qualcuno che le dice “Devi andare da uno psicologo perché questa conversione è qualcosa di troppo”. Quindi, lei che invece è una donna che adora stare in mezzo agli altri si ritrova senza amici. Del resto, la conversione di Dorothy non è una conversione di una donna che ha comunque conosciuto una comunità cristiana. Lei dice: “L’unico cattolico che conoscevo era il panettiere” e certo con il panettiere non mi metto a parlare di Vangelo o di spiritualità. Quindi l’ingresso nella Chiesa Cattolica è veramente un salto nel buio. In più è una ragazza madre, non ha un lavoro fisso: quindi dei temi e delle questioni anche qua di un’attualità sconcertanti. Farà tremila lavori (addirittura l’agente immobiliare), finché dopo cinque anni torna New York e con lei e Tamara vanno a vivere il fratello più piccolo e la moglie. È un altro di quei passaggi concreti fondamentali nella vita anche dei forse futuri santi, perché Dorothy improvvisamente ha qualcuno a cui poter lasciare sua figlia e quindi torna a fare la cronista per strada come aveva fatto da giovane e va a seguire per America e —- (incomprensibili al minuto 28.44 video youtube), due importanti riviste cattoliche, la marcia per la fame, che è una marcia dei disoccupati e dei poveri, che va fino a Washington a rivendicare dignità. E mentre lei marcia accanto a questi uomini, a queste donne, disperate, lei si accorge che ci sono tutti: ci sono gli anarchici, ci sono i socialisti, ci sono i comunisti, ma non ci sono i cattolici. E qui è un grande dolore per lei. Lei dice: “Questi uomini e queste donne sono stati veramente traditi dal cristianesimo”. Prima di tornare a casa va a pregare al santuario della Immacolata Concezione della Catholic University e prega Dio di mandarle un segno: “Che cosa devo fare io della mia vita con la mia fede, con questa vocazione alla scrittura, che voglio mantenere?” Quando torna a casa trova ad aspettarla in cucina un uomo vestito male, che sembra che si lavi poco (riconoscere le risposte di Dio alle nostre preghiere non è sempre così facile) e di lì a poco il 1° maggio esce il primo numero del Catholic Worker stampato in 2500 copie. Voi pensate che in due anni le copie saranno 150.000: roba da far tremare i polsi a qualsiasi direttore di giornale anche oggi. E tre anni dopo le case dell’ospitalità sparse per gli Stati Uniti saranno addirittura 33. Quest’uomo che lei si trova davanti è Peter Maurin. Veramente due persone più diverse sarebbe stato difficile trovarle: lei ha 36 anni, lui ha vent’anni di più; lei è americana cittadina fino al midollo, lui è francese, è contadino, è un uomo totalmente privo di capacità organizzative… ma i due hanno un obiettivo comune che è quello di realizzare una pacifica rivoluzione personalista comunitaria e verde, che si articoli in tre punti: la pubblicazione di un giornale, per fare arrivare il messaggio all’uomo della strada, l’apertura di case dell’ospitalità per i bisognosi, una sorta di centri in cui praticare le opere di misericordia e comunità agricole in modo che tutti possano tornare alla terra. La vita di Dorothy Day è ricchissima di spunti con l’attualità: questo aspetto della natura e il modo con cui lei, Maurin e il Catholic Worker, lo affrontano, sembra veramente parlare al nostro oggi: vivere in equilibrio con la natura, con le leggi fisiche del mondo; la natura non è una vittima da proteggere, la natura è ciò che ci possiede, non siamo esseri umani nella natura, ma esseri viventi in mezzo ad altri esseri viventi; in questo dicorso la crescita economica non è la soluzione, la crescita economica è il problema; quello che servirebbe, piuttosto, è una crescita culturale, di qualità delle relazioni. Affrontare i grandi temi della modernità non lamentandosi o scandalizzandosi, ma offrendo un pasto, un riparo, un articolo, una preghiera, cercando una soluzione. Lei che non è assolutamente una donna piena di sé a un certo punto scrive: “Solo noi del Catholic Worker abbiamo la soluzione”. Ora, i temi della sua vita – e questo è importante credo per capire quanto sia stata complessa – sono tutti temi che lei vede molto prima della conversione. I poveri, la povertà rimarrà la prima grande emergenza. È una nozione estremamente ampia di povertà: non solo materiale, ma povertà di tipo spirituale, di tipo valoriale. La differenza, pensate, nella lotta alla povertà che è una cosa diversa dalla lotta al povero, opporsi all’idea che il povero non abbia diritto di cittadinanza, non debba essere visto, che vada colpevolizzato. L’altro grande tema è la pace. La pace per Dorothy Day è qualcosa di molto concreto: non uccidere vale sempre e comunque, non uccidere vale anche se dall’altra parte della barricata hai quello che lei definisce il Male assoluto: Adolf Hitler. Qui in questo pacifismo durante la Seconda guerra mondiale il movimento rischia veramente di spezzarsi. La pace per Dorothy Day non è soltanto non fare la guerra, la pace non è un obiettivo da raggiungere, ma è una pratica di vita. Ancora, il lavoro: il lavoro che non può essere un’occupazione, ma deve essere una vocazione, il rifiuto della segregazione razziale, la lotta all’antisemitismo, la questione delle carceri (perché le persone finiscono in carcere? Qual è la finalità della carcerazione?).
Il filo conduttore di tutta questa vita Io credo sia l’opporsi alla violenza strisciante, che attraversa la società. In Vita e Destino, Vasilij Grossman traccia una differenza tra la disperazione e, scrive Grossman: “La disperazione che ti opprime ti piomba addosso all’improvviso ti toglie il fiato e non ti fa respirare” e poi c’è n’è un’altra “che non ti toglie il fiato, non ti opprime, non ti piomba addosso di colpo, ma ti deforma dal di dentro”. Ecco è questa disperazione che goccia dopo goccia segna l’esistenza, schiaccia gli uomini e le donne, che Dorothy Day si è impegnata tutta la vita.
Qual è la risposta? Perché una risposta c’è: è la comunità, è l’essere insieme, è il vivere insieme. Come si costruisce la comunità? La comunità si costruisce innanzitutto scrivendo. La parola e il racconto sono il punto essenziale di riferimento per trovare un terreno comune, poi lavorando insieme. “Gli amici che hanno a cuore solo i loro amici rimpiccioliscono l’orizzonte dell’amicizia. Esistiamo nella relazione che ci rende responsabili l’una con l’altra”. C’è una frase meravigliosa di Dorothy Day che è “Noi è una comunità; loro è una fuga”.
Per molti versi Dorothy Day ha anticipato ha preceduto il Concilio Vaticano II, spingendo la Chiesa a riconoscere l’obiezione di coscienza, dandole contezza degli indigenti che tentano di sopravvivere nelle città, rivelandole l’esistenza dei laici, riconoscendo come temi di fede, quelli che tanti cristiani vedevano e forse vedono tutt’oggi come esclusivamente temi politici, Dorothy Day ha invece anticipato molte questioni di giustizia sociale divenute importanti per il magistero cattolico.
La storia di Dorothy però non è solo la storia di persone che perdono il senno per la fame e la disperazione, di contadini e di neri calpestati nel Paese più ricco del mondo; è anche la storia di una madre e di una figlia, ma su questo magari torno più tardi, perché so e sono consapevole che già mi sono allungata troppo. Mi avvio alla conclusione. Dorothy Day corre un grande rischio sia ad opera di chi vuole ricordarne solo l’aspetto ribelle – che pure c’è stato – sia per mano di chi intende riportarla nei ranghi della docilità. Il rischio è quello di essere banalizzata ma rendendola una figura monocorde si finisce per addomesticare una donna, che invece è veramente necessaria proprio per la sua complessità. Una delle sue frasi più citate è “Non chiamatemi santa, non voglio essere liquidata così facilmente”. L’intento di questa frase è chiarissimo e cioè quello di ridimensionare la geografia su se stessa, un atteggiamento che Dorothy ha avuto subito, non appena è diventata famosa, ma non credo sia una frase che la rappresenti perché Dorothy Day ha avuto un rispetto e una stima profondissima per i santi. I santi rimandano a quella religiosità popolare, che l’ha attratta sin da giovane, continua a vederli come rivoluzionari, come figure dinamitarde – per dirla alla Maurin – anche dopo che noi per secoli abbiamo fatto di tutto per edulcorarli e spegnerli a suon di melassa. Sicuramente, quanto al processo di canonizzazione, non avrebbe voluto essere messa su un piedistallo, era convinta che il suo lavoro lo avrebbe potuto fare chiunque. Eppure io credo che sarebbe una grande santa potrebbe veramente rivitalizzare la chiesa in un modo importantissimo. Quando Dio gli chiede dove sia Abele, Caino risponde “Sono forse io il custode di mio fratello?” Ecco, Dorothy Day ha risposto “Sì, siamo noi i custodi dei nostri fratelli”. Vi lascio con questo ritratto di David Levine per il New York Review Books del gennaio del 1971, spero che ci troverete alcuni degli elementi che ho cercato di raccontarvi su di lei, soprattutto però Levine coglie Dorothy nell’atto di salire. Ecco, veramente questa donna ha cercato di tradurre concretamente e quotidianamente il discorso della montagna, che per lei non è un bel testo poetico, non è la previsione di un mondo altro, futuro, il discorso della montagna può e deve essere qui e ora.
Magni. Grazie Giulia Galeotti. Nell’aprire il volume che ho citato all’inizio – “Ho trovato Dio attraverso i suoi poveri” – Papa Francesco nella prefazione scrive, proprio all’inizio: “La vita di Dorothy è una delle possibili conferme di quanto già papa Benedetto XVI ha sostenuto con vigore e che io stesso ho ricordato in più occasioni: “la Chiesa cresce per attrazione non per proselitismo”. Il modo in cui Dorothy Day racconta il suo pervenire alla fede cristiana attesta il fatto che non sono gli sforzi o gli stratagemmi umani ad avvicinare le persone a Dio, bensì la Grazia che scaturisce dalla carità, la bellezza che sgorga dalla testimonianza, l’amore che si fa fatti concreti”. Allora adesso chiederei a Robert Ellsberg, che ringrazio ancora di cuore e ha conosciuto Dorothy fin dalla metà degli anni ’70, che è stato testimone e collaboratore in prima persona di questa storia, che abbiamo sentito così bene raccontare e condividere adesso da Giulia Galeotti, ecco se puoi condividere con noi la tua esperienza, la tua vita dentro questa storia dell’incontro con Dorothy Day.
Ellsberg. Grazie mille. Sono estremamente onorato di essere qui oggi in questa sede straordinaria e vedo che la storia di Dorothy è stata condivisa con voi e credo sia un segno dei nostri tempi. È una persona che ha davvero letteralmente cambiato la mia vita e se non conoscete da Dorothy Day, ecco non sentitevi in colpa perché quando Papa Francesco si è espresso di fronte al congresso degli Stati Uniti nel 2015 e l’ha citata tra questi quattro grandi americani che erano al centro del suo discorso, vi garantisco che la maggior parte dei membri del congresso non aveva idea di chi stesse parlando. Anzi, qualcuno dopo si è chiesto “Ma perché ha parlato di Doris Day?” – non so se conoscete questa figura, beh un’attrice molto famosa per una commedia romantica degli anni 50 insieme a Rock Hudson – e coloro che la conoscevano sapevano che non solo è stata una grande americana, ma soprattutto è stata chiamata anche comunista, sovversiva, addirittura eretica, sicuramente una persona che non si sarebbe mai pensato sarebbe stata citata di fronte al congresso. Io stesso ero di fronte al televisore sentendo Papa Francesco citarla, ebbene il papa disse “Non posso non citare la serva di Dio Dorothy Day, che ha fondato il movimento dei Lavoratori cattolici e sottolineò il suo attivismo sociale, la sua passione per la giustizia e per la causa degli oppressi, che sono stati ispirati dal vangelo dalla sua fede e dall’esempio dei santi. Riferendosi a Dorothy Day come a una serva di Dio, il Papa ha riconosciuto il fatto che la sua causa di canonizzazione è attualmente in corso. Naturalmente se alla fine verrà beatificata, diventerà Santa Dorotea e sarà una santa con una storia insolita, avrà rinunciato al cristianesimo in gioventù e trascorso i suoi primi anni come giornalista e attivista per cause radicali. Tra i santi canonizzati sarebbe probabilmente l’unica ad essere stata arrestata, come avvenne nella prima occasione per aver fatto un picchetto a favore del suffragio delle donne. I suoi amici erano anarchici, comunisti, artisti e scrittori di sinistra. In seguito a una relazione amorosa infelice poi abortì e pare abbia tentato due volte il suicidio. Niente di tutto questo è tipico delle vite dei santi. Eppure, in Dorothy Day c’è sempre stato un certo desiderio di trascendenza, come un personaggio di Dostoevskij osservò: “Per tutta la vita sono stata perseguitata da Dio”. E tuttavia anche le circostanze della sua conversione furono insolite. Anzi, direi che furono uniche negli annali dei santi: fu spinta dall’esperienza della gravidanza e dalla nascita della figlia, avete sentito appunto, che tutto questo avvenne mentre viveva a Staten Island con un uomo che amava profondamente e dopo anni di lotte e di infelicità l’esperienza dell’amore e di quella che lei chiamava felicità naturale, le fecero pensare alla possibilità di una felicità più grande da ottenere nella vita. Quando rimase incinta si trovò a desiderare che il suo bambino fosse battezzato nella Chiesa Cattolica e un passo che avrebbe compiuto anche se ciò significava una straziante separazione dal suo compagno. Lui è un anarchico, non voleva avere nulla a che fare con il matrimonio, lei stessa disse che arrivò al punto in cui si capì che doveva scegliere tra Dio e l’uomo. Lei fece la sua scelta, ma questa scelta fu compiuta pagandola, come dice lei stessa, con il sangue della sua vita. Oltre alla perdita del suo compagno subì un’altra perdita: la sua conversione era stata anche un doloroso tradimento della classe operaia. Credeva che la chiesa Cattolica fosse la chiesa dei poveri, ma ai suoi amici radicali – e purtroppo anche a lei – la Chiesa sembrava più essere un’amica dei ricchi, un bastione a difesa dello status quo. Dorothy non sapeva nulla di insegnamento sociale cattolico, un termine che difficilmente avrebbe sentito in un tipico sermone domenicale, non sapeva come conciliare la sua fede, la sua fedeltà alla causa degli oppressi, ma dopo il battesimo nel 1927 trascorse cinque anni successivi in una sorta di deserto pregando di trovare un modo per conciliare queste due metà della sua anima. I semi di questo dilemma risalgono a molto prima: già da giovane Dorothy aveva riconosciuto la necessità di un nuovo tipo di santo. Nelle sue memorie descrive i primi incontri infantili con le vite dei santi ricordando come il suo cuore fosse scosso dalle storie della loro carità verso i malati, i mutilati, i lebbrosi. Ma c’è un’altra domanda nella sua mente: perché si è fatto tanto per rimediare al male invece di evitarlo subito? Dov’erano i santi che cercavano di cambiare l’ordine sociale, non solo per assistere gli schiavi, ma per eliminare la schiavitù? Fu così che la vocazione di Dorothy prese forma attraverso questa sfida, la sua conversione al cattolicesimo e il suo lavoro di fondazione del movimento dei Lavoratori cattolici sarebbero avvenuti molti anni dopo, ma la grande missione di fondo della sua vita fu quella di unire la pratica della carità alla lotta per la giustizia e la pace e anzi lei inventò un modello di santità, che prima non esisteva. Grazie a Dorothy le future generazioni di cristiani non dovranno più porsi la domanda che si era posta lei: “Dove sono i santi per ciò che cercano di cambiare l’ordine sociale?” Ebbene lei rispose a questa domanda con la sua stessa vita.
Errore. Il segnalibro non è definito.Non voglio ricordare tutta la sua storia anche della preghiera a Washington che è stata citata prima. Lei ha pregato per la sua vocazione per trovare un modo per unire il suo impegno per la giustizia sociale alla sua fede e poi tornò a New York. Aveva cercato una sintesi, un modo proprio per esprimere anche gli insegnamenti radicali del vangelo e trovò questo modo proprio attraverso l’incontro con Peter Maurin e il suo contributo fu proprio quello quasi nel darle il permesso di creare il proprio movimento. Attingendo la vita dei santi dimostrò che non era necessario aspettare che qualcuno autorizzasse o sponsorizzasse la via del discepolato. I santi avevano iniziato immediatamente con qualsiasi mezzo a loro disposizione. Se Dio benediceva la loro impresa i mezzi sarebbero arrivati. E così Dorothy lanciò il primo maggio nel 1933 il suo giornale, proprio esattamente 90 anni fa. E anziché limitarsi a scuotere le coscienze sulle ingiustizie sociali, gli articoli del suo giornale, il Catholic Worker, descrivono come sarebbe stata la società se fosse stata basata su valori come la solidarietà, la comunità, l’amicizia, la dignità umana, invece che sull’egoismo e l’avidità. Dorothy credeva che non fosse sufficiente scrivere di queste idee, bisognava viverle e questo portò alla creazione delle case di ospitalità per la pratica delle opere di misericordia. Dorothy trascorse il resto della sua vita in queste comunità. Contemporaneamente credeva che non fosse sufficiente prendersi cura dei poveri, era necessario anche sfidare protestare e resistere alle strutture che causavano questa povertà e il bisogno di carità. Molte persone rimasero confuse dalla sua capacità di integrare uno stile tradizionale di pietà cattolica con uno stile radicale di impegno sociale. Ma ai suoi occhi non c’era alcun paradosso: la sintesi che aveva cercato si trovava nella dottrina centrale della sua fede cioè l’incarnazione. La sua successiva missione fu radicata nelle implicazioni sociali radicali di questa dottrina: il fatto che Dio fosse entrato nella nostra umanità e nella nostra storia, in modo che tutta la creazione fosse santificati che qualsiasi cosa facessimo per il nostro prossimo la facessimo direttamente per Lui. Questo era l’insegnamento fondamentale di Gesù: ho avuto fame mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; se avete fatto queste cose al più piccolo dei miei fratelli, le avete fatte a me. Ma lei interpreta tutto questo in modo ancora più radicale: quindi se Cristo era presente a noi sotto le spoglie del nostro prossimo e se la nostra salvezza dipendeva dal fatto che lo sfamassimo o meno quando aveva fame allora sicuramente non dovevamo ucciderlo il nostro prossimo. E lei, quindi, portò avanti questo impegno per la non violenza per tutta la sua vita e molte persone la consideravano pazza. Negli anni ‘50 durante la guerra fredda fu arrestata più volte per aver rifiutato di cooperare anche rispetto alle esercitazioni obbligatorie (lei le chiamava delle prove per il giorno del giudizio) e molti leader cattolici pensavano, che questo fosse un gesto insensato. Ma lei pensava che la preparazione in vista di una guerra nucleare fosse qualcosa di assolutamente insensato e blasfemo. Credeva nel potere dei piccoli gesti e trasse grandi spiegazioni da Teresa di Lisieux, la sua santa preferita, questa suora carmelitana che morì all’età di 24 anni in un piccolo convento in Normandia. Teresa chiamava il suo cammino spirituale la piccola via e consisteva nel compiere piccole azioni quotidiane in uno spirito di amore di presenza di Dio. In questo modo credeva che la vita quotidiana con le sue continue opportunità di esercitare la pazienza, il perdono e la compassione poteva diventare una via verso la santità. Non era necessario essere in un convento, la vita stessa forniva i mezzi per la santificazione e credeva anche nelle connessioni spirituali che legano tutti i membri del corpo mistico di Cristo, così ogni sacrificio sopportato nell’amore, ogni opera di misericordia può aumentare l’equilibrio dell’amore nel mondo. Dorothy credeva che Santa Teresa fosse una grande santa non solo per la sua epoca, ma una santa con un messaggio adatto anche ai nostri tempi e apprezzava proprio gli insegnamenti di Santa Teresa, i suoi aspetti sociali, le implicazioni sociali, il significato di tutte le piccole cose che facciamo e che non facciamo. Nel Vangelo questo è rappresentato dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Credo che proprio l’applicazione di questa piccola via di Santa Teresa sia proprio uno dei segni più distintivi della sua testimonianza della sua vita. Ebbene, come lei stessa riassunto una delle sue frasi più citate la più grande sfida di oggi è questa: “Come realizzare una rivoluzione del cuore, una rivoluzione che ha inizio in ciascuno di noi?”.
Avevo 19 anni quando arrivai per la prima volta al Catholic Worker. Nel 1975 Dorothy aveva 77 anni. La prima cosa che mi colpì fu il suo interesse verso di me e i giovani e la sua capacità di riconoscere e incoraggiare i nostri doni, i nostri talenti e le nostre possibilità. Dopo pochi mesi al giornale mi chiese di diventarne redattore capo, un compito per il quale non avevo nessuna qualifica evidente. Ma appunto in questo modo mi ha indirizzato verso la vocazione della mia vita. Attraverso i suoi scritti, su cui ho lavorato, sono riuscito a conoscere meglio la sua spiritualità e a capire anche come veniva espressa nella vita quotidiana, negli incontri della vita quotidiana ho intitolati sui diari “The duty of the light” (“il dovere della gioia”) una frase che lei invocava spesso era un invito a cercare la presenza di Dio in tutte le cose. Lei appunto riteneva che la gioia come l’amore fosse una questione di disciplina, una questione di volontà. Una cosa è provare piacere quando le cose sono piacevoli o amare qualcuno che è amabile, ma il cuore del vangelo consiste nell’aggiungere amore anche laddove non ce n’è, amare la persona accanto a noi anche se quella persona è sgradevole. Questo non significa che per lei questo compito fosse più facile, ma è stato l’esercizio della carità in queste piccole azioni quotidiane, che l’ha preparata per le azioni straordinarie ed eroiche che ha compiuto successivamente. Dorothy aveva un grande occhio per la bellezza e amava citare Dostoevskij (“il mondo sarà salvato dalla bellezza”) e questo non significava solo dalle cose belle che fossero fiori o tramonti; significava guardare oltre la superficie delle cose, nella loro dimensione ultima e permettere ai nostri cuori di essere commossi e nobilitati da quella verità più profonda, significava andare oltre il senso meramente estetico della bellezza, per arrivare alla forza irresistibile della bontà incarnata dai santi e da coloro che si sono sacrificati al servizio degli altri o della causa della giustizia. E voglio citare un’altra cosa forse sorprendente per qualcuno, perché lei, vedete, delle foto ha sempre un’espressione seria. In realtà aveva un grandissimo senso dell’umorismo, una persona molto divertente, aveva una risata cristallina da ragazza. Quando si stava con Dorothy si provava il desiderio di essere una persona migliore, si sapeva che si poteva esserlo e che diventarlo sarebbe stato una grande avventura. E penso che probabilmente sia questo il modo in cui la gente ha risposto anche a San Francesco a molti altri santi. E come Giulia ha detto, a lei non piaceva sentir parlare di santità, non voleva essere messa su un piedistallo, non voleva essere chiamata santa, ma diceva, appunto, significa forse che se ti chiamano santa non puoi essere presa sul serio Ebbene tuttavia lungi dall’essere cinica nei confronti dei santi, Dorothy credeva che tutti i cristiani fossero chiamati a essere santi.
Nel suo discorso di fronte al Congresso, Papa Francesco ha parlato di questi quattro grandi americani in termini che potrebbero essere applicati anche alla nostra comprensione dei santi, ha detto che queste figure ci aiutano a vedere e interpretare la realtà in modo nuovo. In realtà, il fatto che Papa Francesco abbia evidenziato la figura di Dorothy Day non è stato così sorprendente. E’ difficile pensare a qualsiasi altro cattolico di epoca recente che abbia incarnato così pienamente la visione e la sua visione evangelica con la sua enfasi sulla misericordia, il suo desiderio di una chiesa povera per i poveri, la sua sfida alla cultura dell’indifferenza e la condanna di un’economia di mercato che uccide, la sua chiamata a toccare le ferite di Cristo in coloro che vivono ai margini nelle periferie, il suo profondo impegno per la pace, per la cura per il creato, i suoi insegnamenti sull’amicizia sociale e la solidarietà, nonché la sua strategia per il cambiamento, con attenzione verso il compito lento e paziente di piantare i semi. Dorothy ha sempre riportato queste spiegazioni a un livello personale di base, aveva scelto di concludere la sua autobiografia con questa frase: “Tutti noi abbiamo conosciuto una lunga solitudine e abbiamo imparato che l’unica soluzione è l’amore e che l’amore viene con la comunità, è successo tutto mentre eravamo seduti a parlare e sta ancora continuando”. Grazie.
Magni. Grazie Robert. E proseguiamo questo incontro. Con Dorothy sono emerse delle parole importanti: comunità, questa amicizia sociale che attraversa la carità, la giustizia, la pace è una dinamica dell’amore che arriva fino a un’attualizzazione delle tradizionali opere di misericordia, potremmo dire, un po’ sulla scia di quello che dice la lettera di San Giacomo: come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta: Però in questa fede che diventa opere, costruzione sociale è un continuo immischiarsi nelle vicende del mondo a partire dai più poveri e dagli emarginati. Allora vorrei chiedere a Simona Beretta di aiutarci come illumina il nostro presente quanto abbiamo già ascoltato oggi che è di una ricchezza incredibile e che cosa ci può sostenere incoraggiare la testimonianza che abbiamo ascoltato in questo pomeriggio. Grazie.
Beretta. Innanzitutto, grazie a Giulia e Robert, perché ci hanno messo davanti agli occhi una storia, una narrazione concreta che dura, che dura nel tempo che non si è esaurita nella genialità di una persona, ma che la genialità di questa persona ha contribuito a tenere viva. Dorothy, nella mia esperienza personale, è stato un nome sentito pronunciare con ammirazione nella mia infanzia – non mi ricordo da chi, presumibilmente da un mio zio sacerdote che in quel periodo era un prete novello – e che poi mi è stato ripetuto con un’autorevolezza, che io percepito vitale per me quando appena incontrato il movimento di CL – GS, insomma quello che era – stavo facendo le superiori e dovevo partire per gli Stati Uniti. Nel 1971 qualche amico più grande mi ha portato alla Jaca Book e ho avuto una conversazione che mi ha segnato. Mi hanno detto: “Due cose devi fare intanto che sei via, in un momento in cui non avrai la comunità che ti accudisce: tutti i giorni fare la memoria della fede nella liturgia e cerca di incontrare quelli del Catholic Movement”. La prima cosa l’ho fatta; la seconda, forse, non ci ho provato con sufficiente insistenza, non sono riuscita a combinare nulla, ma mi è rimasta questa affezione a questa persona così particolare, così capace di coniugare due pulsioni forti, che avevo nel cuore: la certezza della fede e la consapevolezza che questa fede non poteva che spingere a una presenza sociale, capace di trasformare, di rivoluzionare la realtà. E così ho leggiucchiato ogni tanto, senza tanta convinzione magari un po’ nei ritagli di tempo finché nel 2016 ho incontrato finalmente una piccola comunità dei Catholic workers a South Band, in una casa bella, ma decisamente giù di vernice, dove viveva in un certo numero di uomini, dove c’era un orto dietro nel giardino posteriore, dove c’erano delle cipolle che stavano crescendo. Insomma, la rappresentazione concreta di un’accoglienza, di un’ospitalità, che si faceva condivisione. La povertà volontaria e la capacità di condivisione e di trasformazione. Quando poi mi è stato avanzato questo invito di venire al Meeting mi sono messa a leggere Dorothy Day sul serio e, devo essere sincera, non sono più stata capace di scollarmela di dosso. È una persona che è capace di trasformare la vita di chi la incontra e per questo nella relazione, piccola relazione che faccio, vorrei dare qualche testimonianza di lei direttamente. Innanzitutto, perché Dorothy Day è capace oggi di dare ragione della bellezza, del significato e del valore di risorsa trasformativa fondamentale della dottrina sociale della Chiesa. So che la parola dottrina fa venire un po’ l’orticaria però dobbiamo dirla come diciamo “pensiero”, che non fa venire l’orticaria, come diciamo “discorso”, che non fa venire l’orticaria. Questa dottrina sociale della Chiesa è il punto su cui lei, Dorothy e Peter Maurin, col quale aveva in comune poco o niente, come è stato presentato prima, si sono incontrati e hanno costruito. Vi leggo un pezzetto del primo numero del The Catholic Worker: “Maggio 1933. Per chi è questo giornale, questo piccolo giornale? Per quelli che ritengono che non ci sia speranza per il loro futuro, per i disoccupati della grande depressione seguita alla crisi del 1929, per quelli che pensano che non ci sia riconoscimento delle loro sofferenze, a loro questo piccolo giornale è rivolto. E’ stampato per attirare la loro attenzione sul fatto che la Chiesa Cattolica ha un programma sociale per far loro sapere, che ci sono uomini di Dio, che sono all’azione non solo per la loro salute spirituale, ma anche per il loro benessere materiale. Era ora che ci fosse un giornale cattolico per i disoccupati”. Nel tentativo di diffondere e far conoscere le encicliche dei Papi riguardo alla giustizia sociale e i programmi che la Chiesa mette in piedi per la ricostruzione dell’ordine sociale, questo nuovo foglio questo nuovo giornale, The Catholic Worker, comincia. Quindi è nel Dna del movimento che è fatto di un giornale, le case di accoglienza, anche dei tentativi di università agronomiche, una storia affascinante, che cattura come un romanzo, è nel Dna di questa vicenda la dottrina sociale della Chiesa. In che senso oggi Dorothy Day incarna la dottrina sociale della Chiesa? Perché, così come la dottrina sociale della Chiesa dice di se stessa, la dottrina sociale della Chiesa – parole di Giovanni Paolo II Centesimus Annus 3 – “è una tradizione in cui si incorpora l’azione della gente”, delle cose che incorporando sia la tradizione – qui leggo letteralmente – “diventano antiche e offrono occasione materiale per il suo arricchimento e l’arricchimento della vita di fede, fa parte anche l’operosità feconda di milioni e milioni di uomini, che stimolati dal magistero sociale, si sono sforzati di ispirarsi ad esso in ordine proprio impegno nel mondo, agendo individualmente o variamente coordinati in gruppi, associazioni, organizzazioni essi hanno costituito come un grande movimento per la difesa della persona umana e la tutela della sua dignità, il che nelle alterne vicende della storia ha contribuito a costruire una società più giusta o almeno, a porre argini e limiti all’ingiustizia”. Come la Chiesa è un popolo sui generis, così la dottrina sociale della Chiesa è una dottrina sui generis, non è un sistema di idee, ma è “la riflessione critica e sistematica su un’esperienza di azione di opera, sulla risposta di ciascuno, individuale o associata, alle provocazioni normali della vita, della vita sociale, della vita personale”, perché anche la vita personale ha sempre una dimensione sociale. Ecco in questo grande movimento per la difesa della persona umana, in questo dinamismo che è la dottrina sociale della Chiesa, non parole cristallizzate, ma un fiume un movimento, il popolo incrementa la dottrina sociale e la dottrina sociale illumina e accompagna il popolo. E’ un movimento, una danza, dove può succedere anche che si inciampi e si cada, ma è un giro un girotondo che dà gioia, pienezza, gusto della vita, il dovere della gioia – ci ricordava Robert -che non è euforia del momento, ma passione per l’umano che dura nel tempo e che si dilata nello spazio, una passione che lungo il cammino cresce. Leggere, per esempio gli ultimi anni della vita di Dorothy, in cui le forze sovrumane che l’hanno portata a viaggiare in autobus in lungo e in largo, a visitare le case, a scrivere, a preparare le zuppe e così via. Questo vigore fisico è diventato un vigore e una capacità di letizia, che solo leggendo Dorothy Day si capisce. Vi suggerisco di provare per credere. Il desiderio di giustizia e di una vita dignitosa per tutti di fronte alla disoccupazione e allo stato di deprivazione di tanti negli anni della grande depressione, non è un problema finito. Semmai è un problema che ha cambiato forma, ma la povertà, la deprivazione e le ineguaglianze oggi sono ancora – non so dire se più o meno – ma sono ancora tremende. Come è stato il metodo di Dorothy Day: contro la deprivazione non l’auspicio di un’organizzazione pubblica o privata che intervenga (solidarietà assistenzialista o filantropica), ma rendendo i poveri protagonisti. Credo che questo sia un punto di metodo, che dobbiamo tenere presente, perché non c’è un’altra soluzione. L’ha ricordato anche Papa Francesco al suo discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite nel 2015. Il punto fondamentale per lo sviluppo sostenibile, il punto fondamentale è che i popoli diventino agenti pieni di dignità del loro stesso sviluppo e questo porta alla centralità del lavoro. E la centralità del lavoro ci riporta il titolo del giornale: The Catholic worker. Il lavoro è il centro e in questo certamente Dorothy Day è stata anticipatrice di tanti dinamismi. Giovanni Paolo II dirà che il lavoro è la chiave della questione sociale e quando si legge Dorothy Day, sul lavoro, per esempio in quello che scrive nel Catholic Worker del giugno 1939, vediamo che non si sta parlando solo di condizioni materiali, ma si sta realmente parlando di quella che Giovanni Paolo II nella Laborem Exercens 1981 chiamerà “dimensione soggettiva del lavoro”. Scrive Dorothy Day: “Non solo stiamo ponendo con urgenza la necessità di un’organizzazione sindacale per tutti i lavoratori, ma stiamo soprattutto sottolineando, ripetutamente, la dignità del lavoro, la dignità della persona, creatura composta di corpo e anima, fatta a immagine e somiglianza di Dio, tempio dello Spirito Santo” – queste cose scritte su un giornale radicale – “E’ su questa base che lottiamo per eliminare il lavoro routinario nelle fabbriche, è su questa base, che auspichiamo la deproletarizzazione dei lavoratori, muovendosi verso una condivisione, una partecipazione nella ownership dei lavoratori, nella loro responsabilità nel lavoro. Non è, lo ripetiamo, una questione di salari e di ore di lavoro, ma di appropriazione da parte dell’uomo della sua esperienza al lavoro”. Assolutamente ventunesimo secolo, non so se mi spiego. Sempre per rimanere sul tema del lavoro, volevo fare un altro piccolo esempio sempre citando Dorothy Day. Una delle grandi questioni su cui il Catholic Worker si è impegnato ha riguardato una particolarissima controversia sindacale, che riguardava i lavoratori, i becchini del Calvary Cemetery, di un cimitero di New York, perché la convinzione di Dorothy Day che la dottrina sociale della Chiesa fosse per tutti era totale, era certa, per cui la dottrina sociale della Chiesa veniva spiegata su un giornale rivolto disoccupati, un giornale radicale rivolto ai disoccupati, quando c’è stato lo sciopero dei marittimi 1936, il Catholic Movement ha affittato uno spazio dove gli scioperanti potessero andare per ristoro e tutta felice scrive, dice: “Dobbiamo comprare altre 100 encicliche, perché sono sparite tutte quelle che avevamo messo lì”. Cioè questa parola era per i poveri, la dottrina sociale era per i poveri, ma era anche per i principi della Chiesa perché la controversia sindacale del cimitero riguardava il cardinale di New York del momento, al quale – e anche questa è una testimonianza viva di cosa significa amare la Chiesa amare la chiesa fino in fondo – Dorothy Day scrive e scrive rivolgendosi al cardinale dicendogli: “Cardinale, ho visto i rapporti che descrivono come lei abbia coinvolto i seminaristi a scavare le fosse in modo da rendere vano lo sciopero degli scioperanti e lei sa benissimo che noi stiamo sostenendo gli scioperanti. Ma io scrivo a lei, perché questo piccolo sciopero è tremendamente significativo. Invece che fare in modo che la gente possa dire ‘Guarda come si amano l’un l’altro e quanto è bello e quanto è soave che i fratelli vivano insieme’ offriamo uno spettacolo per cui noi siamo di oggetto di scherno da parte dei nostri vicini, oggetto di derisione. Non è una questione di salari e di ore è una questione di dignità di questi lavoratori e della possibilità che loro manifestino le loro richieste il loro risentimento, la loro amarezza. Chiedono un salario come quello di cui parlano i Pontefici nelle loro encicliche, un salario che permette ai lavoratori di educare i loro figli, di risparmiare, di potersi comperare una casa, di potere educare i loro figli. Lei è un principe della Chiesa, un uomo grande agli occhi di questi piccoli poveri, che sono lavoratori abituati al duro lavoro con le mani dure e con la testa dura, pieni di risentimento vogliono solo parlare con lei. La prego con tutto il mio cuore, vada da loro, come un padre dai suoi figli”.
Non è un messaggio delicato, ma un messaggio pieno di desiderio che la Chiesa sia quello che deve essere: uno spazio dove ci si ama gli uni gli altri, uno spazio dove si possa vivere come fratelli. Credo che questo sia un grande insegnamento che Dorothy Day ci lascia, uno fra i tantissimi.
Forse vedete, che mi sono lasciata prendere certamente da questa vicenda. Invito tutti quelli che hanno voglia di leggere una storia affascinante e appassionante, di imparare qualcosa dalla storia e dagli scritti di Dorothy Day, ricordando che la dottrina sociale della Chiesa è questo girotondo in cui il popolo alimenta la dottrina e la dottrina aiuta il popolo. In questa circolarità quello che emerge è una passione per l’umano senza sconti, una passione per la libertà senza sconti, una possibilità per tutti noi di essere protagonisti di questo lavoro, di fare in modo che, se non riusciamo a eliminare tutte le ingiustizie, almeno si ponga un argine ad esse. Grazie.
Magni. Nel concludere questo incontro io desidero ringraziare Giulia, Robert, Simona perché penso che abbiamo avuto la l’occasione di vedere sotto i nostri occhi questa possibilità che, anche nel 2023, nel nostro mondo occidentale, è possibile ancora vivere per un ideale, come ci ha testimoniato attraverso le vostre parole, la testimonianza di Dorothy Day questa sera. Vivere per un ideale che vuol dire piangere e amare. Nella vita di Dorothy è stato entrambe le cose: gioire e soffrire, sognare e lottare per costruire qualcosa di buono per sé e per gli altri a partire dai più poveri e dagli emarginati. E si vede così accadere questa amicizia sociale, che è uno spettacolo. Cito l’ultima frase dalla prefazione di Papa Francesco del volume più volte richiamato, dove a un certo punto il papa scrive: “Il Signore brama fuori inquieti, non anime borghesi che si accontentano dell’esistente. Dio non toglie niente all’uomo e alla donna di ogni tempo, dà soltanto il centuplo”. Penso che questo pomeriggio, grazie ai nostri relatori abbiamo avuto un assaggio, un tentativo, una possibilità che ciascuno di noi può continuare a percorrere in tanti modi che sono stati anche suggeriti. E un tentativo di questa amicizia sociale lo abbiamo davanti agli occhi, è un tentativo che è quello del Meeting che nasce con questo scopo e con questa possibilità, una possibilità di incontro e di approfondimento e di amicizia tra i popoli e tra dentro la società. Ciascuno di noi può contribuire e il modo più semplice e più immediato è anche aiutare il Meeting a continuare ad esistere attraverso le postazioni del Dona ora che trovate disseminate in fiera. Io vi ringrazio per la vostra attenzione, ringrazio tutti gli ospiti. Vi auguro buona serata e buon Meeting a tutti.