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AL FONDO DELLA MANCANZA. DIALOGO CON…
Al fondo della mancanza. Dialogo con Fausto Bertinotti
Partecipa Fausto Bertinotti, Presidente Fondazione Cercare Ancora. Introduce Andrea Simoncini, Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Firenze.
ANDREA SIMONCINI:
Buonasera a tutti, questo è sicuramente uno degli incontri più attesi del Meeting. C’è stata molta preparazione, la stampa ha sottolineato in vario modo questo tuo arrivo al Meeting. Forse la grande stampa e il pubblico sanno meno che in realtà questo rapporto è cominciato già da un po’ di tempo e questo colloquio, questo dialogo che vogliamo fare qui, è forse il punto di un percorso che spero preluda a un altro tratto di cammino assieme. Si dice sempre e non si può che ripetere, anche in questa occasione, che ci sono ospiti che non hanno bisogno di presentazione. Il Presidente Fausto Bertinotti non ha bisogno di presentazione. È un protagonista della nostra storia politica italiana, della storia del sindacato, della cultura italiana: questo ci consente di saltare – se sei d’accordo, Fausto – questa fase preliminare.
FAUSTO BERTINOTTI:
Anche perché potrebbe essere imbarazzante.
ANDREA SIMONCINI:
Vorrei partire da questo: ai tanti che ti hanno chiesto, in questi giorni, come mai vai al Meeting di Comunione e liberazione, tu di solito hai risposto: perché mi hanno invitato.
FAUSTO BERTINOTTI:
Sono una persona beneducata.
ANDREA SIMONCINI:
Esatto. E io vorrei dire perché ti abbiamo invitato. Ti abbiamo invitato perché ci interessava molto, visto l’esperienza che hai e i giudizi che dai, il giudizio che hai e il pensiero che ti sei formato sul titolo di questo Meeting, cioè sul tema della mancanza. Qual è il tuo giudizio e come hai reagito di fronte al titolo del Meeting?
FAUSTO BERTINOTTI:
Grazie, intanto, per questo invito, grazie per la vostra presenza, per la vostra curiosità dialogante. Come diceva Andrea, lo chiamo per nome perché tra noi c’è amicizia, è un arrivo qui per cui vi sono molto grato ma con un cammino che abbiamo fatto attorno a delle domande che si riproporranno anche questa sera. Il tema mi pare coinvolgente, quello della mancanza. Forse è il tema dell’uomo del nostro tempo, almeno in Occidente o in quello che si chiama Occidente. Io penso che ci siano due modi per intendere la mancanza: una condizione disperante, l’espressione di una desertificazione dei sentimenti, delle emozioni, delle passioni, della ricerca di verità. E’ la mancanza definitiva o apparentemente tale, alienazione, separazione di sé, separazione dal proprio senso. Una mancanza che può segnare irreparabilmente il fallimento dell’esperienza umana. L’altra è quasi il suo contrario: la mancanza come il bisogno di andare nel profondo, alla radice, per trovare appunto una mancanza che però può essere riempita. A condizione che tu incontri un testimone, un evento, un elemento che fa scaturire, in quella mancanza, la rottura di quella dimensione di alienazione, la possibilità di riprendere la speranza e il cammino. La condizione che io ritengo indispensabile è incontrare lo sguardo dell’altro, cioè incontrare, insieme alla testimonianza, il dialogo. È la cosa che, dentro la mancanza, ti può aiutare.
ANDREA SIMONCINI:
Mi verrebbe da dire che, però, perché questo accada, perché questa mancanza incontri un pieno, una pienezza, occorre che il proprio sguardo sia aperto sulla realtà. Occorre avere un giudizio, una capacità di comprensione di quel che succede, di osservazione originale, una capacità di guardare quello che succede, di accorgersi se questa mancanza che vivo incontra qualcosa di positivo. Ma mi viene in mente che, se questa è la possibilità, c’è un grande ostacolo, oggi, a incontrare l’altro che può suggerire: sia tu che don Giussani lo identificate in una maniera che mi è sembrata simile. Parto da una citazione di Giussani. parla dei giovani a metà degli anni Ottanta e riscontra come una fragilità, dice: “Mi pare che la differenza stia in una maggiore debolezza di coscienza che adesso si ha; una debolezza non etica, ma di energia della coscienza. […] È come se [oggi] non ci fosse più nessuna evidenza reale se non la moda, perché la moda è un progetto del potere”. In questo dialogo che si chiama Sempre da capo, mi pare che tu segnali un rischio molto simile. Dici: “Oggi, dopo il crollo delle diverse ipotesi ideologiche, mi pare che una grande ideologia abbia preso il posto di tutte le altre. Questa ideologia dice: badate che con la morte delle ideologie è morta la ricerca della verità, è morta la capacità di leggere e decifrare la realtà, dobbiamo allora accontentarci di ciò che appare e ciò che conta sono solo le percezioni, quelle individuali, perché i grandi sistemi sono crollati”. Come fare a incontrare l’altro se oggi abbiamo un pensiero unico e le evidenze sono tutte crollate?
FAUSTO BERTINOTTI:
Ci inoltriamo in un terreno difficilissimo. Solo un accenno ma credo che vada tenuto sullo sfondo. Questa condizione che don Giussani descrive e anche io, più modestamente, più perifericamente, descrivo nella formula che vi è stata citata, non è una osservazione disincantata e/o aristocratica sul modo di pensare di una generazione o dei giovani. Anche perché io poi continuo a pensare che una generazione come quella che si affaccia in maniera così difficile oggi, materialmente e moralmente, vada indagata con sguardo partecipe, anche perché in mezzo a tanti elementi di isolamento ci sono molti elementi che incoraggiano una ricerca di futuro. Li avete anche qui, davanti a voi, nei vostri occhi. Quindi, sarei più partecipe e meno lontano. Ma penso che invece dobbiamo gustare lo sguardo perché il rischio è quello che lì viene descritto: questo rischio è il prodotto di una mutazione culturale dell’uomo contemporaneo, almeno io così penso. Noi, diceva san Bernardo, siamo nani seduti sulle spalle di giganti. Anche noi siamo nani seduti sulle spalle di giganti, senonché i giganti su cui ci siamo assisi sono franati, e noi siamo nani seduti sulle spalle di giganti ma orfani di giganti. La mia generazione, come diceva Giorgio Gaber, ha perso, ha vissuto una grande speranza, noi siamo stati gli ultimi di una grande speranza, quella speranza che nasce nel tempo in cui la vittoria contro il nazifascismo urla un “mai più”. Mai più l’orrore della guerra, 55 milioni di morti, mai più il nazismo, mai più il fascismo. Mai più l’abisso di Auschwitz. E quegli uomini, appunto i giganti, i padri, si mettono in cammino. Si mettono nel cammino della speranza, se volete dirla così, dell’utopia concreta. Scrivono la Costituzione repubblicana, scrivono queste parole che poi verranno inverate in un processo in cui questo popolo costruisce una società in cui la gente, la vita quotidiana, si avvicina a quella dettata dalla Costituzione. Ma quella storia di cui adesso non parliamo per brevità, una storia che è del Novecento, di questo secondo Dopoguerra, quella storia che sembrava aprire la strada – pensate a quanta speranza c’è nel vostro Concilio Vaticano II e a quanta speranza c’era nelle forze del movimento operaio che hanno costruito il compromesso democratico europeo -, quella esperienza viene sconfitta. Noi siamo all’indomani di una devastazione, in cui quella storia viene soverchiata, messa sotto, sconfitta, allontanata dalla costruzione di un ordine che potrebbe essere disperante. Io chiamo questa bestia – mi scuso per questo termine che allude troppo all’Apocalisse, ma non è del tutto peregrina l’allusione – capitalismo finanziario globale, è un mondo in costruzione che ha un’ambizione terribile, secondo me, un’ambizione a una mutazione antropologica dell’uomo. Questo capitalismo totalitario, liberato dal compromesso con le forze del ciclo precedente – il cattolicesimo democratico, il movimento operaio, il liberalismo democratico -, liberatosi da questo avversario storico che l’aveva costretto al compromesso, si rivela irriducibilmente incompatibile con la democrazia. E però c’è un’ambizione ancora peggiore di questa costruzione di un ordine oligarchico, ed è l’ambizione di costruire l’uomo oeconomicus, cioè un uomo totalmente preda del mercato. Un uomo che è insieme un lavoratore traumatizzato e un consumatore continuamente indebitato. Un uomo che non ha più altra religione che il vivere distante, perdere la sua umanità, la sua identità, la sua solidarietà, la sua compartecipazione all’altro. Noi abbiamo qui davanti, bussano alle nostre porte, migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia di uomini come noi, e cosa incontrano? Secondo voi incontrano – insieme a mille esperienze di accoglienza che non bisogna mai dimenticare, di cui siamo capaci – la società, il sistema, una totale refrattarietà, la negazione che quelli possano essere fratelli, partecipi di un destino comune? Perché si arriva a questo? Perché il calcolo è economico. Il calcolo economico è quello della produzione della merce, della esportazione della merce, della competitività e della produttività. Tu non puoi essere altro che un uomo competitivo, tu non puoi essere altro che una particella e un ingranaggio di questo processo di mercificazione. Ecco perché io penso che, perché tu possa incontrare l’altro, devi oggi attenderti l’evento. Lo dico con una cosa che a voi diciamo risulta più facile capire di quanto lo sia per me. Zaccheo vede Gesù, perché sale sul sicomoro o perché incontra il suo sguardo. È vero che siccome sta in basso non lo vede e va sul sicomoro. Ma non lo vedrebbe se non incontrasse lo sguardo di Gesù. È lo sguardo che determina la scintilla che consente la liberazione e la comprensione dell’altro. Noi siamo in attesa di questo sguardo, questo è il punto cruciale.
ANDREA SIMONCINI:
Eh, mi ha stupito questo accenno a Zaccheo, penso abbia stupito tanti.
FAUSTO BERTINOTTI:
È perché io il sicomoro lo conosco, è il resto che non conosco!
ANDREA SIMONCINI:
Siamo pieni di sicomori ma non passa nessuno, questo è il problema. No, questo accenno che hai fatto mi sembra cruciale. Oggi ci troviamo, confermando il giudizio, questo crollo delle evidenze, questo pensiero unico, questa distorsione della antropologia, del modo di concepire l’umano per cui siamo soltanto oggetto di consumo. Occorre incontrare uno sguardo così. Occorre incontrare qualcuno, e ha citato Gesù, per fare l’esempio di uno sguardo capace di spostarci da questo. Penso alla risposta che hai dato a molti che ti hanno detto: ma come, preferisci andare al Meeting di Rimini piuttosto che alla Festa dell’Unità? Se non ricordo male, tu hai risposto, più o meno: ma secondo voi, oggi, uno cosa preferirebbe tra Papa Francesco e un politico qualsiasi? Ecco la domanda: che ruolo ha la Chiesa, Papa Francesco in particolare? Perché vedo che con lui è come se ci fosse una sintonia affatto particolare. Ma che ruolo hanno per te, in questo panorama che hai descritto, la Chiesa, il cristianesimo e questo Papa?
FAUSTO BERTINOTTI:
Spero di essere, come è necessario, rispettoso, perché naturalmente ho la tendenza a tradurre anche il messaggio del Pontefice, pur avendo ben chiara la sua cattedra, in un linguaggio secolarizzato. Cioè, ho una tendenza a leggere ciò che di quella profezia, di quella testimonianza, può essere raccolto sul mio terreno di elezione, la politica. Per rispondere alla tua domanda, proverei a partire proprio da questo punto. Posto che possiamo essere d’accordo sull’analisi, l’analisi mia è che la politica, oggi in Europa, sia morta. Diciamo che bisogna fare un po’ di fatica per mettersi su questo terreno, ma così io penso. Perché allora, posto che sia giusta l’analisi, noi non abbiamo oggi la politica intesa nella sua accezione di costruzione di società ma nell’accezione corrente di politica politicante, di organizzazione della gestione del potere pubblico, di rappresentazione delle opinioni, degli interessi, insomma la politica così come ci si è presentata. Perché dentro la politica in Europa non viene una parola che sia vissuta con l’intensità di uno sguardo? Che ti interroga, che ti chiede una partecipazione anche critica ma che ti coinvolge? E perché invece la parola del Pontefice, quale che sia il grado di adesione a quella parola, suscita questa intensità di partecipazione, di coinvolgimento? Perché la seconda, secondo me, indaga la verità del tempo che viviamo. Cioè, perché la seconda è in sintonia con il segno dei tempi, che la politica non è più in grado di decifrare. La politica è oggi tutta presa dentro quella costruzione che abbiamo descritto. La politica è parte di quel processo di integrazione disumanizzante. Oggi la politica, che è stata tanta parte delle passioni di molti di noi, della partecipazione di molti di noi, è ridotta a governabilità, cioè a tecnica di Governo dell’esistente. Tu puoi scegliere questa o quella parte, puoi scegliere questo o quel Governo, ma quello che tu scegli è sostanzialmente muto perché qualche cosa sopra di sé decide di quella politica. Prendiamo il caso più semplice. Tu vai alle elezioni, partecipi con il voto, scegli un Governo. Sì, puoi sceglierlo ma non puoi scegliere la politica di quel Governo. Il caso greco è l’ultima dimostrazione. In realtà, c’è una costruzione in cui una oligarchia ha sequestrato la sovranità dei popoli e decide al posto dei popoli. Questa sottrazione fa sì che chi si muove dentro il recinto della politica può avere una differenza di retorica ma non una differenza di sostanza e quindi di verità. Voi avete ospitato oggi politici illustri e io non voglio essere irrispettoso. Ma posso sostenervi la tesi che secondo me tutti i governanti sono pressoché uguali? Che cioè oggi si differenziano per stile, modalità, retorica, ma sono parte dello stesso punto di vista? Quello che tu hai descritto dall’inizio. Tutti, tutti pensano allo stesso modo. Tutti pensano che il principio ordinatore della società sia la concorrenza e la competitività. Tutti pensano che il problema siano il debito e il deficit. Non c’è nessuno che pensi che bisogna invece liberarsi dallo sfruttamento e dall’alienazione, e non c’è nessuno che pensi a come si fa semplicemente a creare lavoro e occupazione per i tanti disoccupati che ci sono in Europa e per i giovani. Questo non lo pensa nessuno ma non lo pensa non perché è alienato individualmente, perché è parte di questo processo di costruzione. Perciò, dall’interno del recinto non viene la parola di verità. Spero qui di non essere troppo trasgressivo. Il Pontefice, per la natura della sua cattedra, sta dentro la vita dell’umanità e fuori da essa. Svolge cioè una presenza che è parte di questa umanità ma che anche la trascende. In questa trascendenza, che è diversa dalla mia, tuttavia c’è lo spazio per uno sguardo critico. Lo sguardo critico è determinato da questa possibilità di essere fuori dal recinto, di essere non omologato, di non subire la legge della concorrenza e della competitività che tutto omologa: il suo sguardo è diverso ed è uno sguardo profetico e penetrante. Naturalmente, io non mi devo chiedere perché questo è possibile. E allora vorrei dire che mi piacerebbe – lo dico in punta di lingua e vi chiedo scusa se dico delle cose sgrammaticate dal punto di vista della vostra costruzione di fede religiosa – che la politica fosse questa profezia, che si produce quando perdi il potere. Quando perdi il potere, si apre il terreno alla profezia. Può essere che non ci riesci ma se hai il potere, non c’è. Nel mondo ebraico, i profeti entrano sulla scena non quando c’è lo Stato e loro lo governano, ma quando invece perdono: quella costruzione politica viene distrutta con il tempio e nasce il tempo della profezia. Ora, il tempo della profezia è perché tutta l’esperienza che abbiamo alle spalle, noi e voi, con il potere, ha messo in luce una contaminazione a cui non siamo riusciti a sottrarci. Per cui il potere ha finito per produrre delle mutazioni nei soggetti che aspiravano invece a costruire la liberazione dalle condizioni determinate. Questa oppressione determinata dal potere chiede oggi la possibilità di parlare un linguaggio che sia totalmente altro da questo, non un compromesso. Il Pontefice esce da una rottura rivoluzionaria, francamente penso che una coppia come quella a cui abbiamo assistito, di un Papa che si dimette e di un Papa che viene eletto, che proviene dall’altro mondo, non può chiamarsi altro che così. Io capisco che voi possiate leggere questo fatto straordinario sotto il manto dello Spirito Santo e della sua ispirazione, ma per chi come me guarda con curiosità e partecipazione e interesse e rispetto questo elemento, penso che la politica dovrebbe imparare nel secolo qualcosa di analogo. Cioè dovrebbe imparare che per riconquistare la parola della verità e della profezia deve produrre una rottura rivoluzionaria con l’ordine esistente, non può continuare come se non fosse niente. Quel mondo, che è stato grande e terribile, è finito. Siamo in un’altra era che richiede una nuova costruzione umana, politica e culturale. Ed è per questo che io credo che anche alla politica sia indispensabile la parola profetica. Non si può ricostruire la politica perduta senza la fede. Siccome non vorrei aver rubato un applauso, naturalmente io penso alla fede al plurale, cioè le fedi. E quindi ci metto anche la mia.
ANDREA SIMONCINI:
Siccome vedo che sul tuo appello rivoluzionario stai sempre più crescendo di consenso in questa sala..
FAUSTO BERTINOTTI:
Per questo sono venuto qui. Altrove è difficile
ANDREA SIMONCINI:
Qui, siccome la domanda è viva, la rivoluzione non è violenta, è una trasformazione profonda della realtà. Perciò trovi sicuramente un orecchio molto attento e partecipe. Però ti debbo sfidare su questo perché sono rimasto molto colpito dalla lucidità dell’analisi che hai fatto, di come quel pensiero unico abbia prodotto questo grande recinto del potere della politica. Condivido l’idea che, rimanendo dentro questo recinto, non produrremo mai un cambiamento. E quindi condivido e capisco quando tu dici che occorre un punto di vista altro, alto, profetico. Ora però mi viene questa domanda: dove lo andiamo a pescare questo punto di vista altro? Perché non si tratta solo di cambiare recinto, rimanendo nella tua metafora, cioè di uscire da questo recinto per entrare non so dove. Mi pare che il secolo che viviamo ci dica che tutti i recinti che abbiamo costruito, tutti in modo diverso hanno dimostrato questo limite della contaminazione del potere. E allora, mi chiedo: per te che hai una prospettiva secolare, non trascendente, come hai detto più volte, dove andare a trovare un punto sul quale poter fare leva, che stia dentro la storia ma non sia un prodotto della storia?
FAUSTO BERTINOTTI:
Siccome la domanda è difficilissima, provo a prenderla un po’ da lontano. Ieri avete sentito una discussione bellissima su Abramo, un dialogo molto intrigante che mi ha lasciato più domande di quando è cominciato, ma anche di questo sono grato. Molti anni fa lessi un libro che mi colpì moltissimo, era scritto da un Gentiloni che non è quello che fa il Ministro degli Esteri adesso, un ex gesuita che aveva abbandonato l’Ordine. Scrisse un libro che mi affascinò moltissimo: si intitolava Abramo contro Ulisse. La tesi del libro, naturalmente tutta a sostegno di Abramo, era interessante. Diceva pressappoco così. Perché Abramo è superiore? Perché Ulisse in verità va verso un luogo conosciuto. Ritorna. E il movimento di Ulisse è un movimento circolare. Torna a quella Itaca che conosceva. Sì, certo, periglioso viaggio, ma ritornava. Abramo no. Abramo intraprende il viaggio e va su un terreno ignoto, dove Dio lo condurrà. Lui non sa dove andrà. Ecco la grandezza di questo viaggio. In questi giorni, ripensavo a quella cosa sentendo la conversazione su Abramo, mi veniva in mente che parla della nostra possibilità di uscita dalla disperazione. C’è un detto ebraico che recita pressappoco così: “Quando tu ti trovi su un territorio inesplorato e devi intraprendere un cammino, cerchi con lo sguardo il sentiero dove poterti incamminare. Se non vedrai nessun sentiero, quello è il momento di metterti in cammino”. Appunto, daccapo e ricominciare. Ed è in qualche modo un aggiornamento del messaggio di Abramo. Io ho un’obiezione a questo ragionamento. In verità, non ho nessun titolo per parlarne, ma godendo della vostra ospitalità e della vostra complicità, io penso che in verità non ci sia una grande differenza tra Abramo e Ulisse. Perché quello che è decisivo per entrambi non è la meta ma il viaggio. Come dice la stupenda poesia Itaca, di un grandissimo poeta greco: “Guarda, il viaggio, tu hai Itaca in mente, Itaca è l’isola del sogno, è l’isola di tutta la tua memoria, il fascino straordinario. Ma quando sarai arrivato, potrai ritrovarla come un cumulo di sassi assai poco significante. Ti sarai fatto vecchio e saggio e avrai imparato che quello che conta non è la meta ma il viaggio”. Ed è il punto della politica. Il punto è il viaggio. Soltanto che, aggiungo a complicare le cose, il viaggio non si fa senza una meta. Poi la potrai scorgere diversa da quella che avevi vissuto, ma per poter fare il viaggio ci vuole la meta. Questo è il punto oggi essenziale. Noi abbiamo una politica orfana della meta, non sa dove andare. Vive la quotidianità e l’istante, per intraprendere il cammino ci vuole: un atto di volontà. Non sai il sentiero, mettiti in cammino. Che è quello che fa la tantissima parte migliore della gente che conosciamo, cose che intraprendono un futuro aspettando l’evento. E l’altra cosa è che bisogna cercare la meta. Come si cerca la meta? Con una cosa che non sappiamo ancora fare: con il dialogo. Dico che non lo sappiamo fare non perché non ci parliamo, ma perché non abbiamo ancora guadagnato l’umiltà degli sconfitti. Noi abbiamo perso. Per poter ricominciare il cammino, bisogna cercare quello sguardo e accettare il dialogo tra diversi, non per cooptare qualcuno nella fede dell’altro ma per intraprendere il cammino. Noi abbiamo di fronte una bestia che ci vuole disumani. L’umanità è il ricominciare daccapo, scoprire il nostro destino dentro se stessi e nel dialogo con l’altro. In questo senso, le culture del movimento operaio e le culture cristiane hanno in comune, io credo, quello che consente di intraprendere il cammino. Cioè la solidarietà, l’idea, al contrario del pensiero liberale, che l’altro non è un tuo limite; non è che la tua libertà, come dicono, finisce dove comincia quella dell’altro. No. È che la tua libertà sta nella condivisione del destino con l’altro. E questo punto in comune tra il movimento operaio e il cristianesimo è la leva del futuro. Questo è il punto. È l’eguaglianza, è l’idea dell’eguaglianza.
ANDREA SIMONCINI:
Cominciamo ad entrare nel vivo di una parte di questo dialogo che mi pare molto promettente. Perché, secondo me, qui – e quando dico qui penso al Meeting, penso a eventi come questo – c’è molto di questo giudizio che tu dai. C’è tanta domanda di responsabilità, c’è tanta gente pronta a prendersi una responsabilità, c’è tanta gente che sente un ideale fino all’azione, tanta gente che non accetta quel pensiero unico o che sente la violenza di quella antropologia che viene imposta. Però, è come se qui, in generale, e questo è veramente un pezzo di strada comune, molti riconoscessero come certe forme politiche che ci sono state fino a un paio di anni fa, oggi fossero insufficienti. E’ come se ci fosse il bisogno di dare un volto nuovo alla politica. Non ci deve essere meno politica nella vita. Il problema è la forma con cui noi immaginiamo questa azione che deve cambiare, perché i tempi lo stanno chiedendo. Allora, mi piacerebbe adesso che su questo avessimo un pezzo del nostro dialogo, perché a me sembra che forse proprio su questo possiamo aiutarci. Tu dici: io vengo da una grande sconfitta. Penso che in un certo senso anch’io e tanti vengano da analoghe sconfitte. Però tutti e due sentiamo che questa non può essere la parola finale sulla domanda di impegno con la realtà. Allora ti dico: che caratteri deve avere? Cosa può essere oggi questa politica fuori dal recinto? Come muoverci? Dove andare? Prendo alcuni suggerimenti dalle cose che dici. Per esempio: oggi la politica deve avere un limite, non possiamo più pensare che la politica sia la felicità. In che senso questa può essere una direzione? Cosa vuole dire, immaginando questa nuova politica, partire dall’accettazione di un limite e non di una prospettiva aperta? Oppure, in un altro punto, dici una frase ancora più intrigante: oggi bisogna concepire la politica come se Dio non esistesse. E’ una frase che apparentemente può suscitare un sopracciglio rialzato, soprattutto in certi mondi. Poi l’ho riletta e mi sono accorto che sono molto più d’accordo di quello che pensassi. Perché? Perché mi è venuto in mente Papa Benedetto XVI, quando ha detto: guardate, noi nell’ordine politico non possiamo entrare utilizzando i precetti della morale, noi dobbiamo entrare nell’ordine della politica utilizzando ragione e natura. Questi sono i grandi. Allora, la politica come se Dio non esistesse, in questo senso la capisco: non possiamo usare l’autorità di Dio per dire le cose in politica, però togliere Dio vuol dire togliere l’idealità. Come se Dio non esistesse: cosa è questa politica neutralizzata? Due spunti limite e come se Dio non esistesse.
FAUSTO BERTINOTTI:
Penso che le due formule, che come tutte le formule sono naturalmente approssimative, si leggano insieme. La prima sembra quella dell’accettazione del limite, sembra l’accettazione di una politica come portatrice di un Dio minore, il senso del limite. Io penso al contrario che sia una condizione necessaria per la produzione della buona politica. Intanto, c’è una cosa minima che però, con i tempi che corrono, è importante: l’accettazione della politica del senso del limite che per esempio mi fa non condividere il precetto famoso della Costituzione americana secondo cui c’è la ricerca della felicità nell’obiettivo della politica. Io penso di no. Anzi, diciamo che l’accettazione del limite evita intanto il rischio che la politica si faccia fondamentalista, cioè che la politica si costituisca in religione. Vengo da una storia che questo errore storico lo ha compiuto, sono vaccinato. Quando non era per niente necessario che la costruzione del comunismo reale passasse per l’ateismo di Stato, non c’era nessuna ragione se non l’ambizione a farsi religione essa medesima, cioè a superare il limite, fino all’idea della costruzione dell’uomo nuovo. Ogni volta che la politica supera questo limite e si propone come religione, produce disastri. Oggi abbiamo queste esperienze di quando le religioni tendono a proporsi come religione di Stato e forma politica di Governo. Ma c’è una ragione in positivo che si aggiunge a questa in negativo: è che l’accettazione del limite è una sfida, non è una dismissione, chiede alla politica di guadagnare una sua autonomia, cioè di avere come ambizione nel limite l’idea di un progetto di società, non un progetto di nuova umanità ma un progetto di società. Questa concezione ha trionfato nella costruzione della Costituzione repubblicana italiana, che è precisamente questo. Ma quante volte abbiamo detto del nostro debito a Maritain? Perché quella costruzione in questo senso è maritainiana, che noi possiamo essere d’accordo sui principi senza essere d’accordo sulle causazioni dei principi. E dunque questa politica, che appunto ha un limite perché non deve mettere in comune la causa prima dei principi, costruisce la sua fondazione anche etico-morale sulle proprie fondamenta che sono quelle dell’autonomia della politica. In questo senso, come se Dio non esistesse. Perché lascia libero il campo della ricerca di Dio non impedita né pregiudicata dall’autonomia della politica; perché ha bisogno di una fondazione etico-morale che non può derivare solo dall’esterno ma deve fondare sul proprio processo costruttivo, cioè sul farsi costruzione. Io trovo che uno dei deficit più tragici dell’Europa in cui viviamo è che non casualmente è stata costruita come tecnica di Europa dei Trattati invece che come Europa costruita su una Costituzione democratica e civile che desse ragione di una civiltà: e questo deficit lo paghiamo drammaticamente. Quindi, la politica come fondazione autonoma. In questo senso c’è una cosa di Benedetto XVI che mi ha sempre molto colpito, una sua frase, spero di non storpiarla: “E’ necessaria una buona struttura nella società, ma non basta”. Scusate, è precisamente il senso del limite della politica, è come se Dio non esistesse. Una buona struttura non basta, ma ci vuole una buona struttura, perché una cattiva struttura non fa male solo al popolo nella sua materialità. Fa male al popolo anche nella sua spiritualità e nel suo bisogno dell’altro. Tanto è vero che noi oggi siamo in una società che, essendo mercantile, è una società fondata sulla cancellazione della solidarietà dallo spazio pubblico e dallo spazio politico. E tu te la devi conquistare nella società civile, la rinascita della politica, ma su questo torneremo. La rinascita della politica avviene fuori dal recinto, non è solo la parola profetica di Papa Francesco che si produce fuori dal recinto. Fuori dal recinto c’è la buona politica: ma di questo potremo parlare, perché questa politica è anche innovazione e visione del futuro. E’ l’evento. Tu devi in qualche modo anticipare. E’ l’attesa dell’evento. Ma l’attesa dell’evento non è passiva attesa di qualcosa che verrà, è invece partecipe costruzione di questa attesa dell’evento. L’attesa dell’evento è oggi il programma della buona politica.
ANDREA SIMONCINI:
Proseguendo in questa ideazione, che per ora rimane tra noi due, quindi non fa danni, cosa vuole dire allora oggi ridare voce alla politica? Parli di un limite accettato come sfida e non come costrizione, questa idea che non possiamo delegare alla struttura la salvezza della persona. C’è un terzo passaggio, però, che ho colto in questo libro che hai scritto, in questo dialogo che mi sembra estremamente interessante. Tu prefiguri una terza idea di politica in questo millennio. La cosa che mi colpisce è che, per darne un’immagine, ricorri a san Paolo. Dici che san Paolo non pensò di fondare una teologia politica. Qual è l’atteggiamento dei cristiani che promuove san Paolo di fronte al potere politico romano? “Non lo prende di petto, anche perché sa che è caduco, invece si occupa di qualcosa che va oltre, che trascende questa dimensione”. Tra l’altro, citi la Lettera a Filemone, la famosa lettera in cui san Paolo non promuove l’abolizione della schiavitù ma chiede a Filemone di trattare uno schiavo come una persona. E così facendo, pur apparentemente non ponendo un problema politico, porrà le basi per cui nel tempo siamo arrivati all’abolizione della schiavitù. Ma dici: “Mi pare un’operazione gigantesca quella che fa san Paolo, non è la politica ma ha a che fare con la politica perché fonda un popolo e consente la costruzione potente di un’istituzione come la Chiesa che dà vita a questo popolo”. Quindi, la politica è questa testimonianza di una diversità dentro il mondo che costruisce un popolo; ed è una terza dimensione che ha questa politica oggi. Cosa vuol dire questa idea che non prendere di petto il potere politico ma hai a che fare con il potere politico?
FAUSTO BERTINOTTI:
E’ tanto difficile quanto affascinante, però è veramente affascinante. Noi nel ’900, secolo a cui ovviamente appartengo, abbiamo avuto l’ambizione – parlo della grande politica – di addomesticare il potere, anzi, meglio, di conquistare il potere per perseguire l’obiettivo. Per i rivoluzionari, la conquista dello Stato e, dallo Stato, la costruzione della nuova società; per i riformisti, la conquista del Governo e, dal Governo, la realizzazione delle politiche e delle riforme. Naturalmente, non sto dicendo che Palazzo Chigi è uguale al Palazzo d’Inverno. Però, l’idea che il potere è qualcosa di cui ti devi impossessare ha dietro una grande illusione che poi si è rivelata drammatica, in un punto, miserabile in un altro. Ma qual è questa illusione? Che il potere è neutrale, che il potere è come un’automobile. Tu sali e la guidi dove vuoi. Invece, no. Il potere, semmai, non è come un’automobile ma come un treno che sta sulle rotaie e va. Tu stai su quel treno, puoi anche andare in direzione opposta ma sempre nella direzione del treno che ti porta. Cioè, il potere porta un segno ideologico, culturale, di organizzazione della divisione sociale. Il potere cioè è parte integrante della società e ne è il custode. Spero che non vi appaia proprio totalmente una stranezza ma bisognerebbe reimparare a praticare un’idea di cambiamento e di trasformazione senza il potere. Non senza la forza, che è un’altra questione, senza il potere. Paolo, questo in fondo fa, da un lato costruisce il pensiero, il più radicale dei pensieri di eguaglianza che si sia mai conosciuto nella storia, no, prima c’era stato il comportamento di Gesù al processo. Non credo si possa immaginare un disprezzo per il potere come quello che manifesta Gesù di fronte al suo processo. Chiunque legga, dice: ma come diavolo si farà venire in mente di rispondere così?
ANDREA SIMONCINI:
Eccellenza, possiamo dire disprezzo? Sua Eccellenza dice di sì.
FAUSTO BERTINOTTI:
Grazie. Come ti verrà in mente? Se vuoi in qualche modo portare a casa la pelle, tutto puoi fare tranne che così. Perché fa così? Non solo perché anticipa il disegno provvidenziale, perché va incontro alla croce e alla resurrezione. Ma dal punto di vista politico, se mi è consentito, più che disprezzo è invece l’espressione di una totale estraneità al potere. Fa come se non lo conoscesse, rispondendo a un suo disegno, e il potere viene totalmente negato come esistente, lo cancella proprio dalla sua presenza. Paolo, che invece lo considera, fa un’operazione diversa. Io non sono stato allievo di Rodano, uno degli inventori del cattocomunismo, ma fece nel 1968 un ciclo di lezioni, lo dico un po’ scherzando, per spiegare che non si sarebbe stato Lenin se non ci fosse stato san Paolo, grosso modo. Questo ciclo di lezioni avevano dentro un punto straordinario che mi ha aiutato tantissimo. Nella Lettera ai Galati Paolo di Tarso mette le basi per la fine della società signorile, cioè per la fondazione di una cultura e un’antropologia altra rispetto a quella signorile. Né servo né signore, né Giudeo né Gentile, né uomo né donna. Naturalmente, so bene che dice che siamo tutti uguali in Cristo: ma quel “tutti uguali” segnerà l’erosione delle fondamenta della società signorile e il compromesso che tu citi della concretezza storica è del tutto coerente e compatibile con l’assunto. Stiamo parlando sempre della traduzione secolare di un messaggio che non si può ridurre a questo, ovviamente. Ma in questa traduzione tu fai un’operazione di passaggio obbligato in cui accetti il compromesso quotidiano non con il potere ma con la condizione storicamente necessaria, mentre getti le basi del suo trascendimento che è un’operazione effettivamente gigantesca. Bene. Questa operazione che Paolo fa, segnando la storia dell’umanità, secondo me, Andrea, è indispensabile alla rinascita della politica. Assolutamente necessaria: se tu non attraversi il compromesso indicandone la via di superamento, non vai da nessuna parte. Ma come facciamo a non vedere la miseria anche della nostra quotidianità politica, di fronte agli avvenimenti che scaturiscono nel mondo? Come facciamo a non vedere l’impotenza di fronte al moltiplicarsi della violenza, della sopraffazione, dell’istinto di morte? Come possiamo non vedere la decadenza di civiltà, come possiamo non vedere una crisi di civiltà come quella che stiamo attraversando? Se la politica non fa insieme un’operazione di umiltà, entrare nella vita quotidiana degli ultimi e contemporaneamente alzare lo sguardo verso un mondo diverso da questo, non va da nessuna parte, sono morti che camminano, siamo morti che camminano. Non abbiamo alcun futuro se non cambiamo radicalmente, in radice, il rapporto tra la politica e la vita delle persone. Per farlo, secondo me, devi fuoriuscire dalla dimensione del potere, devi accettare il fatto storico che questo nostro capitalismo sta producendo la distruzione della democrazia e della partecipazione e contemporaneamente devi indagare la natura del potere e tenertene fuori. Non è vero che non si può fare politica fuori dalla dimensione del potere. Noi tutti, noi e voi, siamo quelli più in grado di testimoniarlo per storia. Ne parlavi poco fa, quando ci siamo incontrati. Dopo il non expedit, il cattolicesimo ha fatto di necessità virtù, e dal rifiuto della politica istituzionale ha posto le basi per una gigantesca costruzione di socialità, gigantesca. Ha costruito istituzioni, associazioni, organizzazioni, certo aveva alle spalle la Dottrina Sociale cattolica, ma quella veniva attraversata da questo bisogno di costruire politica fuori dai luoghi deputati della politica. Quella costruzione ha fatto sì che il cattolicesimo politico in Italia sia diventato vincente, grazie precisamente all’aver messo a frutto quella eredità. Ma il movimento per anni ha fatto lo stesso, prima di arrivare all’idea della conquista del potere. Dopo la sconfitta alla Comune di Parigi, il movimento operaio costruisce le mutue, le mense popolari, le società di mutuo soccorso, le leghe, le organizzazioni territoriali, mette insieme, coopera, costruisce la solidarietà nel tessuto sociale, produce i germi di una nuova società lavorando in queste nuove costruzioni in cui la solidarietà diventa un principio vivente di nuova comunità organizzata. La parola Comune è secondo me un punto di ripartenza, fuori dalla logica di potere, fuori dal mercantilismo capitalista. Bisogna costruire una nuova società. La politica nasce da lì, non nasce dai partiti e dallo Stato, oggi. I partiti e lo Stato sono parte della costruzione, bisogna liberarsi costruendo nuova umanità e società liberata.
ANDREA SIMONCINI:
Siamo partiti dal titolo del Meeting, abbiamo attraversato Chiesa, Papa Francesco e poi siamo arrivati a questo pezzo di cammino che, lo riconfermo, seppure molto inedito e inatteso, potrebbe essere veramente promettente per questa idea che la politica deve trovare un modo per affermarsi anche fuori dalle forme che abbiamo conosciuto fino ad adesso come le uniche possibili. Mi sembra un grande tema, perché non si arrivi a dover dire che la politica non c’entra. Mi ricordo che in un’altra occasione qualcuno ti faceva questa osservazione: “Siamo d’accordo quando diciamo che c’è un attacco alla dignità della persona, quando diciamo che c’è un attacco alla libertà, quando si dice che c’è questo rischio. Però potrebbe essere tutto un po’ apparente, un grande fraintendimento, usiamo le stesse parole, un po’ come diceva Maritain, a patto di non chiedere da dove derivano”. Allora, ti chiedo: perché reputi interessante questo pezzo di cammino? Può darsi che in verità, scavando, l’idea di persona che hai tu non sia la stessa che ho io, l’idea di uguaglianza che hai tu non sia la stessa che ho io. Lo dico perché noi oggi viviamo in una società che sempre più pullula di queste diversità. Ne abbiamo di ben più radicali, forse, della mia e della tua. Pensiamo all’immigrazione, alla differenza. Mi pare che il rischio grave che viviamo oggi è che queste differenze producano distanze abissali. Il paradigma ultimo è quello del multiculturalismo, inteso come irriducibilità assoluta delle differenze, per cui non si può dialogare. Sembra che l’unica condizione per dialogare sia condividere delle premesse. Qui mi sembra che ci sia qualcosa di nuovo, un dialogo, un pezzo di strada che sia utile. Perciò, che futuro vedi da questo dialogo? In che senso ti sembra interessante, qualcosa che possa aiutare tutti, pur senza necessariamente condividere tutte le premesse?
FAUSTO BERTINOTTI:
Ci sono diverse cose. Una viene dall’esperienza. Se uno mi chiede: “tu che hai fatto 50 anni di politica attiva, con chi l’hai fatta?”, c’è persino una formula liturgica che nella mia esperienza metterei insieme. Quando ci rivolgevamo ad una platea, dicevamo, da un certo punto in poi, “compagni e amici”. Era certo una formula rituale ma vi riconoscevo una diversità, anche uno stare insieme. Naturalmente, c’è un fatto generazionale: io vengo alla politica nel luglio del 1960, quindi incontro poco dopo il Concilio Vaticano II. Prima del Concilio Vaticano II, c’erano state le esperienze del dialogo tra marxisti e cristiani, tra cristiani e marxisti. Dopo il Concilio, però, tutta la mia vita politica è stata fatta accanto a cattolici, sia nella ricerca teorico-culturale che nella pratica. L’esperienza sindacale, naturalmente, è stata maestra. Poi stavo a Torino, dove le esperienze dei preti operai erano rilevanti e dove abbiamo incontrato un uomo di Chiesa che ci è stato maestro, quello che poi diventò il Cardinale Pellegrino. Scrisse un testo che per noi fu decisivo, Camminare insieme. Il dialogo, secondo me, tende a fare due operazioni insieme: se ne cade una delle due, cade il dialogo. Una è l’accettazione della diversità con l’accettazione della possibilità. Insisto sulla possibilità che noi restiamo diversi. Sto parlando ideologicamente, culturalmente, non solo umanamente. Ma questa possibilità viene messa sempre alla prova perché siamo nel dialogo diversamente diversi. Il punto è che il dialogo non accetta la ripetizione. Io entro nel dialogo ed esco in un altro modo. Non divento uguale a te ma divento diverso da me come ero prima. Il dialogo, cioè, chiede insieme una condivisione e il rispetto della diversità. Ieri, Carrón ha detto che in questo processo di costruzione, quello che conta è la scintilla che l’uomo mette nelle cose. Questa scintilla la può produrre un cristiano, un islamico, un ebreo, un non credente. È la scintilla quello con cui dobbiamo guardare l’umanità e a cui dobbiamo guardare. Questa scintilla secondo me vive nel dialogo. Il dialogo è promotore di scintilla, se è autentico. È per questa ragione, oltre che per quelle storiche, che sono così interessato: vedere se questa scintilla mi restituisce qualcosa. Questo dialogo è sempre una ricchezza, anche quando ci sono momenti di grande conflitto e grande scontro. Io però vorrei proporvi questo dialogo non come possibilità ma come necessità. Noi, in questa parte del mondo, appartenenti a fedi diverse, con l’ambizione di poter vivere con la scintilla, con l’evento, con lo sguardo creativo, abbiamo il dovere del dialogo perché abbiamo il dovere di mettere in cammino un popolo. Che cosa c’è di grande nella politica come premessa? L’ambizione a costruire un popolo. Io porto qui la mia esperienza, un’esperienza delle feste popolari, delle Feste dell’Unità. Sono stato per lungo tempo un militante del Partito Comunista, anche se non sempre sono stato considerato così. Molte volte, spessissimo, sono stato in dissenso rispetto alla linea ufficiale del partito. Consideravo la cosa quasi irrilevante, perché la mia appartenenza non era dipendente dalla linea politica, dal Comitato Centrale, dalla Direzione del partito, dal suo Segretario, ma dalla appartenenza di una comunità di donne e di uomini che avevano in comune un destino e un camminare insieme, un fare le cose insieme. Una cosa che ho ritrovato qui: la comunità, la Comune. Questo è il punto decisivo. Quando parli di politica, un conto è la politica come superfetazione, quella che vediamo; altra è la politica che vive e scaturisce dall’esperienza quotidiana delle persone, dal rapporto tra le persone che costruiscono una comunità vivente. Questa è la politica di cui abbiamo bisogno. Quell’altra è alienazione, delega. Questa costruzione di comunità è l’antidoto, secondo me, alla catastrofe. Io penso che noi dobbiamo avere la percezione che la civiltà e la crisi di civiltà in cui viviamo possono portare alla catastrofe. Il dialogo tra gli uomini e le donne di buona volontà, che costruiscono comunità nella solidarietà, è l’antidoto di oggi, non di domani, non di quando hai conquistato il potere ma di adesso, per costruire questa società che possa essere ospitale, la società dell’eguaglianza. Siccome abbiamo citato più volte san Paolo, vorrei salutarvi proprio con una consegna. È quella che viene ritenuta la sua frase conclusiva: “Ho combattuto la giusta battaglia, ho finito la mia corsa, ho mantenuto la fede”. Mi pare una buona lezione e un invito per tutti noi, grazie.
ANDREA SIMONCINI:
Voglio dire solo due cose in conclusione, anche perché penso che il dialogo sia sufficientemente comprensibile e persuasivo di per sé. Il Meeting ci abitua e ci ha abituato in questi anni a delle sorprese, a degli eventi inattesi. Questo incontro, questo dialogo sicuramente rappresenta una di quelle sorprese, anche se forse devo dire anche più di quello che mi aspettavo. La sorpresa deriva da questa osservazione finale, il fatto che oggi tanti di noi condividono questa percezione. Viviamo in un contesto che sta come minando alla radice la capacità dell’uomo di giudicare, di comprendere. Dunque, è come se minasse, prima ancora della capacità etica e morale di fare il bene, di fare le scelte giuste, il modo in cui noi percepiamo le cose. Ecco, il punto di partenza è che accada qualcosa, quello sguardo di cui tu parlavi. Intercettare lo sguardo con una posizione umana capace di tirarti fuori da questo recinto. È proprio vero che quando si innesca uno sguardo così, nasce quel dialogo che dicevi, in cui può essere che non abbiamo le stesse posizioni, può essere che sicuramente partiamo da punti di vista diversi. Ma allora, dov’è l’utilità? È l’utilità che, guardandosi e dialogando, si cambia, cambiamo. Penso di dover dire e di poter dire che, così come tu testimoni questo cambiamento in questo dialogo con noi, io testimonio il cambiamento delle mie idee nel dialogo con te. Questo è uno degli aspetti più belli che possa capitare ad una persona. Io penso che l’idea che la necessità, prima della politica, sia la costruzione di un popolo, sia una delle cose più essenziali e decisive che abbia mai ascoltato e sentito dire da questi palchi. Sono certo che su questo noi abbiamo una radice comune fortissima. Sono altrettanto certo che questo costituisca il vero baluardo alla desertificazione dell’umano in cui ci troviamo: questa battaglia per la relazione, per la persona come relazione, per la capacità di legame. Penso sia il grande punto sul quale sono certo che questo dialogo proseguirà, proseguirà camminando, anche non trovandoci sulle stesse posizioni. Di questo sono particolarmente grato a Fausto Bertinotti e a Gabriella Bertinotti perché, come sempre si dice, dietro ai grandi uomini ci sono grandi donne. Ma in questo caso, in maniera del tutto particolare, io mi sento di dare parte del merito di tutto quello abbiamo ascoltato stasera alla prima relazione, che è quella tra marito e moglie, che abbiamo qui. Vi ringrazio ancora tutti.