ALBANIA, ATHLETA CHRISTI. ALLE RADICI DELLA LIBERTÀ DI UN POPOLO

Albania Athleta Christi. Mostre Meeting 2012

Albania, athleta Christi. Alle radici della libertà di un popolo

Partecipano: Teodor Nasi, Curatore della mostra; Ardian Ndreca, Docente di Filosofia e Direttore dell’Istituto per lo Studio dell’Ateismo e delle culture (I.S.A.) alla Pontificia Università Urbaniana; Agron Tufa, Direttore dell’Istituto degli Studi sui Crimini di Tirana. Introduce Giorgio Paolucci, Caporedattore Centrale di Avvenire.

 

ALBANIA, ATHLETA CHRISTI. ALLE RADICI DELLA LIBERTÀ DI UN POPOLO
Ore: 19.00 Sala C1 Siemens

GIORGIO PAOLUCCI:
Buonasera. Benvenuti tutti a quest’incontro che ha un duplice significato e un duplice scopo. Da una parte, presentare la mostra Albania, Athleta Christi. Alle radici della libertà di un popolo, che forse molti di voi hanno già visitato e altri andranno a visitare. Dall’altra, ha il compito di rilanciare le sfide, le domande, gli interrogativi che questa mostra propone non solo al popolo albanese e all’Albania ma a tutti noi. Sono le sfide con le quali si sono misurati, sentiremo tra poco, anzitutto coloro che hanno ideato e curato questa mostra: un gruppo di amici albanesi che vive in Italia e che ha fatto lo stesso percorso che ieri è stato raccontato, evocato da Javier Prades nell’incontro che ha presentato il tema del Meeting di quest’anno, La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito. Ciò che avevano percepito i primi discepoli, e che ieri Prades ci ha ripresentato, riproposto, è la stessa cosa che hanno percepito coloro che hanno ideato e curato questa mostra. Nell’incontro con Gesù, emerge la vera statura dell’uomo e del suo desiderio, quella nostalgia di assoluto, di infinito che percorre tutte le culture umane. Ed è stato proprio l’incontro con un cristianesimo vivo che ha mosso i curatori della mostra a riscoprire la storia del popolo a cui appartengono, un popolo antico e nobile, un popolo forse sconosciuto anche ai molti italiani che pure hanno imparato a guardare più da vicino, e oltre gli stereotipi, quei 500.000 albanesi che hanno messo radici nel nostro Paese in seguito alle migrazioni di questi ultimi anni. Vi presento i tre ospiti che abbiamo invitato questa sera: il professor Ardian Ndreca, Direttore Istituto Superiore per lo Studio dell’Ateismo e delle Culture alla Pontificia Università Urbaniana; il professor Agron Tufa, poeta, saggista, Direttore dell’Istituto degli Studi sui crimini e le conseguenze del comunismo in Albania, istituto che ha sede a Tirana; e l’avvocato Teodor Nasi, uno dei curatori della mostra. Partiamo proprio dall’intervento di quest’ultimo, a cui chiediamo di presentare brevemente le ragioni che hanno generato questa mostra e, se pure in estrema sintesi, per evidenti motivi di tempo, i suoi contenuti.

TEODOR NASI:
Grazie, Giorgio, per la presentazione. Buonasera a tutti. Diceva don Giussani ne Il Senso Religioso, al capitolo VIII, che la libertà si identifica con la dipendenza da Dio a livello umano, cioè riconosciuta e vissuta, mentre la schiavitù è negare o censurare questo rapporto: la coscienza vissuta di questo rapporto si chiama religiosità. La libertà è nella religiosità, per questo l’unica remora, l’unico confine alla dittatura dell’uomo sull’uomo – si tratti di Governo o di cittadini -, l’unica obiezione al potere è la religiosità. Credo che con queste parole si possa riassumere forse il punto più vivo della novità che nella mia, nella nostra vita, di tutti noi curatori di questa mostra, ha introdotto l’incontro con il cristianesimo. Riconoscere la libertà in una dipendenza, seppure in una dipendenza solo da Dio, è qualcosa che ci ha provocati a fondo perché è ben lontana da quel motto, da quella vulgata che continua a rimbombare in Albania – e che ha origine ai tempi del comunismo -, cioè che la fede degli albanesi è essere albanesi. Quella ideologia che pare abbia sostituito per certi versi quella comunista, l’ideologia della armonia religiosa sopra ogni cosa, una sorta di paura a entrare a fondo nella propria tradizione, nella propria appartenenza religiosa. Per me, per noi, è avvenuto proprio l’opposto, perché ci siamo interessati profondamente alla nostra identità, anche alla nostra identità albanese, solo dopo l’incontro religioso che abbiamo fatto qua in Italia, che abbiamo vissuto nei termini che ho appena esposto. La verità che abbiamo incontrato – e questo emerge dalla mostra – non è un punto che esaurisce ma che apre a delle domande, e quelle domande che questo rapporto in noi ha generato sono il cuore, il senso di questa mostra. E l’occasione per definire, per cercare di definire questa nostra appartenenza, questa nostra identità, sono stati i cento anni dell’indipendenza dell’Albania dall’Impero Ottomano, che si festeggiano quest’anno. Guardiamo con molta gratitudine al Meeting per averci dato la possibilità di esprimere queste cose.
La mostra parte dall’oggi. Dice Ismail Kadare, forse il più noto scrittore albanese vivente: “Agli albori del secolo XXI, la nazione degli albanesi mostra un tabloid il più possibile favorevole a sé. Lo si può riassumere in una frase: mai è avvenuto che nel mondo vi fossero tanti albanesi liberi. Al contempo, come per un contrappeso fatale, esattamente nello stesso tempo una seconda immagine, quella invisibile, suona un altro campanello d’allarme: questa nazione – l’Albania, gli albanesi – è in pericolo di dissolversi prima di essere cancellata”. Questa riflessione di Kadare, da comprendere rettamente, da approfondire, unita a quanto ho appena detto, ci permette di iniziare il percorso della mostra, tenendo come filo rosso la questione della nostra identità. La tradizione è viva se dice qualcosa del presente. Noi siamo cattolici albanesi e come tali affrontiamo le vicende dei grandi cattolici albanesi in questa mostra. Il dato storico della mostra è documentato con un percorso che si fonda su tre grandi icone albanesi, oggettive e valide per tutti gli albanesi: tre grandi icone cattoliche.
La prima, Giorgio Castriota Scanderbeg, l’athleta Christi dei papi del quattrocento suoi contemporanei, cattolico che fermò l’avanzata dei Turchi verso l’Europa. E’ un mito per tutti gli albanesi, un mito oggettivo, nessuno ne mette in dubbio la grandezza, nessuno nega che su di lui si fondi ogni mitologia propria degli albanesi. Negli anni, nei decenni in cui egli garantisce all’Albania una gloriosa indipendenza, si pongono le basi, si consolidano le prime istituzioni albanesi durature, che poi spetterà alla seconda grande icona di questa mostra, il clero e gli ordini religiosi cattolici, tramandare e difendere durante cinque secoli di dominazione ottomana. Abbiamo così la grandiosa opera dei francescani in Albania, più tardi quella dei gesuiti, il tutto riassumibile ora con una frase: che tutta la storia dell’Albania, fino a prima della seconda guerra mondiale, dice una cosa, che essere autenticamente religiosi, essere autenticamente cristiani ed essere autenticamente albanesi non sono cose in contraddizione, anzi.
Gjergj Fishta, un francescano, forse il più grande poeta albanese di ogni tempo; Scanderbeg, di cui ho parlato; un altro francescano, Shtjefën Gjeçovi, raccoglie per iscritto e codifica il diritto tradizionale albanese, raccoglie i canti più antichi della tradizione albanese. E sarà il vescovo di Lezhë, monsignor Bumçi, a compiere un miracolo diplomatico a difesa e a salvezza dell’Albania, ai tempi della Conferenza di Versailles, dopo la prima guerra mondiale. Ecco, questo è il punto: quando inizia la seconda guerra mondiale, quando il regime comunista sta per prendere e prende il potere in Albania, una cosa è chiara: che un cattolico albanese è un vero cattolico e un vero albanese.
Il regime comunista, per prendere il potere, usa due armi: la prima è una formidabile arma propagandistica. Iniziano a presentarsi i comunisti atei come i veri albanesi, e affermano che l’appartenenza religiosa è motivo di divisione. Questo genera ovviamente la reazione del clero cattolico. La seconda arma dei comunisti è l’eliminazione fisica di quasi tutti i membri del clero e degli ordini religiosi cattolici. L’Albania sarà il primo Stato ateo al mondo, e probabilmente anche l’unico. Nella Costituzione della Repubblica Popolare Socialista d’Albania, si fa obbligo alle istituzioni di propagandare il materialismo scientifico ateo e l’articolo 55 del Codice Penale della Repubblica Popolare Socialista d’Albania punisce con pene severe, fino a quella più grave, la morte, in alcuni casi, ogni forma di manifestazione di pensiero, anche religioso. Cinquant’anni di un buio totale: le chiese vengono definitivamente distrutte nel 1968, abbiamo cercato di documentarlo nella mostra, anche attraverso una piéce teatrale che riprende uno dei momenti culminanti della persecuzione del clero. Ed ecco che nel 1990, nonostante tutto, nonostante il buio, il buco nero in cui è stato fatto precipitare il popolo albanese, la chiusura estrema, ecco che comunque il comunismo cade.
Noi oggi possiamo descrivere perfettamente come ciò avvenne, ma l’impressione che abbiamo avuto nel lavorare per fare questa mostra è la difficoltà estrema nel trovare le ragioni del perché cadde. E non è stato un caso, se abbiamo invitato a parlare qua oggi proprio Agron Tufa e Ardian Ndreca, perché sono testimoni – lo dico davvero, senza nessuna captatio benevolentiae nei loro confronti – per quello che, ad esempio, ha scritto Agron Tufa, che non è cattolico. Lo vedevamo in sintonia con la nostra sensibilità su questi punti, non tanto sulle risposte, perché non le abbiamo e nemmeno la mostra le dà, ma sulle domande che sorgono, da darci una forte speranza. Le domande che sorgono agli albanesi dopo la caduta del comunismo sono diverse. Le possiamo riassumere attraverso la frase di un articolo del relatore alla mia sinistra, il quale ad un certo punto si chiede: ma sono in grado gli albanesi di dire quanto possiedono la verità e quindi, quanto sono liberi? In questi termini, è l’unica fonte dove abbiamo trovato una tale espressione. Vedete, io personalmente mi sono fatto queste domande e ho avuto una risposta o comunque un’ipotesi di risposta sul perché è successo quello che è successo al mio popolo, grazie all’incontro con l’opera di Russia Cristiana e con padre Romano Scalfi, che penso molti di voi conoscano, l’opera di raccolta e di conservazione e divulgazione di ciò che hanno fatto i dissidenti in Unione Sovietica. Diceva Sinjavskij – lo si legge nelle pubblicazioni di Russia Cristiana, vi invito a leggere queste cose – che la comparsa dei dissidenti, cioè di coloro che furono la ragione per cui implose il regime comunista nei Paesi dell’Est, simile ad un miracolo, testimonia in primo luogo la realtà e la indistruttibilità dell’anima umana e le sue millenarie aspirazioni alla libertà, alla creatività, alla giustizia. In questo senso, i dissidenti sono una prova evidente dell’esistenza dell’anima, anche là dove sembra che non ci sia o che non possa esserci. E non trovavo nulla di più calzante per spiegare perché cadde il comunismo in Albania: ma una resa così esplicita di questa ragione in Albania non vi è stata, e non c’è, se non in nuce, ancora oggi.
E noi cerchiamo con la mostra, forse inadeguatamente, di far partire queste domande, queste questioni, questa coscienza, e indichiamo – terza grande icona di questa mostra – come risposta esistenziale a queste domande, nella parte finale della stessa, la figura di Madre Teresa: la più grande santa del XX secolo ha avuto i natali nel popolo che ha creato il primo grande Stato ateo nel XX secolo. Questo avevo da dire. Se ciò che abbiamo detto è vero, sappiamo che troveremo l’accordo e susciteremo domande in tutti, anche nei non cattolici e anche nei non albanesi. Perché la verità è una sola. Quindi, io invito le persone che verranno a vedere questa mostra, che sono già venute a vederla, a leggerla così, a partire da questo dato particolare che è la storia, le domande attuali degli albanesi, per interrogare se stessi su questi grandi temi. Grazie.

GIORGIO PAOLUCCI:
Bene, grazie a Teodor Nasi che ci ha offerto – potremmo dire, vista l’ora – una specie di aperitivo rispetto alla mostra che ci dà una prospettiva interessante, per chi non l’avesse già visitata. E, come ricordava lui adesso, per chi l’ha visitata ripropone comunque domande che non appartengono soltanto all’esperienza di questo popolo ma all’esperienza umana elementare. Ora, vorrei provare a rilanciare questa provocazione sulla libertà ai nostri due ospiti che vengono dall’Albania: come avete sentito, la mostra propone questa sorta di fil rouge dell’aspirazione del popolo albanese alla libertà, una libertà sognata a lungo, inseguita, per secoli repressa, prima sotto la dominazione turco-ottomana, poi sotto il regime comunista. Poi c’è stata questa idea di una conquista della libertà che poteva seguire al crollo di una struttura oppressiva come quella, appunto, del regime di Enver Hoxha. Ma, come ricordava Teodor Nasi, forse la società albanese sta vivendo una grande illusione, l’illusione di poter avere in mano una libertà senza nome, senza volto, senza contenuto, senza radici. Ed è proprio questa la provocazione che, appunto, come ci ricordava lui, Kadare lancia, dicendo che forse, mai come oggi, è avvenuto che nel mondo ci fossero tanti albanesi che possono godere della libertà ma proprio in questo momento, paradossalmente ma non troppo, c’è il pericolo del dissolvimento di una società in cui appunto la libertà rischia di ridursi a un contenitore vuoto. Ed è un rischio in fondo analogo a quello denunciato da Benedetto XVI nel messaggio che ha inviato pochi giorni fa per l’apertura del Meeting di Rimini, messaggio autografo nel quale il Papa ricordava proprio il rischio di soccombere a quello che lui ha definito i «falsi infiniti», i falsi ideali assoluti, che in realtà ci imprigionano e non ci fanno respirare. Allora, al professor Tufa e al professor Ndreca, vorrei chiedere come sta la società albanese di fronte a questa grande questione irrisolta della sua storia, cioè di una libertà a lungo inseguita, per la quale è stato seminato sangue, per la quale sono morte centinaia di migliaia di persone, ma al raggiungimento della quale sembra ancora mancare qualche cosa. Come si può affrontare questa grande questione in fondo irrisolta della storia dell’Albania contemporanea? Partirei dal professor Ndreca, poi il professor Tufa.

ARDIAN NDRECA:
Grazie a tutti, grazie dell’invito agli organizzatori. Parlare della libertà e dell’identità come un binomio significa chiarire uno dei momenti fondamentali della vita di una Nazione, di un popolo. Devo premettere che riguardo alla libertà gli albanesi, vent’anni fa, alla caduta del comunismo, hanno avuto un’incomprensione fondamentale, perché hanno creduto che si diventa liberi se si è liberi di spostarsi nello spazio, cioè di poter attraversare i confini dello Stato, andare in un Paese dove c’è un benessere, una democrazia collaudata. Non è questa la libertà, non ci si avvicina alla libertà spostandosi nello spazio, e neanche a Dio ci si avvicina spostandosi nello spazio, se non diventiamo capaci di guardare dentro di noi, di scoprire prima di tutto noi stessi, che cosa siamo, di inorridire della solitudine che troviamo dentro di noi quando non c’è un principio infinito. Per fare tutto ciò, bisogna scoprire l’identità: sappiamo che in filosofia, in logica, c’è un principio fondamentale, uno dei tre primi principi fondamentali, che è il principio di identità. A è uguale ad A, io sono io. Ci sono filosofi, Fichte ed altri, che hanno costruito dei sistemi interi di filosofia su questo principio. Che cos’è l’identità? L’identità è ciò che rende qualcosa definibile e riconoscibile, è una relazione binaria con noi stessi, però è una relazione che si costruisce sempre, che si rinnova sempre, non è mai chiusa, non è statica. L’identità, non so, delle lingue morte, culture morte, è quella che è, possiamo scoprire di più o di meno ma non si sviluppa. Dunque, vi voglio parlare qui stasera, in questi pochi minuti, della carta d’identità del mio popolo. E premetto che non tutti gli albanesi possiedono questa carta d’identità di cui vi voglio parlare, cioè il binomio identità/libertà. Bene, sappiamo che la verità ci fa liberi, e questo significa che dobbiamo cercare una verità – non tutte le verità ci rendono liberi -, una verità ben precisa, una verità che è via, che è vita, e questa libertà coinvolge una dimensione interiore, profonda, in noi. Leo Longanesi diceva che non è la libertà che manca ma gli uomini liberi, dunque manca lo spazio interiore in cui io riconosco me stesso così come sono, pongo me stesso come oggetto a me stesso, giudico me stesso e sono capace di trovare, di fare un percorso verso l’infinito, che è l’unica cosa che può colmare questo vuoto che c’è dentro di me. Ebbene, io vi voglio parlare dell’apporto positivo del cristianesimo, dell’incidenza del cristianesimo nella formazione dell’identità del mio popolo. Io sono cattolico di Scutari. Il primo documento scritto in albanese risale al 1462, è la formula del battesimo: «Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Il primo libro stampato in albanese è un messale: risale al 1555, dunque circa cento anni dopo la pubblicazione del primo libro dai fratelli Gutenberg. Il secondo libro stampato in albanese è di un prete, nel 1618: una Dottrina cristiana che ricalca un po’ quella di Bellarmino. Poi, il primo dizionario d’albanese è sempre opera di un altro prete, pubblicato da Propaganda fide, la quale è benemerita nei confronti dell’Albania, perché per secoli ha aiutato non solo il cristianesimo ma la cultura, la Nazione, la formazione di un popolo e di una cultura in Albania. Il primo dizionario è un dizionario latino-albanese, latino-epirotico, pubblicato sempre da un prete, un certo Francesco Bianchi, Frang Bardhi. Un altro dei libri fondamentali della cultura albanese è di un altro prete, Pietro Bogdani: il Cuneus prophetarum. E poi, nel 1603, abbiamo un concilio indetto da papa Clemente XI, papa Gian Francesco Albani, il quale proveniva da una famiglia nobile di Urbino di radici albanesi, che indice un concilio albanese. E questo concilio albanese, come anche i libri che ho menzionato prima, su che cosa vertevano? Cercavano di rafforzare un’identità che rischiava di perdersi a causa dell’occupazione ottomana. Abbiamo nel 1700 la prima grammatica albanese, fatta da un francescano – qui c’è l’arcivescovo di Scutari che è anche francescano -, la prima grammatica è del 1716, Francesco da Lecce, che poi farà anche un dizionario. La Chiesa cerca di mantenere viva nell’animo di questo Paese la voglia di libertà, di formare una cultura che andava perdendosi a causa degli Ottomani. Ebbene, la cultura e l’identità si possono difendere con le armi ma non si possono forgiare con le armi, ci vuole qualcosa di spirituale, un elemento che vada al di là della materia, che possa fondare una cultura.
Io voglio parlare di un elemento che ha influito radicalmente nella preservazione della cultura e del popolo albanese nel Medioevo, e parlo di Medioevo anche dopo la scoperta dell’America, perché nella periodizzazione nostra purtroppo l’occupazione ottomana ha fatto sì che il Medioevo si protrasse molto oltre e molto dentro alla modernità. Vi volevo parlare del ruolo positivo che ha avuto, dal 1400 fino alla fine del 1800, il diritto consuetudinario albanese, o il cosiddetto Kanon, con termine greco. Questo diritto consuetudinario era vigente specialmente nelle zone abitate da cattolici e impediva la penetrazione della shari’a, del diritto islamico, e si opponeva all’occupante in termini di diritto. Cioè: io non ti posso cacciare perché la tua potenza è più grande, al momento, ma non ti riconosco, non riconoscendo il tuo diritto, non ti riconosco come tale. Ebbene, in quelle zone dove questo diritto consuetudinario era in vigore, si sono mantenute vive le tradizioni, si sono mantenuti i costumi popolari, s’è mantenuta anche la fede, per un certo periodo, e soprattutto gli ottomani non son riusciti a imporsi radicalmente come potenza occupante.
Ora, qual è il ruolo della Chiesa in tutto ciò? All’interno di questo diritto consuetudinario è compresa anche una parte di diritto canonico. C’è un diritto privato, c’è un diritto amministrativo, un diritto penale, cioè un diritto che comprende tutto, come buona parte dei diritti consuetudinari medievali. Il ruolo della Chiesa è stato quello di mantenere sempre viva la fiamma della libertà. Nel 1621 c’è un’insurrezione capeggiata da una prete cattolico, Pietro Budi, più tardi abbiamo altre insurrezioni minori che hanno coinciso, più o meno, con momenti di guerra dell’Impero contro i Turchi: la disfatta dei Turchi davanti alle porte di Vienna. E altre più tardi, sempre organizzate e alimentate dalla Chiesa. Il senso di tutto ciò è che ci identificavamo con la cultura europea e dovevamo difendere la nostra libertà. Nel 1400 gli scrittori albanesi scrivevano in latino, abbiamo umanisti albanesi che insegnavano a Padova, a Bologna, platonici e aristotelici che facevano parte dei circoli del tempo, avevano una scuola loro a Venezia, avevano rapporti molto affiatati con la Serenissima. Ebbene, tutto ciò costituisce le nostre radici vere, la strada dal 1400 fino a oggi è stata una strada per ritornare alla scoperta di queste radici, e ritornare alla scoperta di queste radici significa ritornare nel seno dei popoli europei, ritrovandosi di diritto all’interno della comunità europea. Certamente è stata una strada che è stata percorsa con molte difficoltà: non a caso, ho detto all’inizio che non tutti possiedono questa carta d’identità, perché purtroppo la libertà è un fardello molto grande per coloro che non hanno una sensibilità spirituale, per coloro che non riescono a concepire la libertà se non in termini materiali. Ebbene, questo fardello, queste persone, queste forze retrograde agiscono, sono sempre vive, sono sempre presenti nella società, anche oggi. La speranza, e ci sono buoni motivi per avere speranza, è che i giovani albanesi troveranno motivi sufficienti per agire e per pensare in termini di una logica che ci porti in Europa.

AGRON TUFA:
Nella mia risposta mi concentrerò sul cosiddetto “complesso autodistruttivo” della società albanese in un contesto di libertà. Non mi trovo del tutto d’accordo con il punto di vista di Kadare, quando dice che gli albanesi sono il primo fattore di distruzione di loro stessi, della loro società. A mio avviso, questo modo di pensare tiene conto solamente delle conseguenze, bypassando le cause. Per una serie di cause storiche, il mondo albanese, durante tutta la sua esistenza, non è riuscito a creare un’elite di intellettuali organizzati che non fossero manipolati dal potere politico e che vivessero una disciplina interiore moralmente elevata: e una somma di individualità non unite porta ad una società debole e frammentata. Con questo intendo che c’è bisogno di persone che si riconoscano in un’unità: unità che definisce la struttura di una intellighentia che possa operare un cambiamento nella società. L’Occidente ha sempre posseduto questa unità. Il mondo albanese, sin dai tempi delle sue origini, ha spesso provato ad auto-organizzarsi tramite convenzioni, ma queste organizzazioni temporanee non hanno avuto una lunga vita proprio perché mancava una sapienza radicata nella società che avesse una moralità e potesse resistere agli eventi della storia. Come conseguenza, il mondo albanese non ha saputo affrontare i vari momenti della storia e si sa com’è difficile, in una società senza unità o con un’unità fragile, tenere il passo della storia, anche se sei un popolo antico. La storia è un lungo cammino in salita, come la lunga scala di Giacobbe che sale verso Dio. Il mondo albanese è stato scaraventato giù moltissime volte da questa scala e spesso si è perso nei labirinti della storia. La caduta più rovinosa la subì nel momento in cui stava formando una sua fisionomia, quando i suoi frammenti iniziavano a organizzarsi in un’idea rappresentata dal motto dei francescani albanesi: “Per la fede e la patria”. Quest’idea consisteva in una unità plurale con un’anima religiosa a livello individuale e nel modello di educazione laica ed europea a livello istituzionale. La sconfitta più amara della storia, la società albanese l’ha subita per mezzo secolo alla fine della seconda guerra mondiale, quando è stata esposta al genocidio stalinista che ha usato i metodi del Terzo Reich. Penso quindi che il problema della fatalità e dell’istinto dell’autodistruzione sia molto più profondo e diverso da quanto sostiene Kadare.
La società albanese, che alle soglie della seconda guerra mondiale si trovava frammentata, dopo la guerra e sotto la dittatura comunista, venne soggiogata quasi totalmente. Il problema che bisognava e che tutt’ora bisogna affrontare, dopo la caduta del comunismo, è la ricostruzione dell’uomo uscito dalle macerie distruttrici dell’ideologia. Questo perché la società albanese ha ereditato lo stesso zombie formattato dal comunismo, uno zombie di uomo nuovo, senza respiro e senza religione, senza umanità e senza ideale, uno schiavo rimasto senza intelletto. Questo soggetto solitario alienato, incarnazione del fallimento totale, spirituale e intellettuale, si è trovato totalmente disorientato, senza memoria e coscienza di memoria, isolato, tagliato dal legame con la tradizione, con le generazioni, con i tempi, con le identità e la religione: in definitiva, una scatola nera e vuota. La traiettoria della ricostruzione dell’uomo è lunga e faticosa perché difficile e faticoso è fare buon uso della libertà. La libertà oggi viene usata, ma per continuare a costruire una schiavitù. Parlando di questo mi viene in mente un verso del premio nobel Joseph Brodsky: “Cara, per dimenticare la vita di un uomo ci vuole che passi almeno un’altra vita”. Se applichiamo questa frase alla sfera collettiva, allora possiamo dire che per dimenticare cinquant’anni di vita vissuta sotto la dittatura devono passarne almeno altri cinquanta vissuti nella libertà – libertà tra virgolette -, perché sono convinto che, durante mezzo secolo di dittatura, la società albanese abbia testualmente subìto una specie di mutazione genetica. Lamentarsi dell’attuale società albanese, dicendo che è la libertà che la sta rovinando e che nella libertà sta l’istinto dell’autodistruzione, non significa niente. La libertà si trasforma in un peso se l’uomo non si libera dai fantasmi della storia, dal Minotauro che si trova nel suo labirinto. Io penso che questi fantasmi della storia si esprimano oggi nella società albanese come mentalità, visione del mondo ed esercizio del potere, concepiti come controllo, ricatto e come intervento invadente gli spazi della libertà individuale e collettiva.
Tutti i poteri, in Albania, con la loro gerarchia, sono frutto dell’eredità del comunismo ed è come se gli albanesi non avessero imparato la lezione della storia. Per far cadere questo potere in un contesto dove mancano individui liberi, lontani sia dall’altruismo, sia da un amore a sé, è necessario ricostruire l’uomo come soggetto etico, attraverso la responsabilità verso l’altro. In altre parole, è necessaria una rinascita dell’io, così come espresso da Emmanuel Lévinas. L’io che io difendo contro il potere è quel soggetto che è necessario per garantire i diritti all’altro. Da noi ancora non ci sono io tali che possano difendere i propri diritti e quelli degli altri. La coscienza di quest’io presuppone la liberazione da questi fantasmi e dai miti della storia e la ricostruzione di una nuova identità responsabile.

GIORGIO PAOLUCCI:
Grazie al Professor Tufa per questo intervento, che mi pare sottolinei il fatto che i lavori non finiscono mai: c’é un cantiere aperto che è il cantiere della ricostruzione dell’io, della ricostruzione della persona dopo devastazioni perpetrate per molti decenni. E ancora bisogna mettere mano a questa ricostruzione perché davvero si possa capire cosa c’è sotto il contenitore della parola libertà. Nella mostra, ci sono alcune icone che nella storia albanese hanno rappresentato questo anelito della libertà e questo sforzo che la Chiesa ha sempre fatto per educare la libertà, per difenderla quando era in pericolo, per combattere in sua difesa. Certamente, una di queste icone è Madre Teresa, una grande figlia dell’Albania contemporanea, una grande madre dell’Albania contemporanea, come viene riconosciuta non solo dal mondo cattolico e cristiano ma un po’ da tutto il popolo albanese. E credo che davvero Madre Teresa possa essere definita come la testimonianza commovente che, come dice il titolo del Meeting di quest’anno, la natura vera dell’uomo è rapporto con l’infinito, che la vera libertà esige e risiede in un’autentica religiosità e che negare o censurare il rapporto con Dio significa, in fondo, accettare di vivere in una sostanziale schiavitù, che può assumere il volto tanto di ideologie feroci, come abbiamo potuto sperimentare in Europa il secolo scorso, quanto in una situazione di sostanziale indifferenza, di estraneità, che poi degenera nel relativismo, nel nichilismo, nell’assenza di riferimenti valoriali, come stiamo sperimentato in questo scorcio del nuovo millennio. Allora, guardando alla figura di Madre Teresa, la domanda che vorrei fare al Professor Ndreca è: come si può raccogliere oggi la sfida della sua testimonianza, che è una sfida che riguarda sia il popolo albanese, sia l’uomo contemporaneo? E quali sono stati i fatti, le esperienze che hanno reso più consapevoli voi che davvero la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito?

ADRIAN NDRECA:
Devo dire che Madre Teresa rimane l’icona più splendida del popolo albanese e anche del resto del mondo, perché non appartiene solo agli albanesi: lei era una figlia della Chiesa universale. Non ci dobbiamo fermare a questo, perché sentiamo sempre dire che era albanese e basta. Dobbiamo fare qualcosa di tutto ciò che Madre Teresa ha cercato di insegnarci: quando è venuta in Albania, ha visto la povertà materiale ma soprattutto la povertà morale di un uomo che usciva distrutto da un comunismo di stampo dispotico, di stampo caucasiano, per usare un termine che usa uno storico tedesco, Ernst Nolte.
Un comunismo di stampo islamico, che odiava doppiamente la cultura e la tradizione che in parte portavano con sé l’impronta cristiana. Io testimonio solo due brevissime cose, perché ognuno di noi ha fatto un suo percorso. Mi ricordo, quando ero piccolo, che passavo tutta l’estate dalla mia nonna Adelaide, che mi voleva tantissimo bene: verso le sei di sera, vedevo che lei andava in un angolo della cucina e recitava il rosario. Ero un bambino di sei anni e non sapevo, non si poteva insegnare apertamente che cos’era Dio. Mi faceva impressione che lei, che mi voleva tantissimo bene, non mi desse retta per quella mezz’ora. Allora cominciai a pensare che ci fosse qualcosa per mia nonna di molto più importante di me, perché in quella mezz’oretta non mi dava retta: io volevo giocare e pretendevo qualcosa. Questo mi fece pensare. Poi, chiaramente a scuola eravamo bombardati da una propaganda comunista, da un materialismo grezzo, volgare, senza una base teoretica e abbinato al terrore di uno Stato di polizia. Una seconda persona che mi ha aiutato a capire, da un altro punto di vista e molti anni dopo, è stato un francescano albanese, il quale ha passato più di due decadi nelle prigioni di Enver Hoxha, si chiamava Padre Zef Pllumi, autore di un bellissimo libro, Vivi solo per raccontare. Il primo volume pubblicato, purtroppo solo in inglese, in America, dice due cose, sostanzialmente: bisogna perdonare, ricordare e andare avanti. Il mezzo con cui andare avanti, secondo lui, in una società multireligiosa come l’Albania, è la cultura, una cultura che affonda le sue radici nelle tradizioni e nei valori dell’Occidente, cioè nella migliore tradizione occidentale. Questa cultura e questa tradizione insegnano, come diceva sant’Agostino, che il Dio nostro vuole celebrare l’uomo: egli stesso è diventato uomo per celebrare l’uomo. Allora dobbiamo trovare quel Dio nascosto, le Dieu caché di cui parla Pascal nei suoi Pensieri, quel Dio nascosto che si rivela. Lo dobbiamo trovare noi che siamo dei “re detronizzati” – sempre Pascal -, perché abbiamo perso i nostri diritti che ci vengono ridati tramite Cristo. Perché si tratta di una sfida? Perché l’uomo albanese di oggi – tranne le nuove generazioni, quelli nati in questi vent’anni – è il prodotto finale di un comunismo della peggior lega. Questo prodotto di comunismo è quello che si vede anche nelle cronache, in Italia e negli altri Paesi. Però devo sottolineare questo fatto: fa più rumore un albero che cade che una foresta intera che cresce perché, aldilà di quei casi di cronaca, c’è un popolo intero, una comunità intera che cresce, è integrata, dà un apporto positivo alla crescita di questo Paese dove vivono. Questa è una sfida che dobbiamo riscoprire dentro di noi ma che vale per tutti, non solo per gli albanesi: non sono esseri diversi dagli altri. Che cos’è la libertà di essere figli di Dio, di un Dio che insegna l’amore? Diceva Kierkegaard, del Dio dei cristiani, che è l’unico Dio in cui l’amore in sia un aggettivo ma un sostantivo: Egli è amore e amore e Lui sono la stessa cosa. Devo aggiungere una cosa. L’Albania non è, come si crede, un Paese a maggioranza musulmana. C’è stato un censimento in Albania: purtroppo il Governo, guidato da un personaggio che ha un retaggio comunista e non è abituato a pensare liberamente alla democrazia, non ha reso pubblici i risultati di questo censimento. I siti di Wikipedia, della Cia, addirittura, si rifanno a un censimento fatto nel ’37 e ’38. Voi pensate che la situazione sia la stessa del ’37? Dopo cinquant’anni di ateismo di Stato? Dopo l’entrata di sette, religioni, protestanti, evangelici e quant’altro? Non è la stessa. I dati, le stime non danno più l’Islam in Albania come una religione che abbia la maggioranza assoluta. Purtroppo non sappiamo l’esito di questo censimento perché il Governo lo tiene nascosto. Ed è lo stesso Governo, è la stessa classe politica che mantiene questo Paese, che ha un’impronta spirituale occidentale, membro della conferenza islamica. Questa, devo dire, è una vergogna. Concludo con un’espressione di Kadare: “Noi albanesi” scrive “entriamo di diritto nella comunità dei popoli d’Europa grazie ai cattolici e grazie al sangue che i martiri cattolici hanno sparso nella terra d’Albania”: questo non è poco, dobbiamo ricordarli e ispirarci a loro. Madre Teresa fa parte di questi confessori della fede e per questo motivo è una figura che ispira tutt’oggi albanesi e altri popoli. Grazie.

AGRON TUFA:
In Albania, le fucilazioni, la distruzione del clero iniziarono, con o senza pretesto, ancora prima della fine della guerra. Nell’Albania di allora, che conteneva poco meno di un milione di abitanti, sono stati fucilati, incarcerati con condanne pesanti, secondo quanto dicono i dati istituzionali, 120 sacerdoti cattolici, francescani e gesuiti, 83 Dervishes Bektashi, 60 imam, 39 preti ortodossi. La vendetta della dittatura comunista verso il clero cattolico aveva come fondamento la psicologia totalitaria dell’alienazione da qualsiasi sistema di valori religiosi e la sostituzione di essi con un dio nuovo, che era il capo del partito e il partito come altare davanti al quale doveva confessarsi collettivamente la società albanese. Dopo aver reso permanente il suo dominio e dopo aver eliminato i suoi potenziali avversari, il dittatore si scagliò contro le istituzioni religiose, distruggendo 338 chiese e moschee fino al 1976, quando il partito del lavoro in Albania dichiarò fuori legge la professione della fede in Dio, cosa che venne poi sanzionata nella sua Costituzione. Come sapete, l’Albania si è professata l’unica nazione atea al mondo. Da tutta questa ghigliottina, al clero cattolico spettò la parte più dura del martirio. Da questo massacro, la società albanese perse definitivamente ogni legame e rapporto, non solo con la Chiesa come istituzione che aveva a cuore l’educazione nazionale e sociale, ma anche con la ricca tradizione culturale che essa aveva creato in precedenza.
I preti cattolici, più di ogni altro credo, erano stati educatori nazionali, che avevano fondato un’identità albanese sui valori caratteristici più essenziali dell’impalcatura spirituale, con le loro opere letterarie, scientifiche e di pubblicistica. Si capisce che un’identità basata su valori estetici ed etici, sul motto “per la fede e la patria”, creava non pochi problemi alla dittatura. In questo modo, alla genesi del loro potere, i comunisti isolarono la società da ogni interferenza e memoria di questa tradizione, eliminando fisicamente i protagonisti della cultura ancora in vita e vietando le opere di quelli che erano morti, per spianare la strada alla nuova creatura sperimentale, una specie di mutante genetico chiamato uomo nuovo. Ma proprio da questa eredità di valori, schiacciati ma ancora vivi, da questa eredità di martiri, nasce Madre Teresa. Voi sapete che, finché era vivo, Enver Hoxha non permise mai a Madre Teresa di vedere i suoi familiari che si trovavano in Albania. Dopo la sua morte, durante la prima visita che Madre Teresa fece a Tirana, la prima preghiera che fece fu alla tomba del dittatore Enver Hoxha, per la salvezza della sua anima. Io credo che questa sia una lezione non solo per gli albanesi, che hanno subìto una dittatura così feroce, ma una lezione universale, una lezione nello spirito di tutto ciò che ha fatto Madre Teresa, di tutte le lezioni che ci dà. Nonostante il modello di Madre Teresa, proposto in Albania come pacchetto negli istituti di educazione, nelle scuole, c’è qualche reminescenza della propaganda totalitaria. Non è normale che una persona che ha fatto sacrifici tali, una santa, sia trattata come è stata trattata dai comunisti. Se dobbiamo, come società, sentire, ascoltare, seguire Madre Teresa, dobbiamo innanzitutto ascoltare le sue parole che non sono slogan ma confessioni intime alla mente e al cuore degli uomini. Se c’è un modello vero per educare l’uomo, gli albanesi hanno la possibilità di seguire dei simboli, delle persone che siano un segno di educazione vera.
Terminando, voglio dire che questi simboli, queste icone che iniziano come errore nazionale, non propagandati secondo lo spirito nazionalista-comunista, sono tutti i martiri cristiani, albanesi, ortodossi e principalmente cattolici, ma anche quella parte del clero musulmano che resistette e pagò con la vita. Soprattutto, un valore colossale acquista quella tradizione che ci dà il clero francescano con il motto “per la fede e per la patria”. Solo questa educazione delle nuove generazioni in Albania riuscirà a distruggere il nichilismo che il potere totalitario ha costruito. Grazie.

TEODOR NASI:
Io vorrei dire solo una cosa: se penso al futuro su questo temi, in Albania ma non solo, mi torna in mente e vorrei leggervi un’altra citazione di Sinjavsky, uno dei grandi dissidenti russi: lui parla di ciò che è stato il dissenso nell’Unione Sovietica, ciò che ha fatto cadere il comunismo. Lui parla del passato ma vorrei che voi lo leggeste traducendo i verbi al futuro: “Tutta la nostra problematica non si riduce a distruggere qualcosa o a criticare qualcosa. Noi non siamo un partito politico che si propone di andare al potere, di fare la rivoluzione. Nel significato più ampio della parola, la dissidenza non è semplicemente un’opposizione nata in rapporto al potere” ecco il senso della dissidenza, adesso dice qual è il contenuto positivo dell’opera di coloro che hanno fatto cadere il comunismo. “La gente ha cominciato a scrivere, a pensare, a compiere il bene. Tutto questo ha un valore in sé, indipendentemente dal risultato”. Ecco, io non avrei altro da dire, concluderei con questo. Grazie.

GIORGIO PAOLUCCI:
Mi permetto di sottolineare tre cose, due che sono emerse nell’incontro e una terza che vorrei aggiungere. Bisogna perdonare, ricordare e ricostruire. Parole dette da don Zef Pllumi, morto dopo vent’anni di carcere, pochi anni fa. Come si fa, dopo anni di carcere sopportato ingiustamente, a dire: “Bisogna perdonare, ricordare e ricostruire”? Come si fa a pregare sulla tomba di colui che ha portato a morte decine di migliaia di persone, come ha fatto Madre Teresa pregando sulla tomba di Enver Hoxha? Come si fa a stare a testa alta di fronte a chi ti garantisce la tua morte, la morte dei tuoi fratelli, la distruzione dei luoghi dove tu vai a pregare e a invocare il tuo Dio? Come si fa? Che cosa permette questo irriducibile sguardo positivo di fronte alla realtà e di fronte all’uomo? Che cosa lo permette, se non la certezza che la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito e che c’è qualcuno che ha testimoniato che questo infinito è venuto ad abbracciare l’uomo? Come si fa, altrimenti, ad avere una posizione così? E come si fa ad avere la posizione dell’arcivescovo di Durazzo, Vincent Prennushi, primate della Chiesa di Albania, protagonista di questa breve rappresentazione teatrale, un atto unico che dura circa 20’ e che viene riproposto durante la mostra, in cui si porta in scena un dialogo drammatico, a tratti commovente, tra il dittatore Enver Hoxha e Vincent Prennushi, il quale si rifiuta di aderire alla proposta di fondare una chiesa autocefala, indipendente, albanese, autonoma dalla Santa Sede e sottomessa fino in fondo al regime comunista? Perché si rifiuta di fare questo? Perché dice: “Un petalo non può restare staccato dal fiore al quale appartiene”. E infatti l’atto unico che va in scena durante la mostra si chiama Il petalo e il fiore; e la condanna che verrà decretata contro il Vescovo, che dopo pochi anni morirà in carcere anche in seguito alle torture che gli verranno praticate, non è però l’ultima parola. Il sangue di Prennushi e delle centinaia di martiri albanesi diventa seme della nuova Albania. Concludo rilanciando quello che mi pare il messaggio forte di questa mostra e anche di questa ora che abbiamo passato insieme, che è il riemergere della grande domanda che percorre la storia plurisecolare del popolo albanese e che è racchiusa nella domanda-provocazione che il professor Tufa ha scritto in uno dei suoi saggi: “Cosa vuol dire essere liberi davvero, se non si è animati dal pensiero di cercare e di riconoscere la verità?”. È una domanda con la quale questa sera ci siamo misurati, anche grazie alle testimonianze dei nostri ospiti. Abbiamo fatto un percorso che interseca la storia dell’Albania ma che riguarda tutti gli uomini e sfida di tutti noi che siamo qua. È anche per questo che in fondo possiamo dirci tutti un po’ albanesi. Grazie.

Data

22 Agosto 2012

Ora

19:00

Edizione

2012

Luogo

Sala C1 Siemens
Categoria
Incontri