Alla ricerca della Terra Promessa. L’esperienza del popolo nel puritanesimo americano

Ha partecipato: Elisa Buzzi, insengnate di Filosofia e ricercatrice.


1. Precisazioni preliminari

Per delimitare e definire l’oggetto di questo studio sono necessarie alcune brevi precisazioni di carattere metodologico e linguistico.

Anzitutto, devo indicare quali aspetti del problema non tratterò.

Non considererò l’aspetto socio-economico legato alla tesi del sociologo Max Weber, secondo il quale l’etica protestante dei puritani, con la sua “ascesi laica”, cioè con l’etica del lavoro, della rinuncia all’uso immediato delle ricchezze e del razionale attivismo nella loro amministrazione, costituisce la radice fondamentale del capitalismo. Questa tesi, oggi peraltro soggetta a revisione, è esposta nell’opera L’etica protestante e lo spirito del capitalismo del 1905.

Non considererò nemmeno, se non tangenzialmente, l’aspetto politico e tutto il dibattito sulle origini della democrazia nella teoria e nella pratica di governo delle Chiese puritane congregazionaliste d’America.

Queste due esclusioni basterebbero a dare il senso dell’importanza dell’argomento, perché riguardano aspetti fondamentali della società e della cultura moderne. Ma sono solo delle conseguenze. A noi, oggi, interessa il cuore dell’esperienza puritana, quello che i puritani pensavano e dicevano di sé, quello che vivevano, cioè la loro esperienza religiosa, che costituisce il nucleo vitale e creativo della loro esperienza di popolo.

La seconda precisazione riguarda un nostro probabile pregiudizio. Puritano, puritanesimo, sono diventati un modo di dire comune, non solo nella nostra lingua, un idiom con una connotazione decisamente negativa. Stanno a indicare un moralismo rigido e inflessibile, in fondo bigotto e ipocrita. Bisogna tenere presente che noi per lo più leggiamo, siamo costretti a leggere l’esperienza puritana con gli occhi e secondo le categorie mentali dei suoi più feroci detrattori, cioè i rappresentanti di quel pensiero illuminista, liberale e laicista che dal ‘700 in poi non ha cessato di accusare il puritanesimo di fanatismo, chiusura mentale e sterilità intellettuale, accuse in gran parte infondate dal punto di vista storico, anche se comprensibili da quello ideologico.

A dire il vero, lo stesso termine puritano nasce come una specie di insulto o di scherno inventato dagli avversari politici e religiosi verso la fine del secolo XVI. Quindi, fin dalle origini i puritani hanno suscitato forti reazioni contrarie. Certamente il puritanesimo ha avuto le sue contraddizioni, i suoi limiti e anche le sue involuzioni, ma in sé resta un’esperienza che merita di essere considerata non solo per quello che ha prodotto, non solo perché è la tradizione che in maniera “più cospicua, sostenuta e feconda”(1) ha influenzato la cultura e la mentalità americane, ma anche in se stessa, per quello che è stata realmente, perché possiede una sua indubbia originalità e grandezza.

In primo luogo, come sottolineano tutti gli studiosi – fra i quali vorrei qui ricordare Perry Miller, iniziatore della Scuola di Harvard, e Luigi Giussani, per i suoi studi sulla teologia protestante americana(2) – il puritanesimo è stato un’esperienza umana e religiosa singolarmente completa e concreta per la sua capacità di determinare tutti gli aspetti dell’esistenza. Scrive il Miller: “Il puritanesimo è stato non solo un credo religioso, ma anche un’organizzazione della totalità della vita umana, dal punto di vista intellettuale e affettivo”(3).

È stato poi un’esperienza che ha mobilitate migliaia di persone di tutti i ceti, che ha creato un movimento nel senso letterale del termine, perché ha indotto migliaia di persone, come dice de Tocqueville, “(ad andare) nel nuovo mondo non per migliorare la loro situazione o per accrescere la loro ricchezza, ma si staccavano dalle dolcezze della patria per obbedire ad un bisogno puramente spirituale; esponendosi alle inevitabili miserie dell’esistenza per fare trionfare un’idea”(4).

2. Il cuore dell’esperienza puritana

Qual è allora il cuore dell’esperienza puritana?

I puritani, quei gruppi di puritani che hanno lasciato l’Europa per fondare i primi nuclei delle colonie del New England hanno avuto come modello, come ideale teorizzato e praticato nelle loro comunità l’antico popolo di Israele. Il nesso sociale che costituiva le loro congregazioni tendeva a realizzare questo modello. In altre parole per i puritani, come per gli antichi ebrei, il popolo, la terra che il popolo conquista e abita, la città che il popolo costruisce, sono il luogo dove riconoscere e servire Jahvè; il luogo dove il rapporto con Dio si realizza nella storia individuale e sociale; dove l’alleanza tra Dio e il suo eletto diventa opera quotidiana visibile e vivibile da tutti “mentre attendete a mangiare e a sposarvi… a comprare e a vendere, ad arare e a roncare, a seminare e a falciare e a mietere, ad allevare bestiame e a pascolare le pecore, a piantare frutteti e giardini, a cuocere il pane e a preparare la birra, a costruire case e stalle, a cingere palizzate e a ogni altra occupazione”(5).

Tutti i documenti dei puritani, i discorsi, i sermoni, le cronache, i decreti sinodali, le lettere e i diari privati, le poesie, sono fittamente intessuti di citazioni bibliche, dell’Antico e del Nuovo Testamento, che sottolineano incessantemente il riferimento al popolo d’Israele. I puritani si definiscono il “nuovo Israele” o, semplicemente, “Israele”; “il sacro resto” che deve costruire la “nuova Gerusalemme”, la “nuova Sion”, in quel “deserto” (wilderness) che sono i territori selvaggi d’America; deve costruire “la città posta sul monte” (The City upon a Hill), come dice uno dei loro leader, John Winthrop, in un discorso(6) pronunciato sulla nave che li stava portando in America, “la città posta sul monte” perché tutti vedano che è possibile costruire in terra la società cristiana ideale. Le nuove colonie sono “la vigna del Signore” ben recintata e separata dal terreno incolto, territorio del diavolo, come dirà Cotton Mather alla fine del ‘600: “gli abitanti del New England sono il popolo di Dio stabilito in quello che un tempo fu territorio del diavolo”(7).

I testi più citati sono i Salmi (Ps. 18), i Profeti Geremia, Osea, Isaia (capp. 60, 62, segg.: la Nuova Gerusalemme), il Vangelo di Luca (cap. 12: “Non temete piccolo gregge, perché è piaciuto al Padre vostro di dare a voi il Regno”), l’Apocalisse (capp. 12, 20, 21: la Gerusalemme Celeste) e poi, ancora, soprattutto il capitolo 17 del Genesi, il capitolo del Patto tra Dio e Abramo (“darò a te e ai tuoi discendenti la terra dove abiti come straniero, tutta la terra di Canaan in possesso perpetuo, e sarò loro Dio”), i capitoli 29-30 del Deuteronomio, che contengono gli ultimi discorsi di Mosè al popolo, il suo testamento alle soglie della terra promessa, e la Lettera agli Ebrei (cap. 11, 13-16: “nella fede morirono tutti costoro, senza avere ricevuto le cose promesse, ma avendole vedute e salutate da lontano e avendo confessato che erano forestieri e pellegrini sulla terra. Poiché quelli che dicono tali cose, dimostrano che cercano una patria [e avrebbero potuto ritornare in quella donde erano usciti]. Ma ora ne desideravano una migliore, cioè una celeste”. Perciò ancora oggi i primi puritani sbarcati in America nel 1620 dal Mayflower sono chiamati Padri Pellegrini).

Si potrebbero moltiplicare all’infinito queste citazioni (ancora alla metà del ‘700 Jonathan Edwards confronta il vecchio e il nuovo mondo mediante i tipi biblici di Lia e Rachele, e sottolinea che la novità del Nuovo Mondo non è puramente geografica, ma spirituale e morale: è Dio che lo fa nuovo realizzando la sua promessa. E il principale racconto epico che celebra la Rivoluzione Americana, si intitola La conquista di Canaan, di Timothy Dwight, dove George Washington è rappresentato come il novello Giosuè). Ma quello che importa capire è che non si tratta solo di metafore o di allegorie usate per “interpretare un’esperienza”, ma di termini che dovevano leggere tale esperienza realisticamente, storicamente: “l’America è leggibile in queste promesse”(8).

I puritani sono il nuovo Israele, il nuovo popolo eletto, il popolo che Dio si è scelto per realizzare la sua promessa. Sono, come dice la Piattaforma di Cambridge del 1648: “una compagnia di gente messa insieme dal Patto per il culto di Dio”.

Per comprendere questa immedesimazione con il popolo d’Israele bisogna vedere chi erano i puritani, che cosa credevano, perché hanno lasciato l’Europa per fondare la “città posta sul monte”.

Il Puritanesimo inizia come un movimento all’interno della Chiesa di Inghilterra nella seconda metà del secolo XVI. A quell’epoca, l’epoca di Elisabetta I, la Chiesa anglicana era già protestante, aveva cioè acquisito elementi dottrinali essenziali della Riforma luterana e calvinista. I puritani volevano portare fino in fondo questo processo di protestantizzazione, con una più stretta aderenza ai principii del calvinismo e una eliminazione di quei residui di papismo (popish Trash) ancora presenti nella struttura ecclesiastica (l’ordinamento gerarchico episcopale), nella liturgia (Book of common prayer) e in altri aspetti particolari. Non si consideravano una setta, ma parte integrante della “vera Chiesa”, tanto è vero che, come si è detto, il nome puritani è un epiteto affibbiato dai nemici, loro si chiamavano professors (cioè coloro che professano la vera fede) o saints (i santi, gli eletti).

Il centro di maggior diffusione del movimento fu l’Università di Cambridge, in particolare l’Emmanuel College e il Trinity College, da cui provenivano la maggioranza dei loro leaders spirituali e politici: uomini come John Cotton, John Winthrop, Thomas Sheppard, Richard Mather.

Le loro posizioni radicali e non-conformiste (non accettavano i 39 articoli di religione, base della Chiesa anglicana, esposti nell’Atto di Conformità del 1559), li misero in conflitto con il potere politico e ecclesiastico, non solo all’epoca di Maria la Cattolica (1553-1558), ma anche in seguito, soprattutto sotto gli Stuart. Nel primo decennio del ‘600 cominciarono a formarsi le prime Chiese puritane indipendenti. Uno di questi gruppi – i separatisti di Scrooby – fu costretto a fuggire in Olanda, a Leida, ma dopo qualche anno, minacciati anche dalla guerra tra Olanda e Spagna, questi puritani decisero di partire per l’America. Dopo parecchie traversie ottennero dalla Compagia di Plymouth una concessione per fondare una colonia nella Virginia del Nord. Il 16 settembre del 1620 salpò da Plymouth il Mayflower, un tre alberi di circa 27 metri per 7,5, adibito usualmente al trasporto di vino tra Bordeaux e La Rochelle, con 102 passeggeri. Il Mayflower gettò l’ancora al largo di Cape Code il 21 novembre e, dopo avere sottoscritto il Mayflower Compact, una sorta di carta costituente della nuova colonia, i pellegrini sbarcarono definitivamente il 26 dicembre sulla costa del Massachussets, dando l’avvio a Plymouth Plantation, il primo nucleo del New England. Le condizioni in cui si trovavano questi primi coloni erano assolutamente proibitive: in pieno inverno, senza nulla letteralmente per ripararsi e molto poco per nutrirsi. La cronaca di William Bradford, uno dei loro capi spirituali e secondo Governatore della colonia, rende, nello stile scarno dei puritani, tutta la drammaticità della situazione. Durante il viaggio era morta una sola persona, ma dopo lo sbarco, nel giro di due o tre mesi, il freddo, la fame e lo scorbuto, falciarono circa la metà del gruppo, quasi tutte le donne e 14 capifamiglia su 26. Dei cinquanta rimasti, solo sei o sette erano veramente in forze e dovevano provvedere in tutto e per tutto alle necessità dei loro fratelli.

La loro situazione era talmente miserevole che gli indiani, con i quali ebbero i primi contatti verso la metà di marzo, decisero di aiutarli (Samoset e Squanto sono i due indiani che Bradford ricorda; in particolare il secondo, che parlava inglese, rimase con loro e li aiutò, come interprete, nella caccia, nella pesca, nella semina). Alla fine di ottobre del 1621, dopo il primo raccolto, i Pellegrini di Plymouth celebrarono la prima Festa del Ringraziamento, ma la loro situazione rimase precaria ancora per lungo tempo.

Più organizzata, anche se non meno faticosa, fu l’impresa guidata da John Winthrop nel 1630. Winthrop, avvocato famoso e facoltoso, giudice di pace e Lord di Groton, fondò nel 1629, con una ventina di compagni puritani, la Massachusset Bay Company, che ottenne da Carlo I l’autorizzazione a fondare una colonia nel territorio compreso tra i fiumi Merrimack e Charles. Dal giugno del 1630, 11 navi con circa ottocento passeggeri arrivarono nella baia, sulla quale si affaccia oggi Boston, sbarcando dapprima presso quello che diverrà Salem (Shalom) e fondando poi città come Boston, Newton (Cambridge), Charlestown, Dorchester, Concord. Nel 1636, Thomas Hooker, grande predicatore e docente dell’università di Cambridge in Inghilterra, giunto anch’egli nel 1639 nella Bay Colony dall’Olanda, si trasferì nella wilderness con un gruppo di seguaci e fondò Hartford, il primo nucleo del Connecticut. Sempre da una secessione del dissidente liberale Roger Williams, nacque l’insediamento che darà origine allo Stato di Rhode Island.

Per comprendere il tipo di organizzazione religiosa e sociale di questi insediamenti bisogna riferirsi alla concezione teologica dei Puritani, e qui si manifesta in tutta la sua forza la visione biblica del loro cristianesimo.

I Puritani, ho detto prima, erano calvinisti, cioè credevano nella predestinazione assolutamente libera e sovrana di Dio, la natura umana è completamente corrotta e non può operare il bene, la salvezza non dipende in nessun caso dalle opere, ma dalla sola fede, dono assolutamente gratuito della Grazia di Dio che salva gli eletti, i predestinati, rigenerandoli interiormente. La Chiesa vera invisibile è la società di questi eletti, ma non ha facoltà di magistero, né distribuisce la Grazia attraverso i Sacramenti. Battesimo e Eucarestia (la Cena), unici Sacramenti istituiti da Cristo, non sono mezzi di comunicazione della Grazia, della salvezza, ma sigilli, conferme della salvezza dovuta all’imperscrutabile predestinazione, perciò ad essi, in particolare alla Cena possono accostarsi solo gli eletti, i santi. A questi, che sono i capisaldi del Calvinismo, ripresi dalla Westminster Confession of Faith del 1646, i Puritani per un’esigenza puramente razionale avevano aggiunto un elemento fondamentale: l’idea del Patto o Covenant (idea tipicamente biblica), che è alla base della cosiddetta Covenant Theology o Federal Theology e del Congregazionalismo.

“Alla concezione di Dio che predestina in modo assoluto fuori del tempo gli uni alla gloria, gli altri alla dannazione, senza alcuna considerazione per l’umano agire, si sostituiva l’idea di un …Patto“(9), un’alleanza liberamente offerta da Dio all’eletto, il Patto di Grazia (Covenant of Grace).

Si trattava senza dubbio di un modo per addolcire la dottrina calvinista, per rendere comprensibile alla ragione la Scrittura. Come dice Miller: “Il Patto non altera il fatto che si salvano solo quelli sui quali Dio riversa la sua Grazia, ma rende chiaro e ragionevole il come e il perché certi uomini sono scelti… Soprattutto col Patto Dio si impegnava a non andare contro le concezioni umane di diritto e giustizia”. Il Patto di Grazia che sancisce una rigenerazione tutta interiore, definisce le condizioni alle quali si ottiene il cielo e chi soddisfa queste condizioni ha diritto incontestabile alla salvezza. “Dio può continuare a scegliere gli eletti nell’impenetrabile oscurità della sua volontà, ma, secondo il Patto, egli ha concesso all’individuo delle basi discernibili per riconoscere la sua decisione… L’unione con Dio non è un’incertezza torturante, né il rapimento di un’anima sorpresa da una Grazia irresistibile… è un preciso status legale (“You may sue him of his own bond written and sealed, and he cannot deny it“). Solo Dio elegge o danna a suo puro piacere, la Grazia che permette di adempiere le condizioni del Patto viene solo da Dio e non siamo mai sicuri di possederla. “Ma nella vita pratica i rigori dogmatici della predestinazione assoluta sono materialmente smussati. Una relazione giuridica si sostituisce impercettibilmente al decreto divino”(10). Il Patto è un vero e proprio contratto con il quale Dio decide di trattarci da suoi pari, stabilisce le condizioni e si impegna sul suo onore (“Thus stands the cause between God and us, we are entered into a Covenant with him“)(11).

Il Patto interiore di Grazia dà origine alla Chiesa, la comunità dei Santi, rigenerati dalla Grazia e dalla fede. Solo costoro hanno diritto a partecipare alla Cena. Solo costoro, in linea teorica, sono Freemen e voters, hanno diritto di voto nelle assemblee religiose, ma anche in quelle politiche, possono ricoprire cariche pubbliche. Ho detto in linea teorica, perché spesso nelle comunità il diritto di voto era esteso anche ai non santi. In un secondo tempo si introdusse anche un Patto parziale o Patto esteriore, che non era fondato sull’esperienza della rigenerazione, ma sulla volontaria accettazione delle dottrine di fede e delle regole morali. Questo secondo Patto dava il diritto di chiedere il Battesimo per i propri figli e i suoi contraenti, pur senza essere propriamente Chiesa, facevano parte della congregazione. Un gruppo molto ampio di persone fin dall’inizio non faceva parte della Chiesa, né della congregazione (con Winthrop erano circa i 4/5). Se non si mettevano a predicare dottrine eretiche erano bene accolti e tollerati, avevano tutti i diritti di un libero suddito del re d’Inghilterra, potevano partecipare alle assemblee cittadine, ma non avevano il diritto di voto e di ricoprire cariche pubbliche. Dovevano naturalmente pagare le tasse per sostenere la Chiesa, partecipare ai servizi religiosi e rispettare le dottrine religiose e morali della comunità perché, come dicevano i giuristi puritani, qui sentit commodum sentire debet et onus.

La Piattaforma di Cambridge, elaborata dal Sinodo del 1648, riaffermò e stabilì i principii fondamentali del congregazionalismo. La forma della Chiesa consiste nel Patto col quale gli eletti danno se stessi al Signore per osservare gli ordinamenti di Cristo. Il potere del Capo, Cristo, appartiene a tutto insieme il corpo di ogni Chiesa. Ogni congregazione realizza perciò compiutamente l’idea di Chiesa, in maniera completamente autosufficiente; è una “tribù di Israele” in miniatura. Pur essendo tra loro distinte e indipendenti, le comunità mantengono una certa Comunione ecclesiale, perché sono tutte unite a Cristo Capo non solo mistico, ma anche Politico. Chiesa e Potere politico sono due realtà separate e concomitanti, hanno lo stesso scopo: la Gloria di Dio, la costruzione del suo Regno, perciò lo Stato può imporre l’osservanza dei precetti religiosi. I membri della Comunità sono Chiesa prima di avere i ministri e senza di essi. Eleggono i ministri, e gli altri ufficiali della congregazione (gli anziani, i diaconi, i maestri), ma una volta ricevutolo, gli anziani hanno un potere che non è più alla mercé degli elettori, perché è venuto da Dio per quella via. L’esempio classico sempre citato dai teologi puritani è questo: una donna può scegliere il marito che vuole, ma una volta che l’ha sposato deve tenerselo e sottomettersi alla sua autorità.

Si è parlato, a proposito dell’organizzazione delle comunità puritane, di Teocrazia democratica. In realtà non propriamente di Teocrazia si tratta, perché il potere religioso e quello politico erano rigorosamente distinti, né di democrazia in senso moderno, anche se è vero che si teorizza la libertà e sovranità del popolo, ma si tratta del “popolo di Dio”, degli eletti. È più corretto forse parlare di oligarchia o aristocrazia fondata non sul censo, né sulla nascita, ma sulla santità. Samuel Stone all’epoca la definiva “un’aristocrazia che parla di fronte a una democrazia silenziosa”. Per Miller si è trattato in un certo senso di una “dittatura, non di un singolo tiranno o di una classe economica o di una fazione politica, ma dei santi e dei rigenerati“(12).

I segni visibili dell’Alleanza del Patto che fonda la Chiesa sono: la Profezia e la Legge.

Profezia e legge sono segni tangibili dello Spirito di Cristo. La Profezia è il frutto dell’azione dello Spirito che rende possibile l’”esperienza diretta di Cristo” e nella fede costituisce la rigenerazione dell’eletto. È la verifica, il test dell’adesione personale al dono dello Spirito Santo. Si può dire che la profezia rappresenta, a livello individuale, una particolare capacità di testimonianza, una particolare intensità della coscienza religiosa, che permette poi di vedere tutte le vicende naturali e sociali della comunità riferendole all’avvenimento fondamentale dell’elezione divina, e quindi come segni di approvazione o di condanna. Segni, insomma, del giudizio divino sul suo popolo. Non a caso la forma letteraria canonica dei Sermoni puritani è la Geremiade, l’elenco delle colpe e delle infedeltà del popolo che hanno attirato la maledizione divina (un incendio, la carestia, il vaiolo, ma soprattutto la perdita della fede e della devozione). Non a caso i Puritani hanno una attenzione implacabile per i fatti, per tutti i fatti reali, dal più piccolo insetto ai più grandi avvenimenti storici. Nessun fatto, neppure il più piccolo, è casuale e irrilevante. Per il Puritano “Dio c’è e quindi c’entra con tutto”, anche con il modo in cui uno si taglia i capelli.

La Legge di Cristo è legge morale, disciplina individuale e sociale che è tramite del rapporto con Dio, o meglio condizione che Dio pone al suo Patto, vincolo che sancisce il Patto.

“In una convenzione prima ci devono essere condizioni e articoli di accordo fra le parti… e in secondo luogo un obbligarsi vicendevolmente all’adempimento di quelli per il Vincolo… È come se fosse così… (Il Signore) propone la legge e dice che se noi osserviamo la legge, egli ci benedice abbondantemente in tutte le cose… Allora il popolo aderisce e dice… Signore, qualunque cosa tu dici, noi faremo”(13).

Dobbiamo tenere presente che il vero protestante ha un orrore istintivo per il moralismo delle opere. Le opere, diceva Lutero, sono il Leviatano, il mostro marino che minaccia e distrugge la libertà del cristiano. Le opere non sono la condizione, ma, come la profezia, sono la testimonianza della Grazia. Però, inevitabilmente, per esigenze sociali, la legge tende a prendere il sopravvento sulla profezia, la regola sull’esperienza.

Un altro termine fondamentale dell’esperienza puritana è quello di prova. Anch’esso è un termine tipicamente biblico. Dio mette alla prova il suo popolo, lo fa camminare nel deserto (wilderness). Come scrive J. Edwards, “questo è il modo di Dio di trattare con gli uomini, condurli nella wilderness prima di parlare loro confortevolmente, ordinare che essi siano condotti nella tribolazione e fare loro vedere la loro impotenza e assoluta dipendenza dal suo potere e dalla sua Grazia, prima che egli manifesti una qualche grande opera di liberazione per loro”(14).

La prova, interiore e esteriore, non è solo un gonfiare i muscoli, ma è il segno dell’elezione. Le capacità di trovare in sé le risorse materiali e spirituali per superare enormi difficoltà, sono tutti segni della predilezione di Dio per il suo popolo. Ancora una volta dobbiamo pensare realisticamente alla situazione e alle difficoltà affrontate da questa gente. Non erano degli sprovveduti né degli avventurieri, non erano i pionieri e gli emigranti del secolo XIX, poveri, ignoranti. Erano invece borghesi e commercianti, ma anche magistrati, predicatori, professori universitari – si calcola che nei primi 25 anni, 130 professori di Cambridge e di Oxford siano emigrati nel New England –. Erano perfettamente coscienti dei pericoli e delle difficoltà cui andavano incontro. Molti di loro hanno perso quasi tutto il loro patrimonio nell’impresa. John Winthrop, insigne magistrato in Inghilterra e Governatore della Colonia, lavorava nei campi tutto il giorno con i suoi servi. E come lui molti altri si sono trovati a dirigere se stessi e le loro comunità in mezzo a difficoltà materiali spaventose. I primi anni non avevano letteralmente nulla. Bradford descrive la loro situazione col termine total want. I primi insediamenti rimasero per lungo tempo alla mercé dei raccolti annuali, minacciati dalle carestie e dalle epidemie. Eppure in tutto questo, non hanno mai cessato di studiare e di comporre trattati teologici, hanno organizzato ecclesialmente, politicamente e giuridicamente comunità altamente civilizzate. Dopo appena 16 anni dall’arrivo dei primi pellegrini, hanno fondato l’Università di Harvard, più tardi Yale e Princeton. Una delle prime leggi della Colonia stabiliva che ogni città con 50 capifamiglia dovesse nominare e pagare un maestro di lettura e scrittura e che ogni città con 100 capifamiglia dovese istituire una scuola di grammatica latina, pena severissime multe.

Come scrive ancora Miller “a differenza di tutti gli altri pionieri, non hanno fatto alcuna concessione alla foresta”, ma nel bel mezzo della vita di frontiera hanno mantenuto un livello elevatissimo di cultura e di civiltà”(15).

Da tutto quello che si è detto appare evidente che ciò che ha spinto i Puritani a partire per l’America, a farsi Pellegrini, non è stata una necessità estrinseca, ma una necessità profondamente connaturata nella loro esperienza, la coscienza di una vocazione: Dio aveva direttamente ispirato quella trasmigrazione perché la nuova terra fosse terra del popolo di Dio. Lo dice esplicitamente Bradford nella sua cronaca: non era la persecuzione a spingere i puritani a lasciare l’Europa, perché anzi nella persecuzione la Chiesa prospera, ma la minaccia della corruzione, la minaccia di non poter trasmettere ai figli e alle generazioni future la purezza dell’origine. Non era per essere liberi che emigravano, ma per affermare la verità, non per sfuggire la persecuzione, ma per evitare la corruzione.

“Il nostro fine è migliorare le nostre vite per servire di più il Signore, per il conforto e la crescita del corpo di Cristo di cui siamo membri. Così che noi stessi e la nostra posterità possiamo essere preservati dalla corruzione comune. Così John Winthrop, il quale chiudeva il suo discorso A modell of christian charity citando l’addio di Mosè alle soglie della Terra Promessa e incitava il popolo: “Scegliamo dunque la vita, così che noi e il nostro seme possiamo vivere, obbedendo alla sua voce e aderendo a Lui. Perché Lui è la nostra vita e la nostra prosperità”.

Non è perciò l’ideale ottocentesco spirituale alla de Tocqueville ciò che spingeva i puritani a partire, ma la vita e la sua prosperità.

3. Che cosa è potuto accadere?

Ma a un certo punto questo straordinario impeto creativo, questa energia umana e religiosa si è esaurita, anzi si è rivoltata contro la vita. Già alla fine del ‘700 si può dire che il puritanesimo come fenomeno religioso e sociale, nella sua matrice originaria, non esiste più. Restano alcune forme, ma la sostanza si è persa.

Che cosa è accaduto perché questo popolo si chiudesse in se stesso, diventasse così simile alla descrizione che Tacito dà dell’antico popolo ebraico: “Amicissimi tra di loro, ma nemici di tutti gli altri?”. Anzi, spesso, anche nemici di se stessi, persecutori di altri gruppi religiosi, sterminatori di indiani? Come è potuto accadere?

La spiegazione si può trovare in una serie di vicende storiche varie e complesse, ma ultimamente la risposta va cercata ancora nel cuore della loro esperienza religiosa.

Il loro concetto del rapporto con Dio mancava di Gesù.

Paradossalmente la loro grandezza era anche il loro limite, perché nel rapporto con Dio seguivano un metodo, una strada che, all’epoca di Abramo, di Mosè e dei Profeti, era giusta e grande, ma, dopo Cristo, per dei cristiani, non è più accettabile, non è più quella che Dio stesso ha scelto. La posizione dei puritani conteneva una debolezza radicale: cercavano di rendere contemporaneo Cristo, di sperimentarlo, ma non ammettevano che Cristo fosse una presenza che continua nella storia. Si potrebbe dire che Cristo era ancora il Punto d’arrivo, ma non era più la via. Era la verità e la vita, ma non la via.

In altre parole, i puritani non rifiutavano certo Cristo, anzi, specialmente nei più grandi, tutta la tensione religiosa è diretta e concentrata su Cristo, per avere “esperienza diretta di Cristo” (experiential piety). Ma è proprio in questo termine, esperienza, che si nasconde l’equivoco, perché è un’esperienza che rifiuta le modalità, il metodo scelto da Dio in Cristo, cioè l’incarnazione e la permanenza di Cristo nella Chiesa, nei sacramenti e attraverso il Magistero.

Questo rifiuto, nei grandi come Cotton o Edwards, genera il tentativo tragico, tormentoso, di mantenere all’esperienza un significato veramente e puramente religioso, nel quale tutte le energie e facoltà umane, intellettuali e affettive, fossero valorizzate, senza però togliere nulla all’assoluta gratuità dell’evento di Cristo. Negli altri, nei più, decade immediatamente nell’irrazionalismo degli illuminati e entusiasti (anabattisti, antinomiani, quaccheri) oppure nel moralismo legalista e iperrazionalistico, l’ipocrisia, il peccato sommo per i puritani, che a un certo punto deve essere accettato perché inevitabile, anzi socialmente utile.

Perdendo la strada hanno perso anche ciò cui aspiravano più di ogni altra cosa, cioè il legame con l’origine, la possibilità di recuperare il legame con la loro origine cristiana nella sua purezza iniziale. La stessa immagine di Cristo, che domina tanto potentemente la coscienza di un Cotton, col passare degli anni risulta lontana, sfuocata: la Profezia viene meno e la Legge prende il sopravvento.

Bisogna avere letto il Moby Dick di Melville per comprendere l’angoscia dello spirito puritano di fronte al destino incombente della libertà del cristiano incatenata alla legge, al Leviatano che si inabissa. Bisogna avere letto gli interminabili dibattiti teologici nei quali si incagliarono i Sinodi puritani nella seconda metà del ‘600, alla ricerca di infiniti compromessi tra opinioni inconciliabili, per capire l’invocazione di Samuel Willard: “Signore conducimi fuori da questo labirinto!”.

Viene meno il nesso con l’origine e tutto si corrompe: la ragione, il sentimento, la prosperità, che non è più segno della vita che cresce, ma di accumulazione, la responsabilità individuale di fronte al destino che diventa individualismo, solitudine. Ma soprattutto quella che all’inizio era difesa della vita, di una esperienza, diventa chiusura, sospetto verso gli altri, rigidità, incapacità di accogliere le differenze e perdonare il male, incapacità di una vera amicizia col reale. La letteratura americana, da Melville a Hawthorne a Henry James, è la grande testimone di questo dramma della coscienza religiosa puritana.

4. L’eredità dei puritani

Se la sorgente del puritanesimo si è inaridita, la cultura e la mentalità americane ci appaiono ancora oggi disseminate di ideali puritani. Il puritanesimo è finito, ma sussiste una eredità, una tradizione puritana.

Anzitutto il senso di un destino particolare, di una promessa, di una missione di salvezza e rigenerazione per tutto il genere umano.

“Questa terra è stata posta qui per essere scoperta da un popolo speciale, da una nuova genia di esseri umani chiamati gli Americani… (destinati) a rifare il mondo dall’inizio e a costruire per tutta l’umanità una luminosa città posta sul monte”. Non è una citazione da un discorso di Winthrop o da un Sermone di Edwards, ma dal Closing Statement, cioè dal Discorso Finale della campagna elettorale di Ronald Reagan nel 1980. Ma anche l’idea della New Frontier kennediana, rivalutata oggi dai democratici, non è estranea all’idea di una rigenerazione e di una missione.

E ancora: l’ideale della purezza e della sincerità morale, della necessità di combattere per una giusta causa, della vita come prova, come conquista di sé e del proprio ambiente, l’ideale del lavoro, della efficienza, del successo, perché ciò che vale, la verità di una posizione necessita di una verifica attraverso i risultati sperimentali (questa è sicuramente l’origine dell’atteggiamento pragmatico), l’ideale della libertà, come possibilità di realizzare il proprio destino. Sono tutte parole puritane, parole ormai senza contesto, quasi sempre simulacri svuotati di un senso spirituale e ristretti ad un orizzonte di pura convenienza individuale; al massimo rimangono come ideali e virtù laiche, trasposti sul piano sociale, politico e economico.

Sono come i relitti di un grande naufragio, che affiorano ancora qua e là, tutti ci si possono aggrappare quando non riescono a stare a galla, chiunque li può utilizzare per la propria costruzione, chiunque può vantare la loro autenticità, ma le costruzioni sono altre, eterogenee, irriconoscibili.

5. Un problema e un interrogativo

Ci si può chiedere che senso abbia oggi parlare dell’eredità puritana, che ruolo attivo esso possa mantenere nella massiccia invasione di nuovi gruppi etnici e culturali. Questa invasione non è una novità per gli Usa, ma oggi il fenomeno sta assumendo proporzioni mai viste, soprattutto per quel che riguarda il ceppo ispanico latino americano, di matrice cattolica. Può sembrare che in questo processo il ceppo anglo-puritano venga messo in crisi, anzi venga completamente sommerso dal punto di vista culturale e religioso, come è avvenuto dal punto di vista demografico e linguistico. La realtà è però più problematica e inquietante ed è questo l’interrogativo: forse, come dicevano gli antichi, “Graecia capta ferocem caepit victorem”. Infatti, queste nuove realtà di popolo, nell’impatto con la cultura e la mentalità americane, il più delle volte perdono la loro originalità, acquistando i valori e gli ideali della nuova patria e conservando solo gli aspetti più superficiali della loro identità. O meglio, conservano certi valori tradizionali, ma al di fuori di un contesto e di un metodo, così che l’unico esito sembra essere la confusione e il sincretismo religioso e culturale.

 

NOTE

(1) Cfr. P. Miller, The Puritan Way of Life, in Puritanism in Early America, ed. by G.M. Waller, Lexington-Toronto, 1973, p. 36.

(2) L. Giussani, Teologia Protestante Americana, Venegono Inf. (VA), 1969 (rist. Milano 1989).

(3) Miller, Puritan Way, cit., p. 38.

(4) A. de Tocqueville, La Democrazia in America, Bologna, 1953, p. 36.

(5) Da un discorso di R. Mather, citato in P. Miller, Lo Spirito della Nuova Inghilterra. Da colonia a provincia, Bologna, 1962, p. 35.

(6) J. Winthrop, A Modell of Christian Charity, in Puritanism in Early America, cit., pp. 3-5.

(7) C. Mather, The Wonders of the Invisible World, in I Puritani d’America, a cura di M. Corona, Milano, 1983, p. 45.

(8) Cfr. S. Bercovitch, How the Puritans discovered America, in In the Puritan Grain, Atti del Convegno dell’Associazione Italiana di Studi Nord Americani, Roma, 1984, p. 13.

(9) Giussani, Teologia Protestante, cit., p. 8.

(10) Cfr. Miller, Puritan Way, cit., pp. 47-48; id., The Marrow of Puritan Divinity, ibid., pp. 54-58.

(11) Winthrop, Modell of Christian Charity, cit., p. 4.

(12) Miller, Puritan Way, cit., p. 50.

(13) Cfr. Giussani, Teologia Protestante, cit., p. 23.

(14) Cit. in L. Ziff, Puritanism and Romanticism, in Puritan Grain, cit., p. 73.

(15) Miller, Puritan Way, cit., pp. 44-45.

Data

21 Agosto 1994

Ora

19:00

Edizione

1994
Categoria
Incontri

Relatori