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AMERICA LATINA: L’IO RINASCE IN UN INCONTRO
Partecipano: Amparito Espinoza, Educatrice a Quito (Ecuador); S. Ecc. Mons. Filippo Santoro, Vescovo di Petrópolis (Brasile). Introduce Stefania Famlonga, Responsabile AVSI in Ecuador.
Il testo dell’intervento di Amparito Espinoza è pubblicato nel libro “La conoscenza è sempre un avvenimento”, edizioni Mondadori Università.
STEFANIA FAMLONGA:
Buongiorno a tutti. Diamo inizio all’incontro “America Latina: l’io rinasce in un incontro”. Recentemente don Julián Carrón ci ha ricordato che lo scopo di tutto quello che facciamo e il contributo più grande che possiamo dare alla Chiesa e al mondo, è l’incremento dell’io, della nostra persona. Ieri, nell’incontro che è avvenuto in questa sala con Cleuza e Marcos, ci è stato ripetuto che il nucleo dello sviluppo è l’io, l’io che rinasce e scopre se stesso in un incontro. E tutto quest’anno l’abbiamo imparato. Un incontro, con una umanità differente, che corrisponde al cuore e cambia la vita, destando la voglia di vivere e di camminare. Don Giussani, nell’ultimo testo de L’Equipe, “QUI E ORA”, commentando l’incontro di Gesù con Zaccheo, disse: “Quell’uomo, che si è fermato sotto la pianta dove lui si era appollaiato e che l’ha guardato, fino a penetrarne il fondo dell’essere, è stato per Zaccheo la presenza che gli ha fatto intravedere una novità su se stesso, una novità come promessa. Per Zaccheo quell’uomo era diventato l’orizzonte di tutto, perciò tutto quello che pensava, che giudicava, era espressione in funzione di quell’orizzonte”. Questa mattina, ascolteremo la testimonianza di due uomini, un uomo e una donna, presi e mossi da Cristo, esattamente come Zaccheo, duemila anni fa. Due testimoni e allo stesso tempo protagonisti, insieme a molti altri, di quel vento di vita nuova e di quella nuova febbre di vita, che da alcuni anni si fa sentire nella storia del nostro movimento in America Latina. Iniziamo con Ampare Espinoza, Amparito, per tanti di noi. Amparito lavora dal 2004 come educatrice in un progetto di AVSI a Quito, in Equador. Ho conosciuto Amparito in un momento difficile della mia vita. Ero senza lavoro e mi trovavo in Equador. Eravamo partiti in tre nel 2003 per rispondere a una richiesta fattaci dalla Conferenza Episcopale Equatoriana, quella di assumere degli incarichi in un progetto educativo di carattere nazionale. Questo progetto, dopo pochi mesi che eravamo lì, per motivi politici, si è bloccato e quindi siamo rimasti senza lavoro. Con i responsabili di Avsi decidemmo di iniziare il sostegno a distanza, che in Equador già c’era, perché da diversi anni Avsi sosteneva l’attività educativa di don Dario Maggi, attualmente Vescovo ausiliario di Guayaquil. Decidemmo di iniziare a Quito, e a Quito iniziammo da zero, non c’era nulla, e quindi avevo bisogno di una persona con cui lavorare e delle suore italiane che lavoravano lì da diversi anni mi presentarono Amparito e non avevamo niente all’inizio, perché non c’era un ufficio, non c’era niente. Per cui ci trovavamo la mattina, sul marciapiede vicino a casa sua, per dividerci i bambini, perché bisognava andare a visitare tutti i bambini, conoscerli, visitare le loro case, le loro storie, le loro famiglie, e all’inizio erano trecento, per cui in quattro o cinque mesi insieme abbiamo visitato tutti questi bambini e conosciuto le loro storie. Così, incontrandoci al mattino, sul marciapiede, e ritrovandoci nel pomeriggio, raccontandoci quello che avevamo trovato, quello che avevamo incontrato… E quindi è con profonda commozione e gratitudine che questa mattina ho accettato di introdurla. Commozione per tutto ciò che ho visto crescere in lei e intorno a lei in questi anni, qualcosa di grande e molto al di là delle mie aspettative e della somma dei tentativi fatti, e questo lo dico con tutto il cuore. Si può vivere per molti anni facendo questo lavoro, il lavoro che faccio, come pensando che tutto si risolva in un dare o in un fare, e invece è tutt’altra cosa: fermarsi e stare a guardare, e sorprendersi e commuoversi per ciò che Dio, attraverso e in mezzo alle nostre povere vite, opera ogni giorno. Gratitudine anche per tutti gli amici che da lontano sostengono l’opera che svolgiamo in Equador. Mi riferisco, in particolare, ai sostenitori a distanza, sicuramente presenti, alcuni di loro, qui in sala e a tutti gli amici che, ogni anno, si impegnano per la Campagna Tende. Quindi, do la parola ad Amparito. Prima vedremo un video di cinque minuti che fa capire un po’ il contesto in cui siamo, e quindi farà capire di più il valore della sua testimonianza.
Video
AMPARITO ESPINOZA:
Buon giorno. Per me è abbastanza difficile parlare davanti a tanta gente. Ho sempre preferito stare dietro, che le persone non si accorgessero di me, ma adesso il Signore mi ha portato qui e sia fatta la Sua volontà. Mi chiamo Amparito Espinoza. Ho trentanove anni, vivo a Quito, Equador, in un quartiere urbano, marginale, proprio nell’estrema periferia della città di Quito: Pisullì, questo è il suo nome. E’ un quartiere da cui, praticamente, me ne sono andata a ventisei anni. Questo quartiere era stato invaso da delle persone che stavano cercando dove vivere, cioè stavano cercando un luogo dove uno potesse sentire di avere una sua casa. In questo modo, mia nonna e molte altre persone hanno occupato questo quartiere. La mia infanzia è stata abbastanza felice, perché la persona che mi ha educato alla fede e che è stata al mio fianco sin dalla mia nascita è stata mia nonna. Mi ha sempre dato la sua compagnia, mi ha sempre dato il suo affetto, perché mia madre, quando mi ha dato alla luce, era molto giovane e non poteva accudirmi. Ad otto anni ho dovuto cominciar a lavorare, per potere aiutare in casa, come una sorta di bambinaia, accudendo, occupandomi di bambini. Ho sempre avuto il suo sostegno, il suo affetto. Mia nonna mi accompagnava, era sempre presente al mio fianco. L’amore era sempre presente, anche se il pane a volte mancava; ma l’amore c’era, sempre. Quando ho compiuto sedici anni, mia madre ha abbandonato le mie sorelline, le minori, e io ho dovuto occuparmi di loro. Ho dovuto andare a vivere con loro, come se loro fossero le mie figlie. Mia sorella di tredici anni ha cominciato anch’essa a lavorare, lasciando quindi la scuola. La più piccola era in un asilo. Poco dopo, dopo un anno circa, il marito di mia madre è ritornato a casa e ci ha distrutto la casa e quindi siamo state obbligare ad andarcene, ma la persona che non mi ha mai abbandonato, la persona che sempre mi ha dato il suo amore, era lì ed era mia nonna. Ci ha di nuovo prese a casa sua, dandoci l’affetto, tutte le attenzioni di cui avevamo bisogno in quel momento. Quando poi ho compiuto diciannove anni, mi sono innamorata. Ho conosciuto una persona con cui io credevo che avrei potuto raggiungere la felicità, credevo che fossimo fatti l’una per l’altro, ma non era così. Sono rimasta incinta della mia prima figlia, il cui nome era Stefania. Quando aveva un anno e quattro mesi, è morta. Una morte improvvisa. Io non volevo più vivere. Per me era piuttosto difficile capire come Dio potesse togliermi la mia prima figlia. Volevo morire, non volevo alzarmi dal letto. Perché vivere? Non di meno, mio marito insisteva, veniva sempre a vedermi, veniva via dal lavoro. Non capivo perché insistesse: io non volevo vivere. Dopo quattro mesi dal decesso di Stefania, sono rimasta incinta della mia seconda figlia, Amanda, che ha quasi sedici anni.
Durante la gravidanza, mio marito, quando ero incinta di sette mesi, se ne è andato e si è sposato con un’altra. Il dolore di nuovo mi ha colpito, ero in balia del dolore, ma questa volta non volevo che avesse il sopravvento, perché avevo una vita. Avevo una vita che non mi apparteneva. Quando Amanda è nata, l’allegria è ritornata. Avevo visto che il Signore mi aveva dato una seconda possibilità per essere madre, e così ho cominciato a lavorare. Non la lasciavo da sola, la portavo con me sul posto di lavoro. Quando Amanda aveva due anni, lui è ritornato a casa, io lo amavo e ho accettato che ritornasse a casa. Quando Amanda aveva cinque anni, sono rimasta di nuovo incinta e, all’ottavo mese di gravidanza, lui se ne è andato, e questa volta per sempre. Che cosa avrei fatto? Avevo una figlia, che presto sarebbe andata alle elementari, ero in stato di gravidanza, all’ottavo mese; non sapevo veramente che cosa fare. Otto mesi prima che nascesse Antony, mia nonna, che sempre era rimasta al mio fianco, che sempre mi aveva dato il suo amore, che sempre mi aveva offerto la sua compagnia, morì. Mi sentivo ancora più sola, sola più che mai. Ma il Signore aveva messo lì le suore del Sacro Costato, ne aveva fatto una presenza – per me sono state le persone che si sono occupate di me, si sono occupate dei primi anni di educazione di mia figlia, Amanda, soprattutto una di queste sorelle, la Sorella Ana. Per me è, era, continuerà sempre ad essere la madre, di cui si ha bisogno nei momenti difficili. Quando Antony, il mio terzo figlio, aveva quattro anni e mezzo, cominciò ad avere problemi di ipertensione polmonare gravi, che gli hanno creato una cardiopatia congenita. Quindi l’ospedale… Come qualcuno può dire a una madre che suo figlio morirà?… Tuttavia, lui che aveva quattro anni e mezzo, era la persona che consolava me della sua malattia. Come un bambino piccolo può consolare la madre? Io non lo capivo. Io pregavo, digiunavo (veramente, facevo vigilia), ma lui, invece di chiedere per sé, lui chiedeva sempre per me, per sua madre, per suo padre, e per sua sorella. Quando lo addormentavo, mi diceva: “Mamma, mami, ti voglio bene, ti amo. Gesù m i ha sanato, mi ha guarito, io non ho nulla, non capisci che non ho nulla?”. Io, perché lui non soffrisse, dicevo: “Sì, sì, va bene”. Il 10. 12. 2003, Antony morì di infarto. Correvo, gridavo, ho insultato tutti i medici: “Perché non avete salvato la vita di mio figlio?”. Non capivo. Dopo essere ritornata dalla veglia funebre, mi chiusi in casa, non volevo più alzarmi. “Perché il Signore mi fa questo? Se io non sono cattiva, cerco di fare le cose nel modo giusto, cerco di fare le cose bene, che cosa sta succedendo? Perché mi fai questo?”.
Era un dialogo, una conversazione fra Lui e me. Poi, a un certo punto Gli ho detto: “Fai di me quello che vuoi, mettimi dove vuoi, in un luogo dove, però, io possa essere utile agli altri”. Ho poi ricevuto una chiamata dalla Sorella Ana, perché lei mi chiamava sempre, si occupava di me, mi dava da mangiare, mi aiutava a risollevarmi. In questa chiamata, Ana mi disse: “Ho il lavoro perfetto per te!”. Stava sempre cercando di portarmi fuori di casa, e questa volta io proprio non riuscivo a pensare che cosa avesse in serbo per me, ma come una buona figlia sono andata, comunque, all’appuntamento stabilito ed è stato così che ho conosciuto Stefania. Non capivo come una persona potesse avere lo sguardo più grande, più ampio che avessi mai visto, il sorriso più dolce che avessi mai visto. Perché questa persona mi parla come se mi conoscesse? Mi sentivo veramente protetta, tutelata, accolta, ed è così che ho cominciato a lavorare per Avsi, dall’ 01. 11. 2004. Visitavamo le varie famiglie dell’area, del settore. Poco a poco, un passo alla volta, senza rendermi conto, uscivo dal mio dolore, dalla mia sofferenza, e cominciavo a condividere la sofferenza e il dolore delle famiglie dell’area. Ho cominciato quindi il lavoro per l’Avsi, e cominciando questo lavoro, non solo ho conosciuto le famiglie, ma questo mi permetteva di conoscere meglio me stessa, e quindi mi è tornata la voglia di studiare. Ho finito il ciclo scolastico. Ho seguito poi un corso come assistente di asili nido, così io ho accompagnato le famiglie, ma nello stesso tempo le famiglie mi hanno accompagnato, e accompagno i bambini, perché sentano che c’è qualcuno più grande. Un anno fa, in giugno, dopo essere rientrata dal lavoro, ero un po’ agitata, preoccupata, non sapevo esattamente cosa mi stesse succedendo, non riuscivo ad addormentarmi, perché il quartiere dove abito ha dei problemi, di tossicodipendenza, alcolismo, violenza. Non capivo, il mio cuore batteva così forte, e non capivo la ragione. Alle due di notte, ho cominciato a sentire delle grida, dei rumori, dei pianti, ma io ho sempre paura di uscire perché vivo da sola, solo con Amanda, ma il pianto che sentivo mi sembrava noto, conosciuto, e quindi sono uscita. Era una delle mie nipoti che gridava, per terra. “Che cosa sta succedendo, perché stai piangendo?”. Mi diceva semplicemente: “Josè è morto”. “Che cosa stai dicendo? Alzati, non può essere vero! La morte non può di nuovo colpirmi”. Mio fratello, uno degli ultimi due miei fratelli è stato ucciso: quattro pugnalate. Io non ci potevo credere. Praticamente sono caduta per terra. “Che cosa sta succedendo?” Mi sono risollevata, mi sono rialzata, sono andata in casa, ho preso il telefono e ho chiamato Stefania. Un’altra persona della casa mi rispose, Cristina. Mi diceva: “Amparito, adesso cerca di stare tranquilla, tranquillizzati, che cosa sta succedendo?”. Io dicevo: “Mio fratello è morto! Perché Cristina, dimmelo, perché?”. Dopo essere tornata dal funerale di mio fratello, uno dei miei nipoti, Diego, mi chiama e mi dice: “Amparito, voglio trovare quello che hai trovato tu, questi amici che ti sostengono, è incredibile, sembravano sentire il dolore che sentivi tu”. Ed è così che Diego comincia ad andare a Scuola di Comunità. Il suo sguardo è mutato, il suo sorriso è grande, ampio. Ha cambiato lavoro, è una persona nuova. Tuttavia, la violenza, l’alcol, le situazioni problematiche che esistono nelle strade del quartiere, colpiscono questi ragazzi, che non hanno risposta al loro cuore e questo li fa essere così come sono. Nel mese di maggio, Amanda si è innamorata. Il problema non è che mia figlia abbia conosciuto l’amore, non è questo il problema, ma il modo in cui è cambiata. Una notte, dopo che io ero tornata dal lavoro, non l’ho trovata a casa. Ho pensato che fosse a casa di qualcuno, di una amica, in qualche posto, che sarebbe poi tornata, ma non sapevo quello però che stava succedendo. L’aspettai fino alle dieci di sera, ma alle dieci Amanda non era ancora tornata. Ho cominciato a preoccuparmi, la disperazione mi attanagliava, perché la violenza che esiste in quel quartiere mi fa sempre agitare, mi fa sempre preoccupare. Ho chiamato Stefania, assieme ad un’altra amica. Abbiamo cercato Amanda fino alle tre di notte, recitavamo il rosario, più volte, ma non si trovava. “Che cosa succede?, forse non servo come madre?” – questo mi chiedevo – “sto facendo tutte le cose per bene”. Volevo che Amanda conoscesse quello che io avevo incontrato. Non capivo. Il mio cuore era all’interno di una preghiera continua. Alle tre di notte sono tornata a casa e ho detto a Stefania: “Lasciami sola”. Sono entrata in casa, pregavo. Alle cinque è arrivato il padre di Amanda, perché aveva saputo che Amanda non era tornata a casa. Abbiamo aspettato le sei, per poi presentare una denuncia alla Polizia, ma prima di uscire sono entrata in camera e ho visto l’immagine di don Giussani. Ce l’ho sempre vicino a me, e ho cominciato a parlare, come se lui fosse lì, insieme a me. Dissi: “Se tu sei più vicino a Gesù, se tu hai fatto sì che io potessi cambiare, che conoscessi questi amici, aiutami a trovare Amanda, e io ti prometto che lo racconterò”. Siamo poi andati al Commissariato di Polizia, abbiamo fatto la denuncia. Il padre di Amanda stava facendo tutto l’iter con la Polizia, e il mio cuore pregava. Così mi abbandonai, e capii che la mia vita e quella di mia figlia appartengono a Qualcuno di più grande, e che quello che stava succedendo in quel momento era ciò di cui io avevo bisogno, per capire che la cosa più grande é la Sua presenza. Arrivati alla polizia, ricevo la chiamata di Stefania: Amanda é tornata a casa. Lì ho capito che avendo depositato le nostre vite nelle Sue mani, Lui risolve i problemi. Non devi lottare contro ciò che é evidente: il suo amore si fa presente attraverso il dolore; e in questo modo ti mantiene sveglio, vivo, attento ai fatti che accadono intorno a te. Fai di me quello che vuoi, ma non smetterò di amarti, non smetterò di amarti, Signore. Se dovrò piangere un altro figlio morto, non smetterò di amarti. Sei presente nella mia vita e sarai presente fino a quando non mi raccoglierai. Amanda era stata trovata da altri ragazzi. Non se ne era andata, come pensavamo. Non aveva seguito il ragazzo di cui si era innamorata. Amanda era molto più vicina di quello che io pensassi, e me l’hanno riportata a casa. In un certo modo, avevo cominciato a entrare in un sogno, lasciandomi trascinare dalle circostanze, dalle cose che erano avvenute attorno a me, dimenticando il grande avvenimento che aveva avuto luogo nella mia vita, così che mi sono abbandonata. Ho capito che la mia vita e la vita di mia figlia appartengono a qualcuno più grande e che quello che stava accadendo in quel momento era quello di cui io avevo bisogno per risvegliarmi, e soprattutto ho capito che le cose non avvengono per caso, ma avvengono e ti ti fanno male perché tu capisca la Sua presenza, e questa è la cosa più grande che può succedere nella tua vita. Ma soprattutto, ho imparato, con dolore, ad accettare che sono una creatura, che sono uno strumento, anche con la mia umanità limitata. Molte volte non capisco. Perché scegliere me, come strumento, come Suo strumento, se io mi sento indegna? Ma soprattutto, ho imparato ad accettarmi e ad accettare tutti gli avvenimenti, tutti gli accadimenti che sono avvenuti nella mia vita. Non cambierei la mia vita per nulla, nonostante tutto il dolore che ho provato e che è esistito, perché Cristo si è fatto presente attraverso gli amici che ha posto vicino a me e che ha posto sulla mia strada, attraverso uno sguardo diverso. E perché non perdonare il padre delle mie figlie e consentire che l’amore che sento per lui e che continuo a sentire e che sentirò sia depositato in qualcosa di più grande? Solo in questo modo si può sperimentare il perdono. E perché non perdonare, se Gesù mi ha perdonato, se Gesù mi perdona, se Gesù mi perdonerà, e mi sta perdonando continuamente? Tutti gli errori che commetto, e che commetterò… Chi sono io per non perdonare? Se non sono nessuno, se non sono nulla, solo la Sua creatura? Grazie, per aver condiviso con me la mia storia.
STEFANIA FAMLONGA:
Bene. Grazie. Ringrazio moltissimo Amparito per la sua testimonianza, perché non c’è cosa più grande che sia segno di Cristo, come… come una come lei. Adesso, ascolteremo Sua Eccellenza Monsignor Filippo Santoro, un grande amico e una grande presenza della nostra storia in America Latina. Sua Eccellenza Monsignor Filippo Santoro, dal 1984 è andato in Missione in Brasile, nell’arcidiocesi di Rio de Janeiro, su invito del Cardinale di Rio de Janeiro e di don Giussani. Dal 1988 al 1996 è stato responsabile per il movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione nell’America Latina. Nel 1996 è stato ordinato Vescovo ausiliare di Rio de Janeiro. Nel 1992 ha partecipato alla Quarta Conferenza Generale dell’Episcopato Latino Americano di Santo Domingo e nel 2007, alla Quinta Conferenza, che si è svolta ad Aparecida, in Brasile, come rappresentante del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione, nominato dal Santo Padre. Nel 2008 ha partecipato alla dodicesima Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Da cinque anni è Vescovo diocesano di Petropolis, nello stato di Rio de Janeiro. Abbiamo chiesto a Monsignor Filippo Santoro di testimoniarci il suo incontro con Cristo e ciò che da quell’incontro è scaturito, e insieme, anche, di indicarci il fulcro dell’incontro di Aparecida, a cui lui era presente, e che rappresenta l’evento centrale di questi ultimi anni a cui tutta la chiesa di America Latina fa riferimento. In questo senso, come avrete visto nei quotidiani di questa mattina, ci darà indicazioni anche sull’attuale problematica della teologia della liberazione in America Latina.
S. ECC. MONS. FILIPPO SANTORO:
Innanzitutto voglio ringraziare Amparito per la sua testimonianza, che ci manifesta come il Signore agisce, cambia e trasforma la realtà. Il Signore agisce sia nel grido di Giobbe, nel grido di Amparito che incontra una risposta sia in testimonianze più semplici. A me è stata chiesta una testimonianza e un giudizio sull’America latina, sulla situazione. Tutto questo parte da un’esperienza, e vorrei, dopo cose così grandi e drammatiche, partire da una cosa un po’ più leggera, come è nata la mia missione in Brasile. Io non avevo mai pensato di andare missionario in Brasile. Nel 1984, don Ricci viene a Bari a fare un incontro: era appena stato con don Giussani a Rio de Janeiro, incontrando il cardinale di Rio, il cardinal Sales, e don Ricci dopo l’incontro a cena comincia a parlare dei succhi brasiliani, dei succhi di frutta brasiliani: “Filippo, ci sono i succhi che se sei depresso ti tirano su, se sei agitato ti calmano, se hai problemi intestinali sono un regolatore intestinale senza essere purgante, e poi c’è bisogno di un professore nell’Università Cattolica di Rio di Janeiro. Ma tu non ti preoccupare, perché hai il lavoro qui in Puglia”. Dopo due mesi c’è il consiglio nazionale del Movimento e don Ricci comincia di nuovo a parlare dei succhi e alla fine lancia di nuovo il messaggio in codice sull’Università di Rio de Janeiro, ripentendo che non era mio problema. La risposta definitiva invece è avvenuta, è avvenuta quando don Giussani è sceso in Puglia a fare un incontro della fraternità in regione e al responsabile regionale, tutto preoccupato, io dicevo “Faremo così, faremo colà, faremo…” “Sta un po’ zitto, Filippo, ascolta: tu andresti volentieri in Brasile senza succhi e senza nulla?”. Questa è stata la domanda e soprattutto quello che mi ha colpito è stato quel “volentieri” che non è “atto di obbedienza”: “andresti volentieri in Brasile?”. E allora io gli ho detto: “Certamente, preoccupati tu della regione, io vado”. Perché? Perché nella forma dell’incontro con don Giussani si percepiva la ragionevolezza di un invito come questo, della Presenza inconfondibile della voce di un Altro, che ti chiama a qualcosa che non hai mai pensato, che cambia tutti gli schemi della vita e che però sai che è per te, ed è familiare. E così sono partito. Ricordo anche un altro incontro con don Giussani, nel ’74, quando era da poco incominciato il movimento in Puglia. Don Giussani mi chiama e dice: “Filippo, vorresti venire al consiglio nazionale del movimento in Italia? Ma per l’amicizia con me, non per organizzare le cose meglio in regione, per l’amicizia con me”. Era l’invito a una responsabilità per vivere più a fondo un’amicizia. E quindi mi trovavo di fronte a una paternità che mi chiamava e allo stesso tempo mi lanciava alla missione. E così sono partito, sono andato in missione e ho risposto semplicemente ad un invito, e quando, durante il periodo in cui ero responsabile del movimento in America latina, io mi fermavo nelle pause tra un volo e l’altro, nell’attesa, nei ritardi, senza perder tempo dicevo: “ma che cosa straordinaria mi è successa per aver detto quel sì! Come si è allargato l’orizzonte della vita, come è diventato grande, incomparabile: non ho perso gli amici che avevo in Puglia e ne ho trovati tantissimi altri, a Rio de Janeiro, nel Brasile, in tutta l’America latina. Un incontro straordinario venuto proprio come una Grazia e che apre un orizzonte sconfinato”. E così sono caduto nel cuore della Teologia della liberazione. Don Giussani mi aveva detto: “noi ti accompagneremo”, mentre gli amici, scherzando, avevano detto: “vai là e veditela tu”, il contrario del Gius, che era un abbraccio. Quindi sono sceso, ho iniziato a dar lezione, a far lezione nell’Università Cattolica di Rio de Janeiro. In questa Università Cattolica, prima di me, insegnava Clodovis Boff, il fratello del più famoso Leonardo Boff, e io ho preso alcune sue materie. Immaginate l’impatto degli alunni con questo professore che veniva da Roma e ci parlava… Un gelo, una distanza enorme. E allora ho capito che a quei ragazzi, a quei giovani, e anche ai colleghi della facoltà non potevo rispondere con lo stesso gelo, non potevo rispondere con la stessa misura, ma era il momento di rispondere a loro con lo sguardo che don Giussani aveva avuto su di me, lo sguardo e l’abbraccio di Cristo su di me, che attraverso il Gius mi era stato dato. Poco a poco gli alunni, le persone cominciavano a dire: “Non ti capiamo, però capiamo che non si tratta di un’ideologia opposta alla nostra, ma è un altro punto di partenza: è un’esperienza, e soprattutto ci colpisce la tua pace, la tua serenità mentre dici queste cose così gravi e così importanti”. Il punto centrale, che io subito ho detto, è che la comunione, la comunione con questo abbraccio viene prima della liberazione, non è il frutto della liberazione, non può che essere prima. loro dicevano: “prima abbattiamo il potere, togliamo la povertà, togliamo l’ingiustizia. Attraverso queste cose qui viene il Regno di Dio, l’annuncio esplicito di Cristo non è necessario”. Mentre quello che era stato per me il cambiamento radicale nella mia vita, quando ero studente di Teologia, è stato proprio l’abbraccio di Cristo. Vedevo che i cortei del movimento studentesco e tutte le altre cose terminavano e ti lasciavano la giornata vuota, mentre l’abbraccio del Signore, la presenza sua attraverso l’incontro con don Giussani e altri amici sostenevano e sostengono tutta la vita. Perciò il punto da cui cominciare era proprio l’esperienza della comunione. Insieme con il mio amico don Giuliano di Rimini, con il quale abbiamo incominciato a Rio de Janeiro, davanti a una città di sei milioni di persone ci domandavamo: “da dove cominciamo, come si fa una presenza in una città così grande?” e allora ci siam detti: “cominciamo dal vivere quello che ci è accaduto”, senza programmi, senza piani, desiderando vivere il carisma senza sconti, desiderando vivere il carisma nella sua semplicità, nella sua verità. E subito dopo ho partecipato agli incontri del movimento e ho trovato piena sintonia con don Virgilio Resi, padre Massimo Cenci, don Valentini, don Petrini, gli altri amici, e con loro è nata l’esperienza della Fraternità. Nessuno ce l’aveva detto, però ci siam messi insieme, ci aiutiamo a vivere pienamente quello che ci è successo. Questa è l’esperienza della Fraternità, amici che si aiutano nell’essenziale, a guardare di più quello che è essenziale. E nell’apice della discussione sulla Teologia della Liberazione – perché ci sono tanti fatti, tanti avvenimenti – ho domandato a don Giussani: “don Gius, ma per te che cos’è la liberazione?” e lui mi ha detto testualmente: “la liberazione è quando il destino è più vicino al cuore dell’uomo, quando il destino è più vicino al cuore dell’uomo”. E’ esattamente quello – mi han chiesto di parlare della conferenza di Aparecida – è esattamente quello che questo conferenza di Aparecida ha messo in evidenza. La conferenza di Aparecida è una conferenza generale dei Vescovi del Brasile. Si riunisce ogni dieci, dodici anni ed è il punto di riferimento per tutta la vita della Chiesa. Questa conferenza è avvenuta nel 2007, nella città Nossa Senhora Aparecida. Lì ci siamo ritrovati con i Vescovi, duecentocinquanta Vescovi, e volevo leggervi solo un pezzo per dire come il destino è vicino al cuore dell’uomo. Dice una citazione della conferenza di Aparecida: “La natura stessa del cristianesimo consiste nel riconoscere la presenza di Cristo e seguirla. Questa è stata la bella esperienza dei primi discepoli che incontrando Gesù sono rimasti affascinati e pieni di stupore dinanzi all’eccezionalità di chi gli parlava, dinanzi al modo con cui li trattava, corrispondendo alla fame e sete di vita presente nei loro cuori. L’Evangelista Giovanni ci ha lasciato plasticamente l’impatto che ha prodotto la persona di Gesù nei primi discepoli che lo hanno incontrato, in Giovanni e Andrea. Tutto comincia con una domanda: Che cercate?. A questa domanda è seguito l’invito a vivere un’esperienza: Venite e vedete. Questo racconto rimarrà nella storia come la sintesi unica del metodo cristiano”.
Si tratta di una citazione del documento di Aparecida, non di un testo di Luigi Giussani, quindi come vedete c’era un’assimilazione osmotica. E ad Aparecida la conferenza è stata un grande evento dello Spirito del Signore, in tutta la problematica latino-americana, cominciato con Medellin e Puebla. È stato un punto centrale per impostare sia la vita della Chiesa sia la riflessione della teologia. Il punto di partenza, riprendendo quello che il cardinal Ratzinger ha detto in un’altra conferenza – il testo incorpora questa perla del cardinal Ratzinger – è il seguente: “la nostra più grande minaccia è il mediocre pragmatismo della vita quotidiana, in cui tutto apparentemente procede con normalità, mentre in realtà la fede si logora e degenera in meschinità. Tutti sono invitati a ricominciare da Cristo, perché si possano formare i discepoli e i missionari del Signore nel continente latino-americano”. Questo è l’obiettivo, la formazione dei discepoli, la formazione dei missionari, perché noi abbiamo un sacco di battezzati ma quanti sono i discepoli e quanti sono i missionari? Questo è l’obiettivo, la formazione, e questo è possibile se succede qualcosa, se succede un incontro, se succede un’esperienza. Non nascono i missionari perché si fanno i corsi. Per questo la nostra presenza in America latina è la grande possibilità che la conferenza di Aparecida possa dare frutti concreti e non appena un’enfasi di organizzazione, nella propria missione, così come la missione continentale in America latina è stato il frutto di Aparecida. Perché questa novità in un congresso ecclesiale? Io dico solo tre motivi: il primo, l’intervento del Papa all’inizio, di Benedetto XVI, che ha indicato il cammino, l’asse portante della conferenza, la gioia di essere discepoli e missionari, dell’incontro, la bellezza dell’incontro; secondo, la presenza della Madonna a Aparecida: non era indifferente star lì nel Santuario della Madre di Dio, Nossa Senhora, e quando noi Vescovi pregavamo, cantavamo, litigavamo tra di noi, discutevamo, la presenza della Madre determinava un clima differente. Terzo aspetto, la presenza dei pellegrini: i pellegrini durante la settimana, trentamila, quarantamila, centoventimila… Abbracciati dal popolo dei pellegrini, popolo fatto di gente povera, gente semplice ma con una fede ardentissima, che quando passavano i Vescovi applaudivano, contenti di incontrarci: uno scambio tra la fede del popolo e la fede dei pastori. Cose lontanissime da quelle che una certa Teologia della liberazione aveva predicato, come la Chiesa popolare, opposta all’istituzione: un’integrazione perfetta. Quindi il punto di partenza della conferenza è stato quest’esperienza ricca del popolo di Dio, fatto di gente semplice, ma fatto di gente che crede, che vive seriamente la fede. E i pellegrini arrivavano cantando, piangendo, portando le loro difficoltà, i loro dolori, quelli che abbiamo ascoltato anche oggi nella testimonianza, ai piedi della Madonna e La invocavano: Tu, Madonna Santa, devi darmi questa Grazia, confido in Te. Allora con questa fiducia trasbordante dei pellegrini, noi non potevamo partire da un punto di vista sociologico. Partivamo semplicemente dall’incontro col Signore, attraverso la Madonna che ci indicava la bellezza di Cristo. Quindi il punto di partenza di Aparecida è la fede come metodo, la fede vissuta dal popolo di Dio. E questo ha suggerito un cambiamento profondo anche nella riflessione di alcuni teologi della liberazione. Uno o due, non molti a dire il vero. Negli Esercizi spirituali di quest’anno, Carrόn ci diceva: il vero problema non è la crisi, non sono queste circostanze più o meno drammatiche che ci toccano in un modo o nell’altro, ma è come ci troviamo ad affrontare queste circostanze, come stiamo davanti ad esse. Vediamo come tante volte queste circostanze sono l’occasione per renderci conto che siamo smarriti e spaesati. Perché? E qui cita don Giussani: “La realtà della Chiesa come avvenimento quotidiano in cui si rende presente l’avvenimento originale si pone oggi davanti al mondo non dico dimenticando ma dando come per supposto e ovvio il contenuto dogmatico del cristianesimo, la sua ontologia, perciò semplicemente l’avvenimento della fede”. Quindi il punto è un errore di metodo: là si dà per scontata l’irruenza dell’avvenimento come lo stiamo sperimentando questi giorni. Davanti alla lezione di Aparecida, il già citato esponente della Teologia della liberazione, Clodovis Boff, è intervenuto nel dibattito e ha iniziato a parlare della funesta ambiguità della Teologia della liberazione, lui, che era stato uno dei capi, parlava della funesta ambiguità. Dice: “quando si questiona se il povero è il principio della prassi, della Chiesa e della teologia, si domanda se prima non c’è Dio, Gesù Cristo. La Teologia della liberazione non nega, non potrebbe farlo, perché è al primo posto per definizione. Non rifiuta esplicitamente il primato di Dio e della fede. Ciò che fa problema – dice Clodovis – è la sua indefinizione sulla questione capitale, nella sfera del metodo. È nel metodo che si manifesta il punto”. Ed esplicita così il suo giudizio: “Questo principio di fatto non opera veramente. Rappresenta un presupposto che rimane indietro, non un principio operante, che continua sempre attivo, perché il primato della fede come non può essere dato per scontato nella vita personale, non può neppure esserlo dal punto di vista epistemologico (nella scienza) della teologia. In pratica l’ambiguità funesta della Teologia della liberazione è la sostituzione di Cristo con il povero, quando il povero acquisisce lo statuto di primum epistemologico”. Se queste cose le avessimo dette noi, tutto tranquillo; le ha dette invece uno di loro, ed è successo il patatrac. Il fratello di Clodovis, Leonardo Boff, inizia a scrivere un articolo violento. Altri gli dicono: “ma tu sei peggio della Congregazione della Dottrina della Fede, che ci ha fatto due documenti contro!” e quindi lo accusano di varie cose, e lui, Clodovis, dice: “I teologi della liberazione operano un grave equivoco, la cui giustificazione teologica si trova nella teoria del cristianesimo anonimo di Karl Rahner – osa toccare i numi tutelari della teologia – assunta dalla Teologia della liberazione. Questo equivoco porta conseguenze pastorali disastrose, rende irrilevante la fede esplicita, l’ascolto della parola di Dio, il suo annunzio, la convocazione della comunità, la confessione pubblica della fede, la pratica dei Sacramenti, la preghiera: insomma tutta la vita ecclesiale, per non parlare del regime della Rivelazione e dell’Incarnazione. L’esempio più chiaro di questa teologia piena di equivoci è il deslocamento de los militantes de la base de la iglesia, lo spostamento dei militanti della base ecclesiale, seguito dalla perdita dell’identità cristiana”. Questa disputa però, cari amici, non è solo una questione di riflessione teologica, ma mette in evidenza il punto di partenza della nostra vita personale, sia nelle grandi situazioni della Chiesa, sia nella nostra esperienza quotidiana. Aldilà delle discussioni teologiche nell’America latina e aldilà della riduzione puramente organizzativa della missione, sono necessari fatti che indicano la presenza del Mistero prima di ogni analisi sociale, e il documento di Aparecida lo dice chiaramente: “Ciò che ci definisce non sono le circostanza drammatiche della vita, né le sfide della società, nemmeno le attività che dobbiamo intraprendere, ma soprattutto l’amore ricevuto dal Padre, grazie a Gesù Cristo per l’unzione dello Spirito Santo”. Possiamo dire, si tratta di un incontro semplice, di un incontro immediato, di un incontro come quando don Giussani mi ha chiesto di andare in Brasile: vorresti, andresti volentieri in Brasile?; un incontro, come quando faccio la proposta della missione ai miei fedeli di Petropolis; un incontro come quello che han fatto le signore di una favelas di Petropolis, che anche essendo città imperiale ha le sue belle favelas e Cleuza e Marcos sono venuti a trovarmi a Petropolis e dopo li abbiamo portati a visitare un asilo che noi abbiamo in una favelas, e loro han fatto l’incontro, poi l’incontro con un gruppo di mamme che cominciano a fare scuola di comunità. Allora – ci son centotrenta bambini e poi le mamme – quando Cleuza ha iniziato a raccontare la sua storia, le signore, di una povertà estrema, di una durezza estrema – si vede dai volti provati da questa grande povertà – hanno detto: ma tu sei una di noi e ci dai speranza, tu sei una di noi e ci dai speranza. E dopo Cleuza parlando mi ha detto: quando ho incontrato queste signore, ho toccato il manto di Cristo, la presenza di Cristo. È proprio la presenza il fatto da cui partiamo. E gli stessi Marcos e Cleuza sono venuti ad un matrimonio – alcuni nostri amici dopo anni che convivevano han deciso di sposarsi in chiesa – e al momento dei regali si è alzato Marcos e ha detto: tutti i regali che noi oggi raccoglieremo sono per l’opera di padre Aldo in Paraguay. Questo è il nostro obiettivo, questa è stata la nostra decisione, perché io andando in Paraguay – come ci diceva varie volte sia Marcos sia Cleuza – ho imparato un nuovo sguardo sulla Associazione dei Lavoratori senza terra, come lo sguardo che padre Aldo ha sui moribondi e sui malati di AIDS. Per questo tutte le nostre offerte saranno date all’opera di padre Aldo. La stessa cosa che Cleuza, invitata nell’estate brasiliana ad un incontro della Fraternità dei sacerdoti dell’America latina a cui partecipano cinque vescovi, ha detto: io voglio innanzitutto ringraziarvi per il vostro “sì”, don Filippo, perché senza il vostro “sì” di tutti questi anni non ci sarebbe stato il mio “sì” adesso. Ed è una commozione.. E volevo dirvi… volevo anche comunicarvi un’esperienza di questi tempi: da un po’ di tempo non sono più responsabile del Movimento, dell’organizzazione, è chiaro, ma c’è una cosa straordinaria che mi è successo di vivere, che tutte le cose che dicevo quando ero responsabile del Movimento riscopro che sono tutte vere adesso e per ciò mi rendo conto che non era per un compito, non è per un compito, per un obbligo, che si ripetono certe cose. Sono vere perché sono vere per noi, in primo luogo. E allora vedo il mio compito di Vescovo che è quello di confermare nella fede i miei fratelli: i miei fratelli si confermano nella fede quando io, grazie a Dio, grazie alla bellezza di questo nostro incontro, verifico la bellezza del mio “sì” a Cristo, di queste parole, di questo incontro, per ciò posso confermare i fedeli per un’esperienza fatta, non appena per la funzione episcopale, ma per il trasbordare di un’esperienza che don Giussani mi ha insegnato. Dico solo un fatto, lo dico solo perché la prima volta dopo aver ricevuto la nomina di vescovo sono andato al Sacro Cuore a salutare don Giussani, e io lo salutavo come saluto tutti gli altri amici preti. Allora, mentre lui mi vede, fa la scalinata del Sacro Cuore e si butta in ginocchio e mi bacia l’anello. “Dammi subito la tua benedizione di padre” …“Dammi la tua benedizione di padre”: aveva più coscienza di me delle dignità della successione apostolica. Per questo la grandezza di uno che ti insegna… E vorrei terminare con un messaggio che ho avuto dalla mia amica Elisa di Canosa, che ha perduto suo marito Carlo e che citando don Giussani mette bene in evidenza la nuova origine dell’io, della persona. Mette in evidenza anche la nascita del mio io e il valore della missione. Citando Giussani lei dice: “La testimonianza è un pezzettino di morte per Cristo, ogni testimonianza. Concretamente si chiama missione, andar via, partire: partire è un poco morire, che è in fondo la missione. Ma la missione è lo scopo della vita. Infatti lo scopo della missione di Cristo cos’era? Salvare il mondo, salvare ognuno di noi, salvare me, salvare te. La morte non è nient’altro che il culmine di prova, il cui scopo non può essere che la testimonianza di accettazione del Mistero di Dio”. E Elisa aggiunge: “che mistero la morte di Carlo! Forse perché lui era già più vicino a Lui con la elle maiuscola. Ha accettato tutto con abbandono, senza lamentarsi mai, totalmente abbandonato a Cristo”. Questo abbandono all’incontro, questo abbandono a Cristo è quello che ci sostiene, mi sostiene nell’esperienza della missione, e ho capito ancora di più quelle parole del don Gius: “la liberazione è quando il destino è più vicino al cuore dell’uomo”. Questo vale per me, per l’America latina, per tutti noi e per il mondo. Grazie.
STEFANIA FAMLONGA:
Ringrazio moltissimo monsignor Filippo Santoro, perché con la sua testimonianza e avendoci indicato il fulcro del documento di Aparecida, insieme alla testimonianza toccante di Amparito, ci hanno permesso di mettere al centro e sorprenderci di ciò che abbiamo di più caro, cioè Cristo e tutto ciò che viene da lui. Abbiamo sentito un incontro umano, dunque, uno sguardo, un “sì”, senza del quale l’orizzonte della vita non avrebbe potuto essere così grande come in questi giorni invece stiamo vedendo. Grazie!
(Trascrizione non rivista dai relatori)