Chi siamo
AMARE LA VERITÀ PIÙ DI SE STESSI
Partecipa Mario Calabresi, Direttore de La Stampa. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.
ALBERTO SAVORANA:
Buon giorno a tutti, benvenuti a questo incontro del trentesimo Meeting per l’Amicizia tra i Popoli, che ha per titolo “La conoscenza è sempre un avvenimento”, e che trova nel titolo dell’incontro di questa mattina, “Amare la verità più di sé stessi”, un ulteriore approfondimento, un ulteriore contributo a una coscienza critica più approfondita di un’esperienza e della realtà. Prima di introdurci al dialogo con Mario Calabresi, direttore de La Stampa di Torino, devo chiarire che rispetto al programma abbiamo un tavolo dimezzato, perché Gianni Riotta, direttore del Sole 24 Ore, per problemi famigliari e Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, per un’acuta colica renale notturna non sono qui con noi. Ma facendo di necessità virtù, e pensando che non tutto il male viene per nuocere, ho realizzato che questa per noi può essere veramente un’occasione eccezionale per un primo incontro più favorevole e più approfondito, di quanto sarebbe stato se avessimo avuto, come speravamo, tre direttori al tavolo, col superstite direttore de La Stampa. Lui, come vedete, è giovanissimo ed è stato strappato dal suo ufficio di corrispondenza americano pochissimi mesi fa per guidare il quotidiano di Torino.
Allora, per introdurci a un dialogo con lui, mi permetto solo di segnalare l’origine del titolo che abbiamo dato a questo incontro: “Amare la verità più di sé stessi”. Capite quanto un titolo di questo tipo sia provocatorio per ciascuno di noi ma credo che lo sia in particolare per una persona che quotidianamente si cimenta con la realtà, in forma di notizia e informazione. Questa frase non è mia, non è del Meeting ma è di don Luigi Giussani, che la ritiene fondamentale per quello che lui chiama “la moralità nel conoscere”, che è la terza grande premessa di uno dei suoi libri più noti: “Il Senso Religioso”. Vale a dire, quella moralità che non riguarda innanzitutto il comportamento etico, lo sbagliare o meno in quello che si fa, perché secondo don Giussani questo è conseguenza di un’altra immoralità, ben più profonda e ben più grave, ma l’assenza di lealtà, di serietà, di posizione adeguata e corretta rispetto alla realtà, persone, fatti, incontri e avvenimenti. Si capisce allora l’importanza che deve avere per una persona chiamata a portare un peso non comune, come quello di dirigere un grande quotidiano nazionale, il tema dell’amare la verità più di se stesso, cioè, come diceva don Giussani, più delle proprie opinioni, preconcetti, pregiudizi, che tutti abbiamo, con cui tutti ci buttiamo nel rapporto con la realtà. Capite che diventa interessante un dialogo con Calabresi, che può offrirci l’occasione di vedere come e quanto in lui, prima come inviato e corrispondente e ora come direttore, si è giocata e si gioca questa sfida. Per questo gli cedo subito la parola. Mi ero anche preparato la schedina sulla sua biografia, ma avendo l’occasione di un dialogo più lungo, chiederei a lui di raccontarci qualcosa in termini umani e professionali. Grazie.
MARIO CALABRESI:
Buon giorno, eravamo in tre, sono rimasto da solo e, mi si passi la battuta, forse anche questo mostra lo stato di crisi e difficoltà della carta stampata. Tant’è che questa mattina mi sono venuti a prendere e mi hanno difeso da qualunque cosa: mi hanno fatto sedere, mi hanno dato un po’ d’acqua e mi hanno detto “Non ti devi muovere, sei rimasto da solo”.
ALBERTO SAVORANA:
Mi ha chiamato la hostess alle dieci e mezza dicendo: “Corri nel salotto delle relazioni esterne perché non se ne vada”.
MARIO CALABRESI:
Effettivamente se mi avessero detto che ero da solo prima di arrivare qui forse avrei scelto la via del mare.
ALBERTO SAVORANA:
È stato portato nel salotto anche Giampaolo Pansa, per assicurare la presenza.
MARIO CALABRESI:
Partirei dal titolo del Meeting di quest’anno più che dal titolo di questo incontro. I titoli del Meeting sono di tutti i tipi. Nel passato ce ne sono stati alcuni, io li leggevo da fuori, assai difficili, molto lunghi e complicati. Quello di quest’anno mi piace tantissimo perché lo trovo di una forza diretta incredibile. “La conoscenza è sempre un avvenimento” è apparentemente semplicissimo, ma racchiude in sei parole la vita intera, la nostra vita. Perché ci sia un avvenimento bisogna fare un percorso – pensate alla parola “avvenimento”: porta dentro di sé lo stupore, la sorpresa, l’inatteso, altrimenti non sarebbe un avvenimento ma qualcosa che già conosciamo -, ma perché la risposta sia un avvenimento dobbiamo concederci la possibilità di fare domande e farci domande, cioè dobbiamo essere liberi di cercare e di accettare quello che viene. Un attimo fa Savorana diceva – parlando di amare la verità più di se stessi – che è fondamentale andare al di là delle proprie opinioni, pregiudizi e preconcetti per salvaguardare la vertigine della conoscenza. La conoscenza è avvenimento se siamo liberi di scoprire che alle nostre domande può arrivare una risposta nuova che non ci aspettavamo, diversa.
Parto da un dato biografico minore: ho due bambine gemelle di due anni e mezzo – una si chiama Emma e l’altra Irene – che sono entrate nell’età dei “perché”. Una dice “perché” in continuazione e l’altra invece dice “come mai”. E qualunque cosa accada lei chiede “come mai?”. Se tu dici che si va a mangiare, ti risponde “come mai?”, e quando le dici “perché abbiamo fame”, di nuovo “come mai abbiamo fame?”, “è perché non mangiamo da stamattina”, e lei ancora “papà, perché non mangiamo da stamattina?”. Qualche giorno fa – onestamente, non pensando al tema del meeting – mi dicevo: “Verrà un giorno in cui smetteranno di chiedermi il perché e il come mai di ogni cosa”. Poi però, riflettendo, ci ho ripensato e ho capito che il problema è che, in un certo senso, abbiamo sempre considerato il fatto di farci domande una caratteristica da bambini, e viviamo in una società che considera l’essere bambino una fase di passaggio prima della crescita. Allora s inizia a credere che si cresca quando si smette di fare domande, mentre invece dobbiamo renderci conto che smettiamo di crescere proprio nel momento in cui smettiamo di farci domande perché perdiamo freschezza, perdiamo la possibilità di andare avanti, di avere nuove esperienze. Significa che ci si accontenta di risposte preconfezionate. Io qui non vi sto parlando soltanto di un giornale, perché un giornale è una cosa complicata, un discorso collettivo dove uno fa il direttore, ma poi un giornale è uno sforzo, un prodotto di centinaia di persone; io invece vi parlo anche, come dire, della mia esperienza, della mia vita. Io sono figlio di una persona che è stata uccisa negli anni del terrorismo e questa è una cosa che mi ha segnato, è parte di me in un modo così forte che non posso far finta che non ci sia, e probabilmente ha segnato anche il modo in cui oggi penso che si debba fare giornalismo, ha sicuramente segnato il mio modo di fare il giornalista e questo c’entra con le risposte preconfezionate. Il mondo è pieno di risposte già fatte, pronte, disponibili: ne troviamo quante ne vogliamo, vengono ripetute all’infinito. Sono quelle risposte che hanno la faccia delle certezze, ognuno di noi può scegliere quelle che trova più congeniali, quelle che magari gli somigliano di più, il problema però è che tendiamo a scegliere quelle in cui possiamo adagiarci meglio, quelle forse che ci rassicurano di più, che ci fanno sentire tranquilli e in questo modo smettiamo di cercare.
Nel momento in cui smettiamo di cercare, dal punto di vista di uomini, di cittadini, il nostro percorso di conoscenza è finito, e nei giornali resta solo la strada dell’inaridimento oppure della scelta militante ideologica. Invece io penso che sia fondamentale, nel titolo del Meeting così come nella vita, nella ricerca che ognuno di noi fa, e anche nel giornalismo, la capacità di farsi domande. Heidegger, filosofo tedesco, in una lunga intervista che fece prima di morire, pubblicata in Italia col titolo “Solo un Dio ci può salvare”, alla domanda su che cosa fosse la filosofia, rispose che la filosofia è la domanda, non è la risposta, è la tensione, è il salto che si fa quando si avanza la domanda, perché se ci focalizziamo sulla risposta vuol dire che noi già prima ci siamo costruiti la risposta e abbiamo già l’idea di che cosa vogliamo, di dove dobbiamo andare, e invece è fondamentale la tensione della domanda. Io penso che per un giornalista sia più importante fare delle buone domande che immaginare delle buone risposte. Spesso, quando accade un fatto, mi capita di dire: “Facciamo un’intervista, cerchiamo un medico, un professore”, e mi viene detto in automatico: “Per dire che cosa?”, e io rispondo: “Non lo so, altrimenti non avrei bisogno di fare l’intervista”. Bisogna prima chiedersi quali sono le domande a cui cerchiamo risposta, e per me è molto più appassionante quando le risposte che arrivano sono diverse da quelle che mi aspettavo, perché allora vuol dire che quello che accade è più vivo, è più mobile di quello che mi aspetto. Altrimenti, se uno sa già che cosa vuole, fa del giornalismo una tesi.
L’ho visto molto andando negli Stai Uniti, dove ho vissuto due anni e mezzo, e raccontando una campagna elettorale. Ho raccontato la fine della presidenza Bush, ho seguito la campagna elettorale di Barack Obama e di John McCain, e ho visto l’inizio del nuovo Presidente, cercando di avere meno pregiudizi e preconcetti possibili. Vi faccio un esempio: forse è la seconda o terza storia che ho raccontato, quella sull’immigrazione. Sono andato a fare una storia sul muro che l’amministrazione americana stava costruendo al confine tra gli Stati Uniti e il Messico. L’idea di partenza che mi avevano detto era: “Vai a raccontare il muro di Bush e le sue politiche anti-immigrazione. La cosa che poi ho scoperto, che non è stato uno scoop, semplicemente era sotto gli occhi di chiunque volesse vedere, era per esempio che George Bush aveva una politica di immigrazione improntata all’accoglienza molto di più di quanto si potesse immaginare. Infatti, fino all’ultimo della sua presidenza, ha cercato di far passare una sorta di grande amnistia – in America è una parola proibita, perché agli elettori non piace -, nel senso che voleva regolarizzare una parte di quei milioni di irregolari e clandestini che vivono negli Stati Uniti da anni e che hanno figli americani, perché, se si nasce negli Stati Uniti, si è americani di diritto, per il diritto della terra, anziché del sangue. Quindi Bush, venendo anche dal Texas, che è una terra, come la California, piena di immigrati ispanici, si era convinto che chi era già in terra americana da anni ed era integrato nella sostanza, andasse integrato anche formalmente. Ed era convinto che quello sarebbe stato un motore per l’economia e anche un bacino di voti per il suo partito. È una cosa forse su cui ha ragionato molto anche il fratello Jab in Florida. Tra l’altro il fratello, che sarà ospite qui venerdì, se non sbaglio, parla spagnolo e ha un figlio che parla perfettamente lo spagnolo, e così ho scoperto che Bush aveva una posizione sull’immigrazione di grandissima integrazione, ma che non è mai riuscito a far passare la sua legge perché ha avuto la contrarietà in parti identiche di una parte del partito repubblicano e di una parte di quello democratico. Quando io ho mandato il pezzo al mio giornale, istintivamente ho chiamato per chiedere che titolo era stato fatto e mi hanno detto che avevano fatto un titolo di questo genere: “Così Bush vuole costruire il muro contro gli immigrati”, e io ho detto: “Ma avete letto l’articolo? Dice esattamente il contrario”. C’è stato un dibattito lunghissimo, ma talmente forte era l’idea che Bush fosse, tra virgolette, contro gli immigrati che sembrava impossibile quello che scrivevo, sembrava che io fossi diventato estremamente originale. E vi devo dire che nel momento in cui ho capito che le cose stavano diversamente, mi ha preso una grande gioia, ma non una gioia per Bush, lui se ne fregava di me, mai avrebbe letto il mio articolo, la mia gioia era però quella di avere visto qualcosa che era diverso da come lo stereotipo lo aveva dipinto. Per questo bisogna diffidare del sentire comune, cioè non dobbiamo pensare che il sentire comune della popolazione, dei cittadini, dei giornalisti corrisponda per forza alla verità.
Oggi ho risposto ad una lettera di un lettore che criticava il fatto che la Banca d’Italia abbia detto questa estate che gli stranieri, gli immigrati che vengono a lavorare in Italia, fanno in gran parte lavori che oggi gli italiani non fanno più. Questo diceva che la Banca di Italia andava contro il sentire comune e io, con molto garbo ho provato a dire che non sempre il sentire comune corrisponde alla verità. Prendiamo due esempi. C’era quello di Bush. Veniamo in Italia. La sicurezza è un tema, un problema che impone di fare i conti col sentire comune della paura: bisogna fare i conti con chi va a prendere la pensione e vive quel giorno, che dovrebbe essere un giorno sereno perché si ritirano i soldi, come un giorno di paura per il timore di essere derubato. Lo stato e la politica devono fare i conti con l’insicurezza, con le incertezze, con le paure, devono garantire la sicurezza, che non è un bene di destra o di sinistra, perché fa parte del contratto sociale con i cittadini, però dall’altra parte bisogna anche guardare i numeri dell’ultimo anno che ci dicono che la criminalità è in diminuzione. Allora dobbiamo interrogarci, dobbiamo spiegare che da una parte i numeri ci dicono che la criminalità è in diminuzione e dall’altra farci carico del fatto che invece la paura aumenta. Però vuol dire farsi delle domande. A La Stampa quando all’inizio dell’estate ci sono stati molti sbarchi a Lampedusa di barconi dal Nord Africa, a me non interessava dimostrare che la maggior parte della gente arrivasse dal Nord Africa o da una altra parte, non ne avevo la minima idea, e quindi ho chiesto di fare un’inchiesta per vedere come e quanta gente arrivasse in Italia. L’inchiesta aveva lo scopo di mostrare dove fossero gli illegali, da dove venissero gli immigrati clandestini, e abbiamo scoperto che la percentuale di persone che arrivano dal sud è assolutamente minoritaria, perché metà delle persone che entrano illegalmente in Italia entrano da est, da Trieste, dai valichi di frontiera, oppure arrivano nascosti al porto di Ancona. Un’altra cifra consistente di persone non arrivano illegalmente, ma con un visto turistico, un permesso di soggiorno temporaneo, un visto di studio e poi non vanno via quando gli scade, restano qui e si trasformano quindi in immigrati illegali. Questo non vuol dire sostenere una tesi piuttosto che un’altra, significa dare degli strumenti di conoscenza. Infatti, mentre noi oggi pensiamo che bisogna fermare l’immigrazione che arriva da sud, dal mare, non ci accorgiamo che invece i flussi più pesanti arrivano da un’altra parte, sono diversi. Detto questo, cnei giornali bisogna ricordarsi continuamente che dietro le storie, dietro i nomi, dietro i numeri, ci sono gli esseri umani, ci sono delle persone che vanno sempre rispettate, che vanno osservate, che vanno conosciute senza pregiudizi, senza preconcetti.
Quello che mi è piaciuto di più sulla crisi americana – ho poi scritto un libro su questo argomento, di cui parleremo oggi pomeriggio – è stato vedere tutti quegli articoli che parlavano della crisi americana, della recessione, del crollo della finanza, pieni di numeri che dicevano che una abitazione americana su nove era vuota e disabitata, che più della metà degli americani che avevano un mutuo sono, tra virgolette, sott’acqua, che il debito che hanno è più grande del valore della casa. Erano tutti articoli zeppi di numeri: un milione, due milioni, tre milioni di persone che avevano avuto la casa pignorata. Questi numeri dicono molto, ma non ci restituiscono niente della vita perché non ci raccontano le storie, non ci dicono che cosa c’è dietro. Allora quello che ho cercato di fare è di andare a cercare le facce delle persone. Andare a cercare le famiglie che avevano perso la casa, andare a cercare i disoccupati e scoprire, tra le altre, anche storie completamente diverse, perché io mentre cercavo l’America in crisi ho trovato invece il racconto di una America che cerca di tirarsi su, che vuole ripartire. Volevo raccontare la storia della “General Motors”, la fabbrica più vecchia negli Stati Uniti, che stava a Jamesville nel Wisconsin e che avrebbe compiuto novant’anni questa primavera. La fabbrica produceva i Suv, le jeep, macchinoni giganteschi di cui l’America è andata fiera per anni ma che sono andati completamente in crisi, prima per la crescita del prezzo del petrolio, poi con la crisi economica e improvvisamente, il 22 di dicembre dello scorso anno, alla vigilia di Natale, i 2000 lavoratori sono stati licenziati tutti e la fabbrica è stata chiusa. Io ero andato a febbraio per raccontare la storia di una fabbrica chiusa, la storia di 2000 disoccupati. La storia che ho travato è che più di ottocento di questi, persone in media tra i 40 e i 55 anni, erano tutti in un college, si erano rimessi a studiare e ho trovato una storia di speranza, non di disperazione: la speranza di persone che avevano visto tramontare il loro lavoro, ma anziché aspettare che qualcuno gli desse un sussidio o qualcosa, anziché incatenarsi ai cancelli della fabbrica, erano tornati a scuola per imparare qualcos’altro, per inventarsi una vita nuova, diversa, per ricominciare, per ripartire. Avevano scommesso su loro stessi.
Questo però è possibile vederlo se non si parte con un pregiudizio. Se io fossi andato lì con l’idea che dovevo raccontare l’America in ginocchio, non avrei visto questa cosa. Se avessi dovuto raccontare che era solo disperazione non l’avrei vista, invece io ho fatto un racconto che finisce con due persone che prima stavano alla catena di montaggio e montavano i seggiolini delle Jeep, e che invece adesso studiano da cuochi, e che mi hanno detto: “La nostra difficoltà oggi è che noi abbiamo sempre fatto lavori di forza con le mani, e invece adesso dobbiamo essere delicati perché non si sgonfino i soufflé”. In tutto questo uno dei due, mentre andavo via, mi ha fermato e mi ha detto: “Lo dico sottovoce perché non vorrei che i colleghi si arrabbiassero, ma alla fine è una fortuna che la fabbrica abbia chiuso. Io avrei fatto tutta la vita quello stesso gesto e invece oggi ho la possibilità di tornare ad imparare, posso ricominciare, fare qualcosa di diverso. In fin dei conti ho sempre sognato di fare il cuoco e oggi ho la possibilità di farlo”. Allora queste cose le vedi soltanto se non hai un pregiudizio, e le vedi soprattutto se metti le persone al centro. Per me questa è la cosa fondamentale e fa parte della mia esperienza.
Fin da bambino ho dovuto fare i conti col fatto che mio padre era stato ammazzato quando avevo due anni e mezzo, e col fatto che l’immagine che c’era di lui non corrispondeva per nulla con quello che ci raccontava mia madre. Per anni ho evitato di approfondire questo aspetto ma nel lavoro di ricerca che poi ho fatto per scoprire chi era, ho imparato qualcosa che considero, come dire, una vaccinazione contro le risposte facili, scontate di cui vi parlavo prima. Per anni sono stati scritti migliaia di articoli che facevano un passaggio in cui si diceva che Luigi Calabresi era un uomo della Cia, al servizio della Cia, addestrato dagli americani. Ho trovato scritto questa frase migliaia di volte, l’ultima volta su un settimanale a metà degli anni novanta. Mi sono sempre chiesto come fosse possibile che centinaia di giornalisti diversi avessero scritto le stesse cose senza che a nessuno di loro venisse la curiosità di sapere come mai, come dice mia figlia Emma. Perché, come dice invece Irene, era un servo della Cia? Perché aveva studiato negli Stati Uniti ? Quando? Dove? Non era un percorso difficile, non bisognava avere acceso agli archivi della Cia, bastava per esempio controllare un dato semplicissimo. Si diceva che nel 1964-65 mio padre fosse l’agente di collegamento tra una serie di generali americani e generali golpisti italiani. Nel 1964-65 mio padre era ancora all’università, era uno studente fuori corso: ora immaginate se la Cia usa come uomo di riferimento in Italia uno studente fuori corso che non si è ancora laureato. Basterebbe il dato biografico. Poi ho scoperto che mio padre non sapeva neanche una parola di inglese, neanche una. Ha fatto due viaggi all’estero nella sua vita: il viaggio di nozze con mia madre in Spagna e un viaggio per lavoro alla ricerca di esplosivi dopo la strage di piazza Fontana in Svizzera. Non è mai andato da nessun altra parte. Non viaggiava, non parlava l’inglese, non c’erano timbri sul suo passaporto, ma a nessuno è mai venuto il dubbio di chiedersi: “Sarà vero quello che sto scrivendo? Sarà così?”. Il problema è che abbiamo vissuto anni di semplificazioni e ancora li viviamo. Anche oggi ci sono semplificazioni per cui bisogna appartenere ad una parte, stare da una parte o dall’altra. Io non ci riesco, anche se questo ha un prezzo, il fatto di non scegliere un ambiente caldo a cui appartenere, ad esempio.
Vi parlavo appunto dei simboli, quella cosa che ci viene venduta dal conformismo, dalla vulgata. Io penso che il terrorismo abbia preso piede in Italia negli anni ’70 anche perché c’era un certo retroterra culturale, e il terrorismo coltiva dei simboli. Era difficile, ad esempio, pensare di sparare ad un padre di famiglia come il giudice Alessandrini che aveva appena lasciato il figlio davanti alla scuola elementare. Invece quando chiude la porta e parte, al semaforo gli sparano in testa. Sparavano al giudice, al servo dello stato, perché si rifiutavano di immaginare il padre di famiglia. Sparavano al dottor Marangoni perché cercava di far funzionare il policlinico di Milano o al dottor Esposito che comandava la Digos a Genova. Gli hanno sparato mentre stava prendendo l’autobus per andare a lavorare. Allora però tutti venivano trasformati in simboli. La cosa che spaventa di più è la spersonalizzazione, è il momento in cui parliamo di persone per cliché, per frasi fatte, per partito preso, quando perdiamo di vista gli uomini. Mi dispiace che sia ancora qui in sala Giampaolo Pansa, perché volevo parlare di lui ma il fatto che sia qui presente mi rende tutto più difficile, però, visto che è un po’ nascosto al buio, farò finta che non ci sia.
Il punto è che non è vero che le cose non si potevano vedere, non si potevano raccontare e questo non valeva solo negli anni del terrorismo. Vale anche oggi. Non è vero che non si possono raccontare le cose in modo diverso da come appaiono, perché io nella mia lunghissima ricerca fatta in una biblioteca milanese, la biblioteca Sormani, in cui mi sono riletto tutti i giornali dal giorno di Piazza Fontana alla morte di mio padre, il giorno dopo la morte di mio padre ho trovato un articolo di Giampaolo Pansa che non aveva nessun partito preso, che aveva dentro una persona, e io me lo tengo stretto questo articolo perché raccontava l’uomo, raccontava la persona, non aveva pregiudizi e, badate bene, era difficile parlare con umanità di mio padre sui giornali il 18 maggio 1972, dopo la campagna di stampa che c’era stata contro di lui. Eppure Giampaolo Pansa, il giorno dopo, era stato capace di scrivere un articolo in cui raccontava i suoi ultimi giorni, le sue paure, il momento in cui usciva dall’ufficio tardi per andare a casa e si fermava sotto, quello che aveva detto agli amici. C’era umanità. Alla fine io penso che questa sia la chiave per conoscere, che è questa la chiave per fare buoni giornali: farsi domande e avere umanità, e l’umanità deve venire prima delle nostre convinzioni.
E vi dico questo: c’è un’altra frase, che voi conoscete bene, che dice che la verità rende liberi. Si può interpretare in molti modi: si può pensare che la verità ci rende liberi nel mondo, invece io penso che la verità ci rende liberi con noi stessi. Cioè, se tu pensi, spieghi, dici, racconti una cosa e sai che coincide con la verità, coincide con la realtà delle cose che sono successe o con quello che hai visto, con quello che hai fatto di giusto o che hai fatto di sbagliato, alla fine la verità non è un neon che ti rende libero perché dice “Sta dicendo la verità”, è piuttosto qualcosa che ti permette la sera, quando spegni la luce, di stare bene con te stesso, di essere a posto con la tua coscienza, e alla fine io penso che quando uno fa i conti con se stesso ed è sereno per quello che ha fatto, anche se intorno soffia la bufera e ci sono delle incomprensioni, uno è comunque in pace. Io dicendo questo penso a tante cose che sono successe nella mia vita, penso a mia madre che mi diceva che quando mio padre spegneva la luce la sera era in pace con se stesso, e per me questo è il senso della frase che la verità rende liberi.
ALBERTO SAVORANA:
Non stupisce che due bambini che si affacciano alla vita chiedono “perché?” e “come mai?”. Chiunque di noi ha un figlio, sa che questa è una esperienza normale, così normale che quasi non ci si fa caso. Consideriamo quasi scontato che un bambino chieda “perché?”. Quello che invece non è scontato, e infatti è una merce molto rara, è che un uomo maturo, nel pieno degli anni, per esercitare il suo compito nella vita, nella realtà, nella società, in questo caso nel mondo dell’informazione, usi lo stesso identico metodo di un bambino. Questo significa che è ingenuo? Indica che non ha ancora fatto il passo dell’età adulta? No. Come diceva Giussani in una delle frasi che mi ha sempre colpito di più, la domanda è l’avamposto dell’uomo in battaglia, è il punto in cui un uomo maturo, cosciente di sé, si lancia nel paragone con la realtà. Magari si lancia partendo dai preconcetti, dai pregiudizi, da quello che ha già incontrato, visto e conosciuto, ma lo fa con una ferita. Il racconto di Calabresi mi sorprende perché ogni parola è legata ad un fatto, ad una circostanza che ha fatto avanzare il percorso di una conoscenza che un istante prima non era previsto, predefinito, anche se i superiori sapevano già che cosa avrebbe dovuto scrivere di una certo argomento. Allora io gli vorrei chiedere, perché mi incuriosisce, che cosa in questa lotta, in cui a volte ci si può trovare anche soli, in cui ci si può trovare in difficoltà nella propria casa, non quella famigliare, ma quella lavorativa, che cosa ti ha aiutato di più. Che cosa ha tenuto desto questo atteggiamento per cui se devi fare un pezzo su Bush, non ti fermi al senso comune? O se devi fare l’inchiesta sugli immigrati, non ti fermi ai numeri soliti? Che cosa ti ha aiutato di più o da chi hai imparato questo sguardo accanito, nella dialettica con la realtà delle cose?
MARIO CALABRESI:
Quando ho fatto l’esame per entrare alla scuola di giornalismo di Milano, a una domanda ho risposto nel modo che per me era naturale, dopo ho saputo che quella risposta mi stava precludendo la possibilità di entrare alla scuola. Mi hanno chiesto: “Perché vuole fare il giornalista?”. Quelli che erano venuti prima di me avevano dato risposte molto articolate. Ad esempio: “Perché ho letto i grandi maestri” o “Perché credo nel ruolo fondamentale del giornalista”. Io ho riposto d’istinto: “Perché sono curioso”. Questi mi hanno guardato e mi hanno detto: “E poi?”. Io non sapevo cos’altro dire: “Perché sono curioso di vedere le cose, di capire”. Dopo un membro della commissione all’uscita mi ha detto: “Ehi, ce l’hai fatta per un pelo perché gli scritti erano buoni, però quella risposta…”. Io devo dire, adesso che è passato un po’ di tempo, che rivendico quella risposta. E la ripeto ancora oggi.
La curiosità, che poi è il discorso che abbiamo appena fatto, il porsi delle domande, l’essere curiosi, la voglia di conoscere le cose, credo che sia il migliore dei motori, un motore potenzialmente inesauribile. Prendete la storia di Bernie Mardoff, il grande truffatore americano, l’uomo che ha fatto la più grande truffa della storia. Ho lavorato molto su di lui, molto più di quanto ci fosse bisogno per scrivere sul giornale, perché poi non mi hanno fatto scrivere molto su Repubblica. Pensavo di scrivere qualcosa nel libro, poi non ho mai scritto niente ma alla fine la mia curiosità di cercare di capirlo era grande e mi ha spinto a leggere tutto quello che c’era scritto su di lui. Ho fatto anche un viaggio tra i truffati per comprendere come una persona fosse riuscita a carpire la fiducia di così tanta gente, come avesse fatto ad ingannarla e l’ultima passo che ho fatto è stato mettermi in coda alla sei del mattino per andare in tribunale a vederlo. Quella è stata l’unica volta in cui è apparso e siccome dal davanti non si riusciva a vederlo, perché lui guardava la Corte, guardava il giudice, io per vederlo mi sono messo un po’ di lato e sono stato per tre ore a fissarlo perché ero curioso di vedere i dettagli, volevo capire quello che faceva ed era difficilissimo perché l’uomo stava immobile. Però, ad un certo punto, ho visto che aveva le mani dietro la schiena e che continuava a tormentarsi un pollice. Allora mi sono detto: “C’è qualcosa di umano in quello che da tutti viene considerato diabolico”, e poi mi sono accorto perché metteva la faccia di traverso, perché stava apparentemente immobile. Quando hanno parlato alcune delle sue vittime aveva un tic e gli tremava la palpebra dell’occhio destro, e questi segnali mi hanno fatto capire che dentro c’era qualcosa, che quell’uomo non era monolitico come ce lo stavano dipingendo. Oggi sembra che stia morendo di tumore, che abbia un cancro al pancreas. Allora io mi sono fatto un’idea, non so se sia vera o meno nonostante tutto quello che ho letto, però sono andato a cercare, l’ho fatto per me stesso, non ne ho scritto nulla ma la cosa mi incuriosiva. È un mostro privo di qualunque scrupolo che ha truffato un sacco di gente, compresi i suoi migliori amici, ha cercato di farla franca fin che ha potuto, ha vuotato il sacco è andato in galera, oggi è murato lì, era il diavolo, punto e fine? Possiamo accontentarci di questa storia? Allora c’è una sfida pericolosa che è quella di dire: l’umano dov’era dentro questa persona? E da questa domanda vai a cercare altre cose nella sua biografia, altri dettagli, vai a scoprire che probabilmente non ha cominciato la truffa pensando scientificamente di fare una truffa, ma ha cominciato sciorinando grandi risultati perché voleva essere accolto in un mondo, perché voleva godere di una buona reputazione, e il finale di questa parabola, se sarà così, se è vero che sta morendo di cancro al pancreas, ci dice che il grande truffatore amava alla fine i suoi figli e sua moglie. Lui poi ha fatto un accordo con i giudici apparentemente strano: avrebbe accettato di non difendersi e si sarebbe dichiarato colpevole di tutto a patto che non gli venisse chiesto di spiegare niente e a patto che non gli venisse chiesto di testimoniare contro altri e che tutto quello che avrebbe detto non potesse essere usato contro altri in altri processi. Per uno che aveva davanti a sé magari 20 anni di carcere, è difficile pensare che non volesse spiegare nulla, ma alla luce del fatto che forse avrebbe potuto avere due o tre mesi di vita, a me è sembrata chiara un’altra lettura: lui si è presa tutta la responsabilità perché voleva salvare la vita di sua moglie e dei suoi figli, perché sapeva che per lui era finita. Badate bene che non lo sto giustificando, però mi attira l’idea di andare a cercare di capire che cosa c’era in quest’uomo al di là della lettura classica, monolitica. In fondo è stato lui a dire ai figli che aveva fatto una mega truffa, li aveva messi lui nelle condizioni di avvisare l’FBI che il padre aveva fatto una mega truffa e di arrestarlo. Tutti si sono chiesti perché ha agito così, perché non è andato avanti nella truffa, perché non è scappato. Se fosse scappato, si dice, prima o poi l’avrebbero preso. Avrebbero arrestato i figli e la moglie, e invece lui nel momento in cui ha capito che era malato, ha preferito prendersi tutta la responsabilità per salvare la famiglia. Mardoff poi era una persona spregevole. Io sono andato a vedere le persone che ha rovinato: ho trovato una coppia di ottantenni che gli aveva affidato tutti i suoi risparmi e viveva in una casa di riposo fuori New York, una bella casa di riposo, e pagava la retta con gli utili, che arrivava ogni mese, dei soldi che avevano investito con Mardoff. Hanno perso tutto, non hanno più niente e quest’uomo confuso cercava di spiegare alla moglie che non avevano più niente. Il direttore della casa di riposo, finché io sono stato lì, gli ha detto: “Non importa, questo mese non vi facciamo pagare la retta e vi teniamo qui”. Io non so dove sono finite queste due persone. Questo per dire che io ho visto che cosa ha fatto, le vite, le sicurezze, i sogni che quell’uomo ha distrutto. Però questo non toglie che fosse anche lui una persona, e ci deve essere la curiosità di andare a cercare di capire che tipo di persona fosse: una persona spregevole, un delinquente, però una persona. Ci vogliono la curiosità e la voglia di capire.
Le risposte preconfezionate ci permettono di alzarci tardi la mattina e di andare a pranzo e a cena. La curiosità spesso è una compagna faticosa perché ti impone di alzarti presto, ti fa saltare i pranzi e le cene, ti fa far tardi e spesso ti lascia con l’amaro in bocca perché non l’hai soddisfatta tutta. È una compagna di vita che pretende, che chiede, però io penso che sia l’unica compagna di vita, insieme all’amore per le cose e per la ricerca. Mi riesce imbarazzante dire “amore per la verità”, perché mi sembra talmente grande l’idea di verità che non me la sento di dire che sui giornali, in cui si sbaglia e si cambia spesso, ci sia la verità. Mi ha sempre messo un po’ in imbarazzo, soprattutto perché veniamo da un secolo in cui in nome della verità, con la “V” maiuscola, e in nome delle ideologie, sono stati fatti massacri, sono stati giustificati genocidi, pogrom, pulizie etniche, stragi, sono stati giustificati i gulag e i lager. Quindi l’idea che ci sia la verità e che sui giornali ci possa essere la verità un po’ mi imbarazza. Ci possono essere, ci devono essere tentativi di conoscere, di far conoscere, di spiegare, di decriptare. Questi, secondo me, insieme alla curiosità e all’amore per la ricerca sono i compagni migliori che si possono avere.
ALBERTO SAVORANA:
Mi ha colpito molto la risposta che hai dato all’esame di giornalismo perché è disarmante tanto è vera. Quella è una verità, perché stabilisce la condizione prima senza la quale tutto diventa più difficile. Senza quella premessa la vecchiaia, non solo come momento biografico, ma come atteggiamento mentale, avanza e un uomo che non sia curioso, che non sia desideroso di rendersi conto della realtà, non è uomo. Io ho vissuto e lavorato accanto a don Giussani e una delle cose che ho trattenuto di più, che era più sorprendente per me, è che nei suoi ultimi anni di vita la domanda era in lui la nota dominante. Quando gli si raccontava qualche cosa, quando gli si parlava di qualcosa – incontri, persone, eventi, circostanze -, domandava sempre: “Com’è successo?”. Allora si cominciava: “C’è stato questo, c’è stato quest’altro”. E lui rispondeva: “No, no. Come è successo? Perché è successo, come è possibile?”. Ed io ho imparato da questo atteggiamento, attraverso l’insistente domanda di un uomo che ben conosceva la vita e la realtà, e che avrebbe potuto anche pensare di non avere più niente da imparare, che in ogni realtà umana, fosse anche il peggior truffatore, c’è una eccedenza, c’è un mistero, c’è qualcosa che la somma degli antecedenti, dei fatti, dei gesti, degli atti e degli errori non riesce a definire completamente. Il cammino della conoscenza è questa lotta per arrivare fino al punto in cui uno scopre quel fattore, quell’elemento senza il quale non si può dire di avere conosciuto una cosa, una persona.
Questo è misterioso, è un tentativo che non si finisce mai di rinnovare e che trova nella parola “avvenimento”, che dà sostanza al titolo del Meeting, la sua formulazione. Perché questo percorso è l’imprevisto di cui ieri don Carrón ci ha dato un esempio eclatante, parlando della figura di San Paolo: un uomo del suo tempo, un ebreo zelante ed osservante che faceva a gara con i farisei nell’applicazione della legge ebraica, un uomo pieno di preconcetti e pregiudizi cui però succede un avvenimento imprevisto, inimmaginabile, che cambia letteralmente la sua vita. Ma questo non riguarda solo San Paolo, riguarda ciascuno di noi, direttore di giornale o impiegato, studente o madre di famiglia, perché a questo livello siamo tutti sullo stesso piano.
La sfida della conoscenza non è un fenomeno da intellettuali ma è il campo su cui si gioca la partita della vita. Un uomo che non conosce resta fermo, un uomo che non scopre nel rapporto con la realtà qualcosa che prima non conosceva è finito, e infatti non è libero, come diceva Calabresi, cioè non trova soddisfazione nella ricchezza di ciò in cui si imbatte. Concludendo, vedete che avevo ragione. Avere avuto solo Calabresi ci ha dato modo di cominciare a entrare dentro una persona che qualcuno avrà visto in televisione o letto come firma. Anche in questo caso però c’è un’eccedenza, c’è un’umanità, c’è un uomo dietro quella firma ed è questo che noi stimiamo, è questo ciò per cui da 30 anni facciamo il Meeting. Noi siamo desiderosi di incontrare le persone più diverse e non vogliamo fargli l’esame ma vogliamo solo sentire che cosa significa per loro che la conoscenza è sempre un avvenimento. Ed è questo che, di esempio in esempio, di testimonianza in testimonianza, rende sempre più certi della strada che tanti anni fa abbiamo intrapreso e sulla quale, grazie a Dio, siamo ancora. Grazie a Mario Calabresi e buona giornata a tutti.
(Trascrizione non rivista dai relatori)