AMARE LA REALTÀ, DIFENDERE LA RAGIONE: GUARDARE IL MONDO CON GLI OCCHI DI CHESTERTON

Amare la realtà, difendere la ragione: guardare il mondo con gli occhi di Chesterton

23/08/2011 ore 11.15 Partecipano: Alison Milbank, Associate Professor of Literature and Theology at the Department of Theology and Religious Studies, University of Nottingham; Edoardo Rialti, Professore e Traduttore di Letteratura Inglese. Introduce Ubaldo Casotto, Giornalista.

Partecipano: Alison Milbank, Associate Professor of Literature and Theology at the Department of Theology and Religious Studies, University of Nottingham; Edoardo Rialti, Professore e Traduttore di Letteratura Inglese. Introduce Ubaldo Casotto, Giornalista.

 

UBALDO CASOTTO:
Benvenuti. Amare la realtà, difendere la ragione: guardare il mondo con gli occhi di Chesterton è il titolo di questo incontro. In un Meeting dal titolo E la vita diventa una immensa certezza, hanno chiamato noi tre a parlare di Chesterton, appunto su questo tema: amare la realtà, difendere la ragione. Io mi sono chiesto: cosa direbbe Chesterton, se fosse qui, della certezza? Devo dire che ieri sera, nella bellissima rappresentazione del Cavallo Bianco, un primo assaggio lo abbiamo avuto quando Maria, rivolta a re Alfred, dice: «Quegli uomini segnati dalla croce di Cristo vanno lieti nel buio». Oppure quando re Alfred, altro passaggio fantastico di ieri sera, dice che bisogna lanciare i propri cuori oltre le incertezze per guadagnare ciò che il cuore desidera. Ed il passaggio finale, quando re Alfred dice: «Io ho qualche dubbio, ma nel dubbio cavalco verso la battaglia». Leggendo Chesterton, ho trovato altre risposte a questo quesito sulla certezza, perché la certezza della vita coinvolge la certezza della sua origine e del suo destino. Quanto all’origine della vita, sentite cosa dice Chesterton nella sua Autobiografia: «Piegandomi con cieca credulità, come sono solito fare, alla mera autorità e alla tradizione dei miei maggiori, ingoiando superstiziosamente una storia che non mi fu possibile controllare a suo tempo con l’esperienza personale, io sono di opinione certissima di essere nato il 29 maggio 1874 a Chambery, in Kensington». Ecco, all’inizio della sua Autobiografia c’è la prima risposta su cosa sia per lui la certezza. Si è certi perché ci si fida di qualcuno, ci si fida di qualcun altro soprattutto nelle cose fondamentali della vita, come appunto nascere, che, dice Chesterton, è la cosa più importante che possa capitare a un uomo. La vera avventura della vita, conferma, non è sposarsi ma nascere.
Quell’avvenimento essenziale dell’esistenza di ciascuno di noi, di cui siamo indubbi protagonisti, come lui ci ha appena testimoniato, ma protagonisti passivi: c’eravamo ma non ricordiamo nulla. Che ci fossimo, è certo e la prova è che siamo qui a parlarne e a raccontarlo, ma la certezza sulla modalità, sui contenuti e sui tempi del fatto è affidata a dei testimoni di cui ci fidiamo. Questi testimoni, nel brano che vi ho letto, Chesterton li chiama “i miei maggiori”. C’è una pagina bellissima in Ortodossia, in cui lui racconta come abbia scoperto la veridicità di questi testimoni e di quel testimone decisivo per la sua vita che fu suo padre. Dice cosi: “Quando vostro padre, passeggiando per il giardino, vi diceva che le api pungono o che le rose hanno un dolce profumo, voi non parlavate di prendere il meglio della sua filosofia. Quando le api vi hanno pizzicato, non avete detto che era una divertente coincidenza. No, voi avete creduto a vostro padre perché vi è sembrato uno che fosse una viva sorgente di fatti, uno che realmente ne sapeva più di voi, uno che vi avrebbe detto la verità domani come ve l’aveva detta oggi”. Ma la locuzione “i nostri maggiori” individua un’altra grande autorità, oltre a quella paterna, che collabora in modo decisivo alla nostra certezza: la tradizione. Chesterton, con un’intuizione meravigliosa, chiama la tradizione “la democrazia dei morti”. Non concepisce perché l’uomo moderno debba fidarsi più delle insensatezze che dice il suo vicino – scusa, Edoardo – piuttosto che delle cose molto sagge perché hanno superato la prova del tempo, dette da una persona, appunto, che non dovremmo ascoltare solo perché è morta. Insomma, dice che si è certi perché si è forti di una tradizione viva che ci raggiunge.
C’è poi un secondo motivo, che è secondo solo di elenco, ma che forse è il primo, per cui l’esistenza per Chesterton è diventata un’immensa certezza, ed è la realtà. Si è certi, dice Chesterton, perché ci si fida della realtà, nel senso più materiale del termine. Ci sono innumerevoli brani nella sterminata opera di Chesterton che si potrebbero citare. Io ne ho scelto uno dal suo bellissimo libro su san Tommaso d’Aquino, che la professoressa Milbank poi ampiamente commenterà e citerà. Dice così: “Il sistema del D’Aquino parte dal punto di vista universale che un uovo è un uovo. Ora, un hegeliano replicherà che un uovo è una gallina, perché fa parte dell’infinito processo del divenire. Il seguace di Berkeley sosterrà che la frittata esiste come esistono i sogni, visto che il sogno si può dire la causa della frittata come la frittata è la causa del sogno. Il pragmatico sosterrà che il miglior partito da trarre da un uovo è quello di dimenticare che esso sia stato un uovo e ricordare soltanto la frittura. Ma il tomista, il realista, l’uomo comune, non ha bisogno di guastarsi il cervello per evitare di guastare le sue uova, né di guardare le uova in cagnesco, né di chiudere gli occhi per meglio meditare una nuova semplificazione delle uova. Dominatore nella luce sfavillante della fraternità umana, cioè dell’esperienza che ci accomuna tutti, egli constaterà che le uova non sono galline, né sogni, né supposizioni, bensì cose, attestate dall’autorità dei sensi, che è di Dio”. E il mondo è pieno di cose, come le uova, appunto, strappate al nulla – questa è un’altra delle cose bellissime di Chesterton, in tantissimi libri parla di come l’uomo realista, e soprattutto il massimo del realismo, che è il santo, veda le cose e le apprezzi perché sono strappate al nulla -: Chesterton dice che la pagina più poetica della letteratura mondiale è un elenco, l’elenco degli oggetti che Robinson Crusoe ha salvato dal naufragio, cioè ha strappato al nulla, alla perdizione. Dice che è un elenco che fa pensare al loro salvatore, un elenco di oggetti che indicano qualcuno che li ha sottratti al vuoto.
Quindi si diventa certi, per Chesterton, perché ci si fida delle cose come segni, non si è certi in virtù di una costruzione logica ma grazie all’evidenza di ciò che si vede. Dice infatti lui, a proposito dell’evidenza: “Io credo razionalissimamente appoggiandomi all’evidenza, ma l’evidenza, nel caso mio come in quello di un agnostico intelligente, non risiede in questa o in quella decantata dimostrazione. Essa risiede in una enorme accumulazione di piccoli ma univoci fatti, cioè in tanti segni. E’ proprio tale evidenza frammentaria che persuade. Voglio dire cioè che un uomo può lasciarsi convincere o meno intorno a una filosofia da quattro libri piuttosto che da un libro, da una battaglia, da un paesaggio e da un vecchio amico. Il fatto stesso che le cose sono di diversa specie rende più probante la constatazione che esse convergono in una medesima conclusione”. C’è un’idea, una teoria della conoscenza che – non mi dilungo perché lascio parlare i veri esperti – è bellissima nell’intuizione della realtà come segno. Bene. Di che cosa si diventa certi, allora? Io dico: dell’infinita positività dell’essere ma, come al solito, come lo dice Chesterton è molto meglio di come lo dico io.
Sempre nell’Autobiografia, c’è un passaggio che, da una parte, dice di come lui abbia scoperto la positività dell’essere, dall’altra dice della sua conversione dal pessimismo nichilista all’inizio del cammino che l’ha portato alla fede. “Difesi contro critici teatrali il merito teatrale di un dramma più recente che contiene molte cose buone. Il dramma è intitolato: Dove non c’è nulla, c’è Dio. Ma io andavo barcollando e gemevo, e mi travagliavo con una mia filosofia incipiente e incompiuta che era quasi il contrario dell’affermazione che dove non c’è nulla c’è Dio. A me la verità si presentava piuttosto in quell’altra forma: dove c’è qualcosa, c’è Dio. In filosofia, nessuna delle due affermazioni è adeguata ma sarei rimasto sbigottito se avessi saputo quanto il mio anything – qualcosa – fosse vicino all’ens di san Tommaso D’Aquino”. Permettetemi una citazione che sembra non c’entrare nulla con Chesterton ma che, quando l’ho letta, mi ha colpito per la sintonia. E’ una sentenza della Corte Suprema israeliana che ha dovuto pronunciarsi sul ricorso che alcune associazioni di portatori di handicap hanno fatto perché rivendicavano, visto il loro stato, che fosse sancito il diritto a non nascere. Non la facoltà dell’aborto, il diritto a non nascere. La Corte israeliana ha risposto così: “La condizione di chiunque abbia avuto l’opportunità di vedere la gloria del sorgere del sole e la bellezza delle nuvole azzurre e di sperimentare la vita in tutta la sua forza e il suo sapore, è sempre meglio di quella di colui a cui sia stata negata questa opportunità”. Non sarà un linguaggio giuridico ma è sicuramente molto efficace e, secondo me, anche molto chestertoniano. Si è infine certi, per Chesterton, di due grandi realtà, di due grandi eccezioni che lui vede nel creato. Lui le chiama “due cose che, viste alla luce del giorno, sono totalmente e indiscutibilmente uniche e strane: la creatura chiamata uomo e l’uomo chiamato Cristo”. Chesterton è certo del valore assoluto della persona umana e d è altrettanto certo della centralità storica e cosmica dell’uomo Cristo. Quanto all’uomo, Chesterton non ha problemi con l’evoluzione, lo racconta e lo spiega bene in un libro che si chiama L’uomo eterno. Per lui, un Dio personale può avere fatto le cose tutte insieme e pure poco per volta, non è un problema. Ma lui dice che è indubbio che ci siano due salti ontologici, due salti dell’essere nella storia del mondo. Il primo è quell’essere che dipinse una renna in una grotta e che è assolutamente innaturale – dice Chesterton – considerare come un prodotto solo naturale, come ad esempio un elemento, come una parte del paesaggio. Il secondo è quell’altro essere trovato sempre in una grotta, un’altra grotta, dai sapienti del suo tempo, i Magi. Essi cercavano sì qualcosa di nuovo ma si trovarono davanti qualcosa di assolutamente inaspettato: un altro mondo, un nuovo mondo, un mondo più grande di quello vecchio. Chesterton insiste tantissimo sull’uso di questo aggettivo: grande, più grande. Anzi, lui dice più largo. “Divenni cristiano – dice – perché il cristianesimo era una dottrina più larga”. Quando ho sentito Benedetto XVI dire che il compito dell’uomo moderno è di allargare la ragione, pensate a come sono stato lieto di averlo letto, tanti anni fa, in Chesterton. E come sia stato lieto della profezia di questo genio!
Ma si accorge, Chesterton, abbastanza in fretta, che il motivo della sua certezza non può essere solo una filosofia, una dottrina. Il cristianesimo, il cattolicesimo cui lui si converte definitivamente nel 1922 o Ortodossia, che è il suo libro più bello, lo scrive nel 1908, non possono essere solo una dottrina, sono qualcosa di più di una dottrina. E infatti, ad un certo punto, scrive quest’ultima citazione: “Il cristianesimo non è una filosofia perché, essendo una visione – usa il termine nel senso letterale del termine, una cosa che vedo con gli occhi, non un sogno -, non è un modello cui ispirarsi ma è un quadro”. Non è di quelle semplificazioni che risolvono ogni cosa in un’astratta spiegazione, che tutto è ricorrente, che tutto è relativo, che tutto è illusorio. Non è un meccanismo ma un racconto, ha le proporzioni che si riscontrano in un quadro o in un racconto. Non ha le ripetizioni regolari di un modello o di un meccanismo ma le rimpiazza con l’essere convincente come un quadro o come un racconto. In altre parole, è esattamente come la vita perché infatti è vita. Insomma, se io non posso credere a quello che vedo – dice Chesterton – non posso non credere a quello che vedo, io amo quello che vedo con tutta la mia ragione e con tutta la mia libertà. E se qualcuno mette in dubbio questa esperienza evidente, sono pronto a sfidarlo a duello.
Tutti i libri di Chesterton, soprattutto in Ortodossia, dove è citato come lo spunto da cui il libro parte, sono la risposta a una sfida, cioè sono un duello. Un duello in nome della fede? No, in nome della ragione. Amare la realtà, difendere la ragione: è quello che, dopo questa mia tentativa introduzione, vi spiegheranno i veri esperti di questo incontro: la professoressa Milbank, studiosa inglese di religione anglicana, docente di Letteratura e Teologia all’università di Nottingham, autrice di un testo su Chesterton e Tolkien come teologi. E poi Edoardo Rialti, anche lui professore, letterato, traduttore dall’inglese e autore di una Chestertoniana in 18 puntate su Il Foglio, che adesso è stata raccolta e arricchita di una prefazione ed è diventata un libro per le edizioni di Cantagalli. Mi sono stupito, ieri, entrando in libreria. C’era scritto Narrativa e c’erano dieci metri lineari di libri solo di Chesterton. Era meglio se scrivevano Chestertoniana! Il libro di Rialti lo trovate, appunto, in questa sezione della libreria del Meeting. Prego, professoressa.

ALISON MILBANK:
Questa è la terza volta che vengo al Meeting, e ogni volta sono stata accolta più calorosamente, più gentilmente e sempre meglio. Divento praticamente un po’ come Chesterton, in questo abbraccio così allargato. Oggi viviamo in un mondo in cui la certezza viene sempre associata all’estremismo: o il credo fondamentalista di molti cristiani evangelici degli Stati Uniti o la militanza di molti movimenti islamisti. E’ paradossale, peraltro, che proprio le persone che denigrano queste certezze siano altrettanti militanti e atei, come Richard Dawkins in Inghilterra. Questi non credenti sostengono di avere una mentalità aperta e di seguire la verità, dovunque essa conduca, a patto che non conduca verso la fede in Dio. Parole come ortodossia suonano come un anatema per queste persone, perché associano al credo una certezza con i paraocchi. Chesterton conosceva bene questo atteggiamento negativo rispetto a un credo appassionato, quando si beffava dei liberi pensatori del primo ’900, con la sua biografia intellettuale intitolata provocatoriamente Ortodossia. Ma come cerca di argomentare quella brillante esibizione di paradossi, l’ortodossia non significa chiudere la porta alla discussione quanto piuttosto un’avventura pericolosa ed emozionante. Alcuni anni più tardi, nel 1923, Chesterton cercò di dimostrare che lo stesso Tommaso D’Aquino, la cui filosofia sistematica a volte veniva utilizzata da parte dei cattolici come un’arma di difesa contro il massacro del pensiero moderno e delle ideologie, non era un razionalista fatto e finito ma piuttosto una persona la cui mente risplende della luce e del calore e della meraviglia del creato. Chesterton voleva dimostrare che la filosofia di san Tommaso poteva essere una guida soddisfacente verso una certezza che portava all’insieme della realtà e che, come è vero per gli scienziati, aveva il diritto di basarsi sui fatti. Nello studio di Chesterton su san Tommaso, non troverete un’analisi sistematica e dettagliata della Summa Theologiae ma piuttosto una presentazione emozionante e convincente del nucleo centrale, la perla degli insegnamenti di san Tommaso, che ci porta ad avere una certezza, circa la nostra esperienza del mondo, tale da garantirci una libertà reale, dimostrandoci che della ragione ci si può fidare.
Questa fiducia nella bontà del mondo e nel ruolo della ragione non fu immediata per Chesterton. A volte viene presentato come l’ubriacone inglese barcollante delle sue poesie, una persona così piena del sogno di un’Inghilterra felice da essere troppo brillante, troppo ottimista per la sofferenza e per un mondo violento. Questo comunque significa non rendergli onore. William Oddie ha analizzato i documenti che risalgono all’epoca in cui Chesterton era studente presso la Slade Art School a Londra, e ha dimostrato che, attraverso un periodo di terribile depressione e buio dell’anima, dubitava di tutto e il mondo gli appariva satanico. Era l’epoca di esteti come Oscar Wilde e di poeti decadenti come Gabriele D’Annunzio: il loro credo, secondo Chesterton, era una rivoluzione copernicana. Ogni esperienza era ridotta a null’altro che impressione ed era assolutamente isolata, individuale, soggettiva. Il suo romanzo L’uomo che fu giovedì, il cui sottotitolo è Un incubo, fa capire quale fosse il suo stato d’animo, con eserciti di nichilisti che ricacciavano giù l’eroe e tutta la solida, cattolica società contadina francese che, da voltagabbana, dava man forte ai distruttori.
Il grande scrittore argentino J. L. Borges sostiene che Oscar Wilde era veramente uno scrittore ottimista e solare mentre l’opera di Chesterton è sempre sull’orlo dell’incubo: “Orrori e cose diaboliche si annidano al suo interno e la pagina più innocua può assumere l’aspetto del terrore”. La certezza di Chesterton, quindi, ha una qualità in qualche modo eroica ed è conquistata a fatica, non è l’ottimismo facile di una personalità solare ma piuttosto il balzo faticoso del cavaliere della fede di Kierkegaard. Chesterton peraltro è un cavaliere filosofico e viene salvato dalla ragione, dalla filosofia perenne di san Tommaso. Anche se non abbiamo le prove che san Tommaso abbia superato l’inferno di scetticismo che aveva dovuto attraversare Chesterton, nella Summa, comunque, fa il mondo a pezzi, come un bambino smonta il suo castello per poi ricomporlo, pezzo dopo pezzo. Ogni articolo, nella Summa, inizia con un’affermazione alla quale però seguono una serie di obiezioni, e poi di obiezioni alle obiezioni. Ed è solo alla fine che arriviamo a quel “ma io dico”, cioè alla risposta di san Tommaso. Tutto viene costantemente messo in dubbio. In una delle obiezioni ad un articolo, leggiamo anche: “quindi, Dio non esiste”. E quindi tutto, Dio stesso, viene messo in dubbio. Fino a che quel cavaliere valoroso che è san Tommaso ricaccia indietro le obiezioni alla ricerca della verità.
San Tommaso venne influenzato in modo importante dallo scrittore mistico che si faceva chiamare Dionigi l’Areopagita, dal suo cammino negativo verso Dio, con l’intervallarsi di enunciazioni del nome di Dio e l’uso però di negativi per avvicinarsi a comprendere la profondità del divino. Analogamente, in san Tommaso la certezza arriva solo a coronamento di un processo buio di messa in discussione. La prima domanda che si pone san Tommaso, secondo gli scritti di Chesterton, è la seguente: c’è qualcosa? E qui vediamo che l’intero castello della realtà è stato smantellato. Se Tommaso iniziasse rispondendo no, non sarebbe a questo punto l’inizio, ma la fine. Ed è ciò che noi definiamo buonsenso. O non c’è filosofia, non ci sono filosofi, non ci sono pensatori, non c’è pensiero, non c’è nulla, oppure c’è, c’è un collegamento, un ponte reale tra la mente e la realtà. Ciò che Chesterton vuole qui sostenere è che non si può effettivamente pensare se si è assolutamente scettici. Non c’è un tu che pensa e non c’è nulla da scoprire. E non possiamo effettivamente vivere così. Ed è per questo che il di san Tommaso viene quindi chiamato buonsenso. Chesterton lega questo buonsenso all’infanzia. Molti scrittori romantici lodavano i bambini per la loro vivida immaginazione, non Chesterton, però. Lui li lodava per il loro senso di ciò che era effettivamente reale.
Nei suoi studi su san Tommaso, scrive di uno scienziato che sosteneva che un bambino che guarda fuori dalla finestra della sua cameretta non vede erba ma solo una specie di nebbiolina verde, riflessa nel piccolo specchio del suo occhio. Chesterton, quindi, seguendo san Tommaso, sostiene che il bambino vede comunque qualcosa, anche prima di poter dare a quel qualcosa il nome di erba. Si rende conto che c’è qualche cosa lì fuori, che c’è un essere, un ens, qualche cosa che è di per sé. E noi aspettiamo sempre con ansia le prime parole dei nostri bambini: papà, mamma, latte, orsetto. Queste parole ci mostrano che il bambino è consapevole di una alterità, di qualche cosa che va al di là di se stesso. Ciò che il bambino dice, è che c’è un è, ciò che potrebbe essere definito come intuizione di un essere. E con questo arriva anche la comprensione di una contraddizione. Comunque si definisca ciò che il bambino vede – la luna piuttosto che un miraggio -, quando la vede sa che non è vero che non la vede. Una cosa non può essere e non essere. A volte, vediamo i bambini che fanno un gioco filosofico. In inglese, chiamiamo questo gioco peep-bo. Un momento il bambino si nasconde, non ti vede, poi viene fuori e fa bo!. Sigmund Feud, persino lui, guardava i suoi bambini, i suoi nipoti che facevano questo gioco, però alla tedesca, chiamandolo il gioco del fort-da.
La fase successiva della ricostruzione del mondo da parte di san Tommaso è il contingente. L’erba o il bambino sono una cosa ma non sono tutto ciò che potrebbero essere. E scrive: “Le cose cambiano perché non sono complete ma la loro realtà può essere spiegata solo come parte di un qualcosa che, viceversa, completo è. E quel qualcosa è Dio” scrive Chesterton. Questo, sostiene, è il punto in cui gli scettici sbagliano. Il fatto stesso che l’analisi di un fenomeno, di una cosa, ci faccia capire che quella non è una cosa fissa, definitiva, porta questi scettici a dire che tutto è non finito e non definitivo. Peraltro, l’elemento sbalorditivo della loro realtà non può essere l’irrealtà, deve essere invece il loro rapporto con la realtà vera. Dio è più vero di noi.
Spero di non avervi confuso con tutti questi vero, veramente, realtà. San Tommaso, secondo Chesterton, ci dice che se guardiamo l’esistenza come il bambino guarda l’erba, sembra effettivamente secondaria e dipendente: l’esistenza esiste ma non è completamente autosufficiente e non lo diventerà mai, semplicemente continuando ad esistere. Ha infatti una potenzialità, potrebbe per esempio diventare qualcosa di più, come una scatola di semi o di fuochi d’artificio. Chesterton esprime la sua concezione del mondo, in modo estremamente vivace, nella conclusione de L’uomo che fu giovedì. Gabriel Syme si ritrova in una viuzza inglese dopo tutti gli eventi simili a un sogno del romanzo e gli sembra di essere in possesso di una buona notizia, una notizia impossibile, che rende tutte le altre piccole cose banali ma banalmente adorabili. San Tommaso, secondo Chesterton, è passato dal mondo delle cose a Dio perché, paradossalmente, perché ci sia effettivamente un cambiamento delle cose ci deve essere una potenzialità racchiusa in quelle cose. Se l’erba cresce e appassisce, necessariamente fa parte di un qualcosa di più grande, di più reale. Non che l’erba peraltro sia meno reale di quello che sembra. Se le cose possono essere migliori, ci deve essere un meglio, un più grande, all’interno del quale tutte queste potenzialità siano racchiuse. Ed è di Dio che abbiamo bisogno per spiegare il fiore, il seme, il bambino. Altrimenti, vediamo solo un flusso, e il bambino può non esser nulla.
Chesterton sostiene che Dio, in san Tommaso, è come un artista perché crea cose diverse, e la differenza è un po’ come l’analogia. Il bambino che guarda fuori dalla finestra, presto effettivamente riconoscerà l’erba, i fiori, gli alberi, ma anche l’erba verde brillante, distinguendola dall’erba verde pistacchio, e le querce, distinguendole dagli ulivi. Il bambino quindi vede una forma, nel singolo filo d’erba, che gli permette di chiamare quell’oggetto erba, ma sarà anche in grado di gioire della sua particolarità. Essendo un artista, Dio non crea il mondo come uno scintillante velo di illusioni, secondo la mentalità orientale di Maja, ma con una varietà e differenza che costituiscono la realtà. Questo significa che la certezza che l’erba sia erba, e che il bambino sia un bambino, è vera ma corrisponde a una realtà che ci sfida nella sua alterità. Per il filosofo idealista, la mente è padrona ma solo sulla sua mente. Il mondo oltre il sé è morto, se non è reso vivo dalla mente. Per il filosofo lockeano, la mente è tabula rasa. Ma per san Tommaso, la mente è creativa, attiva nel suo incontro col mondo. Ogni volta che guardi, sei in comunione. Il bambino fa sua l’erba che vede e diventa tutt’uno con essa e diventa più grande, proprio perché l’erba resta se stessa e non è la stessa cosa del bambino.
Chesterton afferma: “La mente conquista una nuova provincia come un imperatore, ma solo perché ha risposto a un campanello, come un servo. La nostra certezza è come quando ricevi un regalo e senti il rumore della carta da regalo nelle tue mani. Ci vuole umiltà, per accettare un regalo”. Per fare un esempio del tomismo pragmatico di Chesterton, basta guardare i ben noti racconti gialli su Padre Brown. Ciascuno di questi racconti ha una struttura analoga agli articoli della Summa di san Tommaso. Si inizia con una situazione, un crimine che sembra impossibile e che sollecita una domanda. Poi si rimane nel dubbio, mentre i vari personaggi della storia provano a dare risposte. Alla fine, come san Tommaso dice io dico che…, così abbiamo la risoluzione del problema da parte di Padre Brown, che tiene conto di tutte le obiezioni.
Forse conoscete il racconto dell’Uomo invisibile? Smythe è un inventore che vive in un appartamento a nord di Londra con i suoi servi meccanici, robot che fanno i lavori di casa. Da un certo punto di vista, Smythe è un po’ come un filosofo idealista, il cui mondo è il risultato dei suoi pensieri. Riceve una minaccia di morte e quattro persone diverse vengono incaricate di controllare l’entrata al suo condominio, per assicurarsi che nessuno vada da lui prima che arrivi la polizia. E anche se i quattro giurano che nessuno è entrato o uscito dal palazzo, Padre Brown, quando arriva con il suo amico investigatore, indica una serie di impronte che conducono verso la porta, e altre in senso inverso, ben visibili sulla neve bianca; poi scoprono che Smythe è scomparso, lasciando solo una pozza di sangue, sotto gli occhi dei suoi servi meccanici. Questa situazione ci lascia completamente al buio, nel dubbio e nell’incertezza. Che mondo può produrre una situazione così impossibile? Come al solito, in tutti i racconti di padre Brown sono i materialisti che perdono il senno e cercano spiegazioni sovrannaturali. Il giornalista ateo sostiene che “la materia si è ribellata e le macchine hanno ucciso il loro padrone. Comunque non si capisce cosa ne abbiano fatto. L’hanno mangiato? Suggerisce l’incubo al suo orecchio”. I protagonisti cominciano tutti a parlare di cose diverse, uomini invisibili, fate, magie. Ed è solo Padre Brown che trova invece la risposta prosaica e che fornisce una spiegazione con parole concrete e precise, diverse dalle parole degli altri, fumose e vaghe. Cito: “E’ vestito abbastanza bene, elegante, in rosso, blu e oro. Con questo vestito così particolare e visibile, entra nel condominio dell’Himalaya, visto da quattro persone. Uccide Smythe a sangue freddo ed esce sulla strada portando con sé, tra le sue braccia, il corpo morto di Smythe”. Nella Gran Bretagna di oggi, direi che il suo vestito sarebbe arancione e blu, l’uniforme dei postini. E’ talmente banale e scontato che risulta veramente invisibile: non viene neanche preso in considerazione come persona da coloro che sono lì di guardia.
L’effetto di questa storia non è di delusione, una volta che sappiamo qual è la soluzione del mistero. Il peso del mistero, la sospensione della certezza non svaniscono. Piuttosto guardiamo all’uomo, o alla donna che porta le lettere, i pacchetti, con uno sguardo nuovo. Il mondo è di più, più meraviglioso, non meno che più misterioso di prima. E questa è la fine della storia: “Padre Brown passeggiò poi per molte ore su quelle colline coperte di neve, sotto le stelle con un omicida, e quello che si sono detti non lo sapremo mai”. Come succede con il creato e con le persone in san Tommaso, qui c’è una profondità reale e una radiosità del reale. Non conosciamo mai perfettamente un altro essere umano, in questa vita, né un fiocco di neve, ma vediamo in loro l’esistenza, l’essere, la potenzialità. E nel vedere questo, li riconosciamo come altri. Attraverso questa misteriosa profondità, siamo collegati ad essi e a Dio, siamo in contatto con l’essere stesso e possiamo intuire il reale. Nel realismo moderato di san Tommaso, e anche nei romanzi di Chesterton, il mondo sfugge alla nostra presa, ci si mostra strano ed incerto solo perché la certezza possa poi prevalere. Tommaso era talmente di grosso che l’avevano soprannominato il bue muto; anche Chesterton era alto e largo di cintura. Entrambi erano uomini di grandi dimensioni e di altrettanto grande gentilezza: spesso li immagino come Babbo Natale. Come Babbo Natale, arrivano nel buio della notte del dubbio e ci regalano la certezza nella realtà del mondo che è creazione di Dio. Un gigantesco regalo di Natale, che si apre per donarci Dio stesso, Dio con noi, la cosa più certa del mondo.

UBALDO CASOTTO:
Grazie, professoressa Milbank, per le tantissime cose che ha detto, che potrete leggere quando saranno pubblicati gli atti del Meeting e che andrebbero ricordate tutte. Io ne voglio sottolineare solo due: una è quella cosa bellissima che ha detto all’inizio, quando ha spiegato che l’ortodossia non è la pacificazione dei sensi ma un’avventura. Lei ha usato una parola bellissima, un thriller, l’avventura dell’ortodossia è come un thriller, quello che rende viva e vivace la vita. La seconda cosa è il richiamo, sul quale si è molto dilungata, sull’importanza che per Chesterton ha la figura del bambino. Chesterton ha pagine meravigliose dove spiega che il bambino è il prototipo dell’uomo vero, del filosofo, perché è capace di stupore davanti all’essere. Dice: un adulto si stupisce perché in un romanzo si scrive che si aprì la porta e dietro la porta c’era un assassino. Un bambino si stupisce perché si dice che si aprì la porta. Io ho capito di più questa cosa, quando ho dovuto fare una conferenza su Chesterton, perché il giorno prima di farla ero fermo al semaforo rosso. Passa un bambino in braccio a sua madre e fa: “Mamma, guarda che bello, è rosso”. Chi di noi si stupisce ed è contento che un semaforo sia rosso? C’è un’eccezione. Ci piaceva che il semaforo fosse rosso quando, da giovani innamorati, ne approfittavamo per baciarci, quindi per stupirci dell’essere in modo assoluto – lei diceva – in modo sbalorditivo, in modo adorabile: bisogna essere bambini o innamorati. Chesterton è stato un grande innamorato e di questo grande innamorato che ha sfidato a duello il mondo ci parla adesso Edoardo Rialti.

EDOARDO RIALTI:
Buongiorno da parte mia. E’ sempre un grande onore e una grande gioia essere qui al Meeting, e parlare di Chesterton al Meeting, è una gioia nella gioia. Al centro di uno dei primi romanzi, che lo ha reso famoso a livello internazionale, L’uomo che fu Giovedì, viene raccontato un duello con le spade. Il protagonista, il poliziotto Gabriel Syme, si trova a fronteggiare un tenebroso barone francese vestito di velluto nero, che non soltanto riesce a parare praticamente tutti i colpi del protagonista ma, ogni volta che viene infilzato, non versa neanche una goccia di sangue, come fosse uno stregone o, peggio ancora, un demonio. Man mano che il duello va avanti, l’abito nero del nemico sembra essere una sorta di buco di inchiostro che risucchia tutta la luce attorno: Syme sta combattendo contro un buio che sta inghiottendo tutto il mondo. E nell’ultimo disperato tentativo di lanciarsi contro il nemico, si trova addosso qualcosa che non sospettava. Leggo: “Syme raccolse tutte le proprie forze e tutto quello che c’era di buono in lui. Cantò alto nell’aria, come un vento alto canta tra gli alberi. Pensò a tutte le cose comuni in quella pazzesca storia, alle lanterne giapponesi di Saffron Park, alla chioma rossa della ragazza nel giardino, agli onesti marinai che trincavano birra lungo il dock, ai suoi leali compagni lì accanto. Forse era stato scelto proprio lui come campione di tutte quelle cose fresche e buone, perché incrociasse la spada col nemico della creazione”.
Questa immagine, secondo me, è una sorta di vero e proprio filo rosso di tutta l’opera e di tutta la vita di Chesterton. Pensate a tutte le storie che ha raccontato: non ha sempre raccontato qualcuno che punta la spada del proprio coraggio, della propria dedizione, contro un buio che, secondo l’espressione di una bella canzone di Chieffo, molto nota a molte persone qui, “le cose divora”? Persone che non si sono arrese al buio che le cose divora. Pensate al primo romanzo che Chesterton scrive, Il Napoleone di Notting Hill, in cui un piccolo quartiere si ribella contro una standardizzazione che divorerebbe le specificità personali, che cancellerebbe la gloria di quella piccola stradina che non è nota al mondo ma è il luogo dove una persona si è innamorata o dove è avvenuta una memorabile discussione tra amici. Pensate a quella che è forse la scena più famosa di Le avventure di un uomo vivo, in cui il protagonista punta la pistola contro il fumoso nichilismo di un professore universitario che sta negando il valore, la bellezza, la poesia di tutto l’universo, a partire dalle cose più grandi e più vaste fino ai dettagli più comuni della casa che gli sta davanti. Oppure, pensate ai protagonisti di La sfera e la croce, un ateo e un cattolico, in lotta l’uno con l’altro ma soprattutto – cosa ancora più decisiva – in lotta contro un mondo intero che vorrebbe impedire loro di incrociare le spade sull’unica questione che conti per davvero e che tutte le forze della modernità vogliono mettere a tacere: Dio esiste oppure no? E l’ateo e il cattolico, che pensavano di dover puntare l’uno la spada contro il petto dell’altro, si trovano invece nella paradossale situazione di essere fianco a fianco a puntarla contro tutto il resto del mondo.
Oppure, che cosa fa il capitano Dalroy se non combattere, ne L’osteria volante, insieme a quel che rimane della Merry England, dell’Inghilterra allegra e gioiosa, contro il gelido salutismo del mondo contemporaneo? Via via, fino alla Ballata del cavallo bianco, oppure alle Storie di Padre Brown, Chesterton ha sempre raccontato questo lottare per quel che si ama, questo amare e lottare. Scriverà, in un suo saggio su Dickens: “La nostra civiltà moderna mostra molti sintomi di cinismo e decadenza, ma di tutti i segnali della fragilità moderna e della mancanza di principi morali, non ce n’è uno così superficiale o pericoloso come questo, che i filosofi di oggi abbiano cominciato a dividere l’amore dalla guerra e a collocarli in campi opposti. Non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo, fosse pure un Nietzsche, affermare che dovremmo andare a combattere invece che amare, e non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo, fosse pure un Tolstoj, affermare che dovremmo amare invece di andare a combattere. Una cosa implica l’altra. Una cosa implicava l’altra negli antichi romanzi e nella vecchia religione, che erano le due cose permanenti dell’umanità. Non si può amare qualcosa senza voler combattere per essa. Non si può combattere senza qualcosa per cui farlo”.
Ebbene, questo filo rosso è in realtà il filo rosso dell’arte perché della vita di Chesterton. Pensiamoci: cosa ha fatto Chesterton nel ’900, se non puntare alla gola del mondo la spada di questa sorpresa, rimetterci davanti e cantare limpidamente un amore per tutto ciò che tutti noi già conosciamo e a cui teniamo, e che per Chesterton costituiva quanto di meglio e di più glorioso esista nell’universo, l’avventura di essere al mondo? “Tutto è magnifico paragonato al nulla”, dirà nella sua Autobiografia. E questo è anche il motivo per il quale egli ha avuto la libertà di scrivere di tutto, di dialogare con chiunque senza mai litigare perché, come diceva, la cosa brutta dei litigi è che interrompono le discussioni. Ha avuto la prontezza di spirito, perché del senno di poi si riempiono i mari, di affrontare e denunciare le riduzioni dell’umano del suo tempo quando invece molti si inchinavano a una persona che si chiamava Adolf Hitler. Già nel ’33 e nel ’36, Chesterton ha avuto la libertà di attaccarlo, quando si discettava con grande, buona educazione, di eugenetica o vivisezione umana, quando attaccava la famiglia, quando attaccava l’amore.
Chesterton ha avuto questa capacità di essere continuamente in prima linea. La domanda che vorrei fare oggi, e tentativamente cercare di fornire qualche elemento di risposta, è: cosa ha sostenuto il polso di Chesterton nel tenere puntata questa spada alla gola della modernità, sorprendendo, colpendo e interrogando persone diversissime da quelle che condividevano le sue opinioni? Perché Chesterton non è stato amato da chi la pensava come lui: ha colpito persone come Hemingway, ha colpito persone come Borges, ha fatto dire a un animo straziato, come quello di Kafka: “E’ così gioioso che verrebbe da dire che sia proprio vero, quello che dice Chesterton”. Cosa ha permesso a quest’uomo di tenere il polso stretto intorno alla spada, fosse pure la penna con la quale ha vergato centinaia, migliaia di articoli, quello che gli ha permesso di viaggiare il mondo? Perché Chesterton ha raccontato ed espresso sempre, come tutti i grandi artisti, quello che innanzitutto è arrivato ed è stato consegnato alla sua vita, ci ha donato quello che gli è stato donato.
Come ha detto giustamente e in maniera così profonda la professoressa Milbank, Chesterton non ha aggirato la coltre, il corridoio buio dello scetticismo, della negazione, della paura, anzi, ha dubitato di tutto, perfino della sua stessa esistenza. E’ arrivato al punto di abbracciare le filosofie nichiliste di quando era ragazzo. Eppure, a 18 anni, sono parole della sua Autobiografia, “provò l’impulso interiore a ribellarsi”, provò a scuotersi di dosso questo buio che, non soltanto da fuori ma anche da dentro lui, sembrava stesse conquistando tutto, questa negazione radicale. Ma cosa ha sostenuto questo suo moto di ribellione, e non l’ha fatto cadere? E’ sempre lui a raccontarlo: il fatto che questo moto del cuore, questa intuizione non sia stata lasciata alla propria capacità espressiva, ai propri sforzi, alla propria, per quanto immensa, genialità ma sia stata continuamente raggiunta, sostenuta e illuminata da qualcosa e da qualcuno che, da fuori, è arrivato a sostenere, valorizzare, confermare questa iniziale intuizione di bene.
Chesterton diceva che quando nasciamo c’è una sorta di primavera eterna, questa sorta di mattino eterno di quando si è bambini e le cose sono belle perché sono fresche, è come se conservassero i colori del primo giorno del mondo. Come si fa a conservare questo, quando si diventa grandi? Chesterton lo racconta nella sua Autobiografia e in tanti altri luoghi: innanzitutto per quello che nella nostra vita è stato sedimentato, anche quando non ce ne accorgevamo. Chesterton ha iniziato a inoltrarsi nel mondo con una ipotesi positiva – Ubaldo Casotto ce lo raccontava all’inizio – anzitutto per il rapporto con suo padre, che non gli ha fatto tanti discorsi sul valore positivo dell’esistenza ma ha giocato con lui, amava fare le cose con lui, costruire dei teatrini, disegnare. E Chesterton, nella sua Autobiografia, dirà: “Soltanto fare delle cose? Non si può dire cosa più grande di Dio stesso che il fatto che Egli faccia le cose”. E’ l’intuizione per cui, da bambino, una delle prime cose che Chesterton ha visto è stato un teatrino fatto con amore da un padre che era impiegato di banca, che gli ha permesso poi di guardare ogni giorno, riaprendo gli occhi, all’immenso teatrino del mondo, percependo anche lì che forse c’era davvero un altro Padre, ancora più grande, che quel teatrino di carta, fragile e bellissimo, lo ridisegna e lo tiene in piedi ogni giorno della sua vita. E poi, gli incontri con gli scrittori che non ha mai visto personalmente – Dickens, Stevenson, Chauser, Dante, Shakespeare – e che, dice, “lo hanno aiutato e lo hanno sostenuto nella speranza”, perche erano “cantori di tutte le cose buone che sono sulla terra”, della bellezza di essere vivi. E poi, ancora, l’incontro con sua moglie Frances, una donna che non soltanto pensava che Dio esiste ma viveva una vita conforme a questa certezza. E Chesterton, passo passo, ha iniziato a fare come faceva lei. E gli amici intelligenti e profondi, che avevano una visione della storia e del mondo completa, come il cattolico Hilary Belloc. Oppure l’incontro con padre O’Connor, il sacerdote che sarà all’origine di Padre Brown.
E guardate Padre Brown, la rappresentazione visiva di questo sacerdote che è un particolare quasi insignificante nel panorama dei personaggi che vengono raccontati nei suoi racconti: ha un’aria dimessa, è sempre molto impacciato, sembra essere fuori posto. Invece ha una capacità di penetrazione nel cuore dell’uomo di cui gli investigatori di professione, gli intellettuali, i filosofi che lo circondano, non dispongono. Padre Brown è la Chiesa per Chesterton, l’emblema di tutta quella trama di volti e rapporti che vi ho raccontato prima, il fatto che da fuori siamo raggiunti da Qualcuno che non ci guarda per quello che facciamo ma per quello che desideriamo. Questo è ciò che racconta quella che secondo me è la vera controparte narrativa di Chesterton, il miglior amico – perché prima miglior nemico – di Padre Brown, l’enorme, immenso ladro gentiluomo Flambeau, che è l’avversario di Padre Brown nei primi 3, 4 racconti. E poi, ad un certo punto, cambia vita e diventa investigatore privato, mette il suo genio di ladro del crimine al servizio del fare giustizia. Ad un certo punto, quando parla di sé di fronte ad un intellettuale che dice che i criminali vanno arrestati, che ci vogliono i metodi migliori della scienza per impedire loro di fare quello che fanno, e che invece i discorsi che fa Padre Brown sul desiderio e la libertà, sul cuore di ogni uomo, fosse pure il più tenebroso e il più depravato, non contano niente, Flambeau che nessuno sa essere il ladro ricercato, fa un passo avanti e dice: “C’è un criminale in questa stanza, sono io, sono Flambeau e la polizia di due emisferi mi sta dando ancora la caccia. Ho rubato per vent’anni con queste mie mani e sono sfuggito alla polizia con questi miei piedi. Spero ammetterete che le mie attività furono pratiche, come spero che ammetterete che i miei giudici e inseguitori trattavano davvero con il crimine. Credete che non conosca a fondo tutto ciò che riguarda i loro modi di reprimere il crimine? Non ho forse ascoltato i sermoni dei giusti e visto il freddo sguardo delle persone rispettabili? Non sono forse stato catechizzato con quello stile elevato e distaccato? Non mi è stato forse chiesto come fosse possibile per qualcuno cadere così in basso per farmi dire che nessuna persona decente avrebbe mai potuto nemmeno sognare una simile depravazione? Credete che tutto ciò che mi hanno fatto non mi ha causato altro che riso? Solo il mio amico qui (e indica Padre Brown) mi disse esattamente perché rubavo, e da allora non l’ho più fatto”.
Frasi che, fra l’altro, tanti immorali moralisti di oggi farebbero bene a meditare. Ma la cosa impressionante è che quello che Flambeau dice qui è quello che Chesterton dice di sé nella Autobiografia: “Ho trovato una sola religione capace di scendere con me nelle profondità di me stesso”, laddove l’uomo sperimenta, come Flambeau, che, per quanto siamo innamorati della vita, per quanto siamo innamorati di ciò a cui teniamo, siamo i primi a sciuparlo misteriosamente. Qual è il dramma di Flambeau? Che da ladro gentiluomo sta diventando un brigante, sta diventando qualcuno che non soltanto ama così tanto le cose, da rubarle senza fare del male a nessuno ma sta iniziando a ingannare, a insozzare, a rovinare altri. E Padre Brown, che lo guarda per quello che desidera e non per quello che fa, è in grado di arrivare esattamente in quel punto di congiunzione e offrire a Flambeau e a Chesterton ciò di cui ogni uomo, da grande, ha bisogno per tornare bambino: il perdono! Cioè, un dono che ritorna ancora e ancora a sconfiggere il male fuori e dentro di noi. Esattamente come, all’inizio della Divina Commedia, succede a Dante Alighieri. E’ questo – l’ultima cosa che voglio leggervi – che ha sostenuto la forza di Chesterton per tutta la vita, così come la racconta in una pagina che molti di voi avranno certamente gustato, meglio declamata, ieri sera, dalla Ballata del cavallo bianco. Mi permetto brevemente di recitarla perché, in filigrana, qui si può leggere tanto del percorso umano e quindi del dono che il pensiero e l’arte di Chesterton sono per il nostro tempo. Nel cuore della battaglia, il manipolo dei cristiani si trova a un certo punto a fronteggiare un principe pagano vichingo che si è fatto incantare la propria lama da delle streghe e che, con questa lancia stregata, sta devastando il campo nemico. Tutti scappano tranne un italiano, Marco, un patrizio romano convertito, che invece tiene la linea e grida: “State fissi come un’aquila”, nella bellissima traduzione di Annalisa Teggi. “State fissi come un’aquila” gridò Marco “state saldi come le mura di Roma, avanti, nelle vostre case le luci si stanno spegnendo, cadono i frutti dai vostri rami”. E’ il buio, vedete: “Proprio adesso il tuo vecchio tetto brucia, Gurt, ora il giorno del Giudizio sulla terra, ora il corpo a corpo con la morte”. Cosa succede? Che la maggior parte degli inglesi sono neoconvertiti dal paganesimo e quindi hanno una fede incerta, molto superstiziosa: di fronte alla magia nera iniziano ad allontanarsi e a scappare, perché quegli uomini mescolavano Dio con la magia, Dio, il miracolo che è la forza di un altro, con la magia, che invece è un potere, un calcolo. Mescolavano Dio con gli dei, con la torre e il vetro del mago. A questo punto, Chesterton invece fa un inno al luogo e all’educazione che hanno forgiato lo sguardo di Marco: secondo me è una delle cose più belle sull’Italia che siano mai state scritte. Io poi vengo da Firenze, in cui questi versi hanno come un peso specifico; invece Marco proveniva “dalle città splendenti dove sempre nuovi dettagli si mostrano, dove l’uomo può raccontare e discutere”. E la sua fede era cresciuta su un terreno difficile, fatto di dubbio, di ragione e di menzogne scoperte, dove nessun’altra fede può crescere: “perché un credo che cresce tra mille credenze si disperde da un momento all’altro ma un credo che sorge nello scetticismo – ecco Chesterton – si fortifica come il ferro e si distingue”.
Marco non ha paura, uccide il principe e spezza la lancia, e il popolo cristiano improvvisamente grida: “Dio ha spezzato la lancia del male”. Un miracolo, per quanto sia stata una mossa umana. E a quel punto, Marco nuovamente grida: “Lancia in resta, a morte gli dei della morte! Sopra i troni dell’oscurità e del sangue”, sopra tutto ciò che c’è di male “corre Dio che è il bracciante buono e l’oro e il ferro, la terra e il legno, Egli li ama e li lavora”. C’è Qualcuno che ama la realtà più ancora di quanto l’amiamo noi: “i frutti spuntano nelle vostre fattorie”, è un verso opposto a quello di prima, dove i frutti “cadevano”. “Le luci si accendono in ogni casa, il Dio di tutte le cose buone che sono sulla terra, delle ruote, delle trame di ogni fattura, il Dio che ha costruito il tetto, il Dio che ha fatto la strada, il Dio che falcia i re come le querce, che scrive canti sopra le pelli, il Dio dell’oro e del vetro rovente confregit potentia arcum et scutum et gladium et bellum”. Che cosa succede? Che Marco, nel cuore della battaglia, si è messo a cantare i salmi di Re Davide, che raccontano che Dio non lascia solo il suo popolo e combatte con lui. “Acciaio e scintille si infransero su di lui, cavalli da battaglia e pugni”: tutti sembrano volerlo mettere a tacere, “ma tutti i re del mare vacillarono quando si sollevò il legno delle armi allo squillo della parola del romano, al rombo del salmo”.
Secondo me, questa è una immagine straordinaria anche di quello che è stato Chesterton nel ’900. Chesterton, nel ’900, è un uomo che si è messo, nel cuore delle nostre battaglie, a cantare il latino, cioè si è messo a cantare in nome di tutto ciò che amava e si è trovato addosso delle parole che erano le più adeguate. Non per un tradizionalismo o un estetismo, ma perché erano le parole con le quali da migliaia di anni ci viene tramandata continuamente la perenne alleanza che c’è tra l’uomo e Dio, la certezza che ogni volta che l’uomo impugna la spada per combattere per ciò che ama, l’uomo regge la spada ma è Dio che regge il polso dell’uomo. Grazie infinite.

UBALDO CASOTTO:
Si vede che sei fiorentino, hai la battaglia di Montaperti nel sangue! Mi viene in mente solo una frase di Chesterton, a commento del bellissimo intervento di Edoardo. Ad un certo punto, lui dice: “Per un uomo che appena appena sappia tenere in mano la spada, è sempre un onore accettare un duello”. Che è quello che lui ha fatto per tutta la vita, che è quello che l’ha reso ciò che è: “Io ringrazio il cristianesimo perché mi ha permesso di non essere solo figlio del mio tempo”, dice. Quindi, non cortigiano ma protagonista della storia. Che poi il duello – era bellissima la cosa di Flambeau, del migliore nemico che diventa il migliore amico – porta all’incontro, non alla guerra, lo porta ad incontrare altri uomini. Credo che questa ora e mezza che abbiamo passato insieme sia la testimonianza di una frase che Chesterton dice, sempre nella sua Autobiografia: “Incontrare un uomo, anche se lo si incontra solo per un’ora o due, è sempre una avventura e una esperienza unica”. Io credo che il tempo passato con le parole della professoressa Milbank e di Edoardo Rialti siano anche per voi, come per me, la prova sicura della verità di questa sua affermazione. Certo, anche nei suoi confronti vale l’ammonimento di Péguy, come ci ricordava la professoressa Milbank, ne Il mistero: “perché nessun uomo conosce l’uomo, perché una vita d’uomo, una vita umana come uomo, non basta a conoscere l’uomo, tanto è grande e tanto è piccolo, tanto è alto e tanto è basso, ma l’infinità dell’impresa non ci scoraggi nell’intraprenderla”. Io vi segnalo, oltre a tutti i libri citati e agli altri di Chesterton che ci sono in libreria, una novità assoluta, la rivista internazionale su Chesterton che esce per la prima volta in Italia e che trovate nelle librerie italiane, a cominciare da quella del Meeting. Come dice Stefano Alberto, alias don Pino, nella prefazione al volumetto che anch’io ho fatto su Chesterton, “Leggete Chesterton, un uomo vivo che ci tiene vivi”. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2011

Ora

11:15

Edizione

2011

Luogo

Sala A3
Categoria
Incontri