AL DI LÀ DEI MURI

A cura di Monica Maggioni, Presidente RAI, e Paolo Magri, Vice Presidente Esecutivo e Direttore di ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale)

Al di là dei muri

ROBERTO FONTOLAN:
Partiamo, abbiamo bisogno di silenzio grazie.

Musica e video.

Buonasera, benvenuti. Con una frase tratta dagli Archivi del nord di archivi del nord Marguerite Yourcenar e sulle notte del Chiaro di luna di Debussy, cominciamo questo nostro incontro, che è dedicato a una delle sfide più evidenti del nostro tempo e dei giorni in cui viviamo.
Un incontro intitolato “Al di là dei muri” e che abbiamo voluto e preparato con Paolo Magri, Direttore per l’istituto per la politica internazionale e Monica Maggioni, che però non può essere qui con noi per una questione personale non prevedibile. Mi ha pregato di salutarvi con queste parole. “Avrei voluto essere qui con noi oggi. Le cose della vita mi portano altrove. Ma questo racconto è il frutto del ragionamento che insieme stiamo facendo a partire dallo spazio muri e fino a qui dentro questa grande sala che ci porterà voci, immagini, suoni e testimoni con esperienze di vita, storie e vocazioni. Forse non daremo tutte le risposte, certo non le soluzioni, ma tutto ciò ci offre lo spazio della complessità. Ciao a tutti”.
Allora la costruzione dei muri. Uomini che come abbiamo sentito dalla Yourcenar, uomini che con i muri si proteggono, si difendono e muri che presto diventano anche le nostre prigioni. La dimensione del muro segna molti ambiti dell’esperienza umana. Il muro è fisico, qualche volta, ma è anche limite della conoscenza, barriera di disuguaglianza , incomunicabilità, quello che separa gli uomini dagli uomini.
Facciamo allora questo viaggio, un viaggio insieme arricchito, come ho detto, di immagini, suoni, voci e testimoni. Testimoni che abbiamo coinvolto in questo incontro, protagonisti del Meeting di questi giorni, Qualcuno avrà subito dopo questo incontro di ora un altro incontro alle 19, quindi una giornata di super lavoro, ma che abbiamo voluto un po’ raccogliere per costruire assieme questa occasione di confronto, di riflessione, sul tema dei muri e sull’al di là dei muri.
Allora, la prima cosa la chiedo subito a monsignor Tomasi.
Che muro, con quale muro si è trovato davanti monsignore? Con quale muro fa i conti?
Un attimo: non presento tutti gli ospiti di volta in volta vedrete chi sono, i loro nomi, sugli schermi, questo per favorire il fatto che è proprio una conversazione, una costruzione comune. Quindi mi perdonerà eccellenza se mi trattengo su tutta la sua biografia che è piuttosto lunga ma soprattutto è di grande amicizia con il nostro Meeting, perché da molti anni partecipa.

S. ECC. MONS. SILVANO MARIA TOMASI:
I muri lungo il cammino della vita sono tanti. Si trovano in varie circostanze, in vari momenti diversi, quando si incontrano difficoltà. Parliamo del muro delle nuove immigrazioni che possono creare dei problemi; parliamo del muro dell’incomunicabilità tra persone. Io direi che ci sono due atteggiamenti di fondo, che ognuno di noi adotta, consciamente o inconsciamente. Uno è un’apertura verso l’altro e si trova la strada di difendere la propria identità di difendere la propria storia attraverso l’apertura e l’incontro con altre persone. Il secondo atteggiamento è di dire: mi difendo dall’altro e mi chiudo in me stesso. Quindi due atteggiamenti. Uno di chiusura e uno di aperura.
Quello che io ho trovato molto complicato e una sfida personale è nei lunghi anni, che ho fatto per il servizio diplomatico per la Santa Sede. Nel trattare con la comunità internazionale si può lavorare assieme portando avanti la difesa dei diritti umani, cercando di negoziare situazioni difficili per evitare conflitti sanguinosi, cercando di creare le premesse per uno sviluppo equo nei paesi più poveri. Su tutti questi temi, ci si può trovare assieme, convergere anche su progetti operativi molto efficaci, però si arriva a un punto dove il cammino comune si interrompe ed è il momento quando si mette sul tavolo la possibilità, non dico l’imposizione, ma la possibilità di un discorso religioso.
Allora, viene da domandarsi: ma questo muro psicologico è un falso pudore, che blocca il coraggio di affrontare le intuizioni che sono all’interno più profondo della persona? E’ una cattiva volontà di non voler affrontare i valori ultimi che possono dare significato alla nostra vita? Quindi la domanda che emerge continuamente è: questo muro è valicabile? E se è valicabile, come ci comportiamo, come ci confrontiamo davanti all’intuizione profonda, che ogni persona ha sui suoi valori ultimi, su quello che veramente dà senso alla vita, che dà la capacità di interpretare gli eventi quotidiani e gli eventi straordinari in maniera coerente e che è in linea con l’identità propria di ogni persona?

ROBERTO FONTOLAN:
Allora lasciamo la suspense su questa domanda: parte ora la pubblicità, scherzo… Perché riprendiamo il discorso nel secondo… Ma vediamo e sentiamo un muro, qualcosa che ci ricorda un muro famosissimo.

Video

ROBERTO FONTOLAN:
Immagine, suoni e musica famosissima, celeberrima, almeno per certe generazioni, tra cui la mia. Per queste generazioni, per la nostra generazione, il crollo del muro dei Berlino è stato il simbolo della fine dei muri, della speranza di un’Europa senza muri, senza più muri. Erano gli anni di Giovanni Paolo II vissuto come un elemento chiave, come un protagonista chiave di quella improvvisa e tanto a lungo desiderata accelerazione storica. Sentiamo come Joaquin Navarro Vals (che è stato anche lui al Meeting in diverse occasioni e ne ricordiamo anche la scomparsa non molto tempo fa e che è stato a lungo portavoce e volto celeberrimo di quella stagione, della stagione di Giovanni Paolo II) sentiamo come ci raccontava quel momento.

Video

ROBERTO FONTOLAN:
Era quella appunto una stagione in cui si pensava che si sarebbe aperto un muro, forse non completamente senza muri, ma con molti meno muri, la stagione della apertura, dell’unità. Ma poi abbiamo visto negli anni successivi, in questi anni che molti hanno ripreso a costruire muri. Sentiamo ora questo filmato. E vediamo.

Video

PAOLO MAGRI:
Il muro di Trump con il Messico, il muro annunciato da Trump con il Messico, non è (non sarebbe), se fosse realizzato, solo una barriera fisica, tangibile, tra due paesi vicini e partner per molti temi. Non sarebbe solo il più grande muro del mondo (3.100 chilometri). E’ anche, lo abbiamo visto poco fa, uno dei punti cardine di una strategia politica, di un messaggio politico costruito appunto da questo nuovo presidente attorno ai muri. Quello col Messico sarebbe il muro tangibile, ma ci sono altrettanto importanti muri intangibili: quello dentro la società americana fra bianchi nativi e gli altri, che popolano gli Stati Uniti; i muri ricostruiti con l’Iran o anche con Cuba e i muri annunciati intangibili del commercio internazionale. Ho detto, però, muro annunciato, perché non è detto che questo muro a cui Trump tiene tanto (anche ieri è tornato su questi argomento in Arizona), vedrà la luce e soprattutto non è detto che possa vedere la luce nei tempi rapidi, che Trump auspica. Ci sono innanzitutto delle resistenze o dei dubbi di molti negli Stati Uniti sulla sua utilità. Di fatto tra Stati Uniti e Messico esiste già un muro che copre un terzo dei 3.100 chilometri. C’è una grande parte fatta di deserto e di montagne e in più c’è l’azione della polizia federale che contrasta. Ma nonostante questo muro, queste montagne e questo contrasto, negli Stati Uniti ci sono 11 milioni di immigrati illegali. Quindi, qualcosa non funziona nonostante le barriere.
Qualcuno resiste anche per quanto riguarda anche l’impatto economico di questo muro e di questa chiusura. Questi immigranti irregolari negli Stati Uniti lavorano, fanno lavoro sotto pagati che fanno gran comodo al settore agricolo ad altri settori dell’economia americana, pagano 12 miliardi di tasse all’anno e quindi hanno un ruolo importante. Addirittura un Fintech, un centro di ricerca conservatore americano ha stimato, che se il muro fosse veramente operativo, assieme alle espulsioni, l’economia americana perderebbe quasi due punti di PIL, che non è esattamente ciò che Trump vuole dopo aver promesso agli americani di rifar grande l’economia.
E in più ci sono anche delle conseguenze di tipo politico. Sarebbe uno schiaffo per i messicani e tra un po’ si voterà in Messico e la probabilità che la posizione dura di Trump porti al potere Obrador, l’ex sindaco di città del Messico, che ha una politica nettamente anti americana è molto probabile. E quindi non è nell’interesse americano, forse, stimolare un’ostilità in un paese vicino.
E questo ci sono dei dubbi: i dubbi come si traducono nel paese americano? Nel fatto che non si trovano i soldi per fare questo muro. Il muro costa 30 miliardi. Trump ha trovato ad oggi 1 miliardo e 6 e sta faticosamente lottando con il congresso per mettere i costi del muro dentro il bilancio del prossimo anno. Non ce la sta facendo e ieri è arrivato in Arizona nel punto di dire: se non ci saranno i soldi per il muro non approverò il bilancio, chiuderemo il governo, lo shut down che già abbiamo visto nell’epoca di Obama.
Quindi non è detto che questo muro diventi tangibile, ma i danni di questo muro annunciato e della filosofia che c’è dietro, rimarranno con noi comunque.

ROBERTO FONTOLAN:
Alejandro Marius è arrivato qui ieri da Caracas, Venezuela. Qual è il muro. Beh, è un applauso, per il suo viaggio… Qual è il muro con cui ti confronti, qual è il muro che vedi.

ALEJANDRO MARIUS:
Grazie. Innanzitutto, direi che mi ha commosso guardando il video, quando diceva che il muro di Berlino è finito quando la gente ha perso la paura e il mio muro è la paura. Il mio muro è la paura, innanzitutto direi, brevemente, a dire quello che penso; no, dico di più, quindi, a non avere la libertà di dire quello che penso veramente. Quindi la autocensura.
Sono altri volti che ha questo muro. Per esempio, la paura a livello personale. Pensate che Caracas è la città più pericolosa al mondo: l’anno scorso 28.000 morti, negli ultimi cinque anni 150.000 morti, omicidi, quindi in cinque anni, più che gli otto anni della guerra di Irak. Allora ho paura ogni giorno per le mie quattro figlie, per la mia moglie, per i miei collaboratori, perché una delle mie figlie è stata rapinata a due strade della casa mia per rubare il cellulare. E tutti in Venezuela conoscono qualcuno che è stato ucciso, che è stato morto… allora ho paura di uscire alla sera. Alle otto tutto finito. Non può girare liberamente, ci sono posti dove non si può girare. Ho paura dei miei collaboratori. Abbiamo un gruppo di whatsapp e sempre alla sera tutti dicono a che ora arrivano e se arrivano bene, perché non sappiamo tutte le difficoltà che possono avere prima di arrivare. Altra paura è sul tema di ammalarsi, perché non abbiamo medicine. Io, anch’io ho sofferto la tensione di andare in quattro-cinque farmacie senza poter trovare le medicine per un’allergia delle mie figlie. Quindi ti viene paura della vita della tua figlia, una cosa che in qualsiasi altra parte sarebbe molto normale. Dopo c’è la paura di lavorare con il pubblico. Noi abbiamo iniziato otto anni fa un’opera sociale e non lavoriamo con nessun governo locale o regionale o nazionale di nessun tipo di partito politico, sia di opposizione, sia del governo, perché in una società così polarizzata, lavorare con uno, vuol dire andare contro dell’altro e vogliamo mantenere la nostra identità per potere anche dare una mano a tutti quelli che vogliono formarsi al lavoro, indipendentemente delle sue idee, delle cose che loro pensano. Allora questi sono i volti che a me personalmente mi generano questa paura, paura di fare una vita normale.

ROBERTO FONTOLAN:
Grazie. Alessandro Rosina, ci sono anche altri muri, forse tra le generazioni, che sono un oggetto del tuo campo di studi.

ALESSANDRO ROSINA:
Sì. Noi dobbiamo avere un’attenzione particolare ad abbattere i muri che non consentono alle nuove generazioni di raggiungere il loro futuro desiderato. Quindi per la mia riflessione personale, volevo partire da una canzone, da un film e da un libro. La canzone e il film derivano dalla stessa opera d’arte, che è The Wall dei Pink Floyd (ma me l’avete già bruciato) e il libro, invece, è “Le città invisibili” di Calvino. Comunque, l’idea di fondo è che ciascuno di noi è un mattone e ciascuno di noi deve decidere nella sua vita, dove collocare, dove mettere questo mattone. Possiamo decidere di metterlo su un muro già esistente e contribuendo così a renderlo ancora più grande, ancora più alto rispetto a chi verrà dopo. Oppure possiamo decidere di porlo dove c’è un ponte e consentire, quindi, a chi verrà dopo di poter andare ancora più lontano. Quindi, il muro per me, chi si fa muro è chi in qualche modo si chiude rispetto a ciò che è nuovo e ciò che è diverso.
Pensiamo alla stessa Europa. L’Europa nei suoi secoli più bui è quella del Medio Evo: è un’Europa dominata appunto dalle paure, dalle insicurezze, un’Europa che si chiude e non a caso, il simbolo di quell’Europa sono le città attorniate, chiuse da mura sempre più elevate. Mentre l’Europa rispetto alla quale noi ci riconosciamo, è l’Europa del Rinascimento centro dell’arte, dello sviluppo, della scienza, della cultura, del commercio. E il simbolo di questa Europa è può essere Venezia. Venezia che è una città fatta di ponti, ma che essa stessa si è fatta ponte, si è fatta ponte tra Occidente e Oriente, tra due culture che non volevano annientarsi reciprocamente, ma volevano capirsi, comprendersi e conoscersi meglio. E questa idea di conoscersi, di confrontarsi tra culture è rappresentata in maniera mirabile all’interno di “Le città invisibili” di Calvino nel dialogo tra il Kublai Kan e Marco Polo, questo desiderio di sapere di conoscere di più e di confrontarsi. E allora sta a noi quindi, decidere cosa fare del nostro mattone: se lasciare come eredità alle generazioni future un mondo in cui i muri sono sempre più alti o i ponti sono sempre più solidi e ci consentono di andare sempre più lontano. Grazie.

ROBERTO FONTOLAN:
Bene. Giampaolo Silvestri. Decidiamo dove mettere questi mattoni.

GIAMPAOLO SILVESTRI:
Sì grazie. Vorrei partire da un piccolo episodio personale che mi è accaduto più di vent’anni fa. Nel 1996, per la prima volta io sono andato in Africa. Allora ero appena laureato e, appunto, stavo iniziando a lavorare in AVSI. Devo dire che vent’anni dopo e duecento viaggi dopo in Africa, devo dire che in quel primo viaggio, posso dire di non aver capito nulla dell’Africa. Ed ero andato in Uganda. Ero andato a vedere un po’ di progetti dell’AVSI e l’ultimo giorno ero andato a salutare Padre Tiboni, un missionario, che penso molti di voi conoscano, che ha dato un grande contributo alla presenza missionaria in Uganda. E quindi lo salutai e lui mi disse: “Con quante paia di scarpe sei venuto?”. Io dissi: “ Due”. E lui mi disse: “Va beh, allora una puoi lasciarla a me, che la posso dare a qualche africano, che ne ha bisogno”. Ecco questo episodio, che è banale e forse, può sembrare banale, può sembrare semplice, però mi ha fatto cominciare a capire, che la questione dello sviluppo era una questione, che o mi toccava personalmente, o c’era un mio coinvolgimento personale, oppure non aveva senso. Cioè questo piccolo episodio è come stato una crepa, che poi nel corso degli anni, e oggi posso dire, ha fatto crollare dentro di me un muro, cioè si è capovolta la geografia, è venuta meno la distanza tra me, che in qualche modo provo a fare qualcosa per queste realtà, per queste popolazioni, quindi quelli che vengono chiamati “beneficiari”. Perché è molto facile, troppo facile pensare nel lavoro che faccio, che tu stai facendo qualcosa (un progetto, un servizio, un’attività) “per loro”. In realtà, il muro che è caduto è proprio questo: è quello che ha trasformato il “per loro” nel “con loro” “insieme a loro”. Ma oserei dire di più: in fondo, lo faccio per me, cioè la questione dello sviluppo è una questione che tocca la persona, cioè un cambiamento della persona e quindi innanzitutto il mio cambiamento, perché ha fatto venir meno il muro dell’ideologia, cioè il pensare che il problema dello sviluppo sia il problema della povertà e quindi che si risolva tutto con delle politiche, perché invece sono persone, persone che hanno grandi problemi, ma che in fondo sono come te. E io, in questi vent’anni, quello che ho imparato è più di quello che ho provato a dare (progetti, la mia attività). Questo è il vero muro che è caduto, cioè il muro dell’ideologia del pensare che il problema dello sviluppo sia un problema solo di politiche e non che invece sia un problema, che riguarda innanzitutto noi. Oggi dopo vent’anni, quella che appunto all’epoca mi sembrava una piccola intuizione, il problema dei migranti ce lo pone in maniera evidente, non c’è più un noi e un loro, siamo tutti insieme; perché, appunto, arrivano qua e ci pongono, nelle nostre case, ci pongono delle domande, ci pongono dei problemi, ci interrogano e quindi quello che una volta era il mondo sviluppato e loro, oggi questa differenza non c’è più, si è annullata, è caduto anche questo muro.

ROBERTO FONTOLAN:
Giampaolo Silvestri ha citato l’Uganda ed è proprio dall’Uganda da dove viene suor Rosemary Nyirumbe e la prego appunto di raccontarci qual è il suo muro, qual è il muro che fronteggia nella sua esperienza. Parlerà in inglese e quindi state attenti all’oversound che ci accompagnerà in questo suo racconto. Grazie suor Rosemary di essere qui.

SUOR ROSEMARY NYIRUMBE:
Prima di tutto essere una donna africana, vedo nel muro un qualche cosa molto difficile da sormontare. E’ qualche cosa di strano anche come termine, perché da dove vengo viviamo in capanne rotonde e non c’è nessuna necessità di proteggersi dagli altri, perché noi gli altri li vogliamo. E quando ho cominciato a sentir parlare di questo muro, che veniva costruito ho pensato: “Questo muro è così grande. Dove arriverà? E chi lo costruisce? Perché, per cosa? Che cosa si nasconde dietro quel muro?”. Se guardiamo con attenzione, è il muro dell’egoismo, è il muro della incapacità di accettare gli altri. Con questo muro cerchiamo di tenere lontani gli altri. Non è per garantire un senso di sicurezza, che si costruisce questo muro. Se riteniamo che il muro sia una fonte di sicurezza, beh si tratta solo di una sicurezza immaginaria. Più lungo il muro, più alto il muro, più questo muro attira l’attenzione. Quando si costruisce un muro, si dà l’idea alle persone di voler venire a vedere che cosa c’è dietro questo muro, le si incuriosisce. Io vengo da una zona, che è vicina al confine con il Congo. Ci sono moltissime dogane, moltissimi limiti doganali che ci fermano, ma non ho mai visto nessun funzionario doganale lavorare. Semplicemente la gente va avanti e indietro tra il Congo e l’Uganda, per fare quello che deve fare senza problemi. Abbiamo trovato il modo di creare così tante strade e sentieri, che le autorità non le scopriranno mai. Vorrei fare una domanda: quanto denaro viene usato per costruire il muro? Questo denaro non potrebbe essere, invece utilizzato per lottare contro le malattie in Africa? La gente morta di malaria in Africa per anni e anni. Perché questo denaro non viene utilizzato per combattere questa piaga? E noi dobbiamo anche ricordarci, che se noi costruiamo Dio distrugge. Abbiamo visto grandi nazioni crollare e quindi nessuno può costruire un muro, se non Dio. Grazie.

ROBERTO FONTOLAN:
Paolo, abbiamo sentito tanti aspetti che riguardano i muri e anche suor Rosemary dice: quanto costa costruire un muro? L’avevi citato tu prima parlando del muro Messico – Stati Uniti. Qual è il muro, secondo te, più grande, più importante e forse più pericoloso o difficile o complicato da affrontare oggi.

PAOLO MAGRI:
Io credo e temo quello che stiamo costruendo, in silenzio, nei confronti dell’Islam. Dalle torri gemelle in poi e con gli attentati di questi ultimi tre anni dentro tutti noi è cresciuto e sta accrescendosi, anche se ragioniamo, il fastidio, il timore, il rifiuto del mondo islamico e delle presenze islamiche. Non siamo, voi non siete il pubblico di un raduno della Lega a Pontida, ma sono sicuro che se chiedessi a voi se in questi anni in questi ultimi anni, soprattutto in questi ultimi mesi, non vi è successo, non vi è capitato di essere in una piazza della vostra città e vedere tanti maghrebini e pensare con preoccupazione a quella presenza o trovarvi su un treno alla sera e avere…, da soli con poca gente, e vedere uno o due ragazzi e pensare “Cosa può succedere”. Ecco, questa diffidenza forte che sta, anche legittimamente crescendo, sta innegabilmente costruendo dei muri. E’ un tema delicato e complesso e lo dimostra, quanto sia delicato e complesso, l’attenzione con cui il Papa, a differenza di altri leader politici, che non cito, è attento alle parole quando parla di questi temi, è attento all’uso di Islam, islamista, radicalismo, guerra di religione, religione. Ed è un tema delicato e complesso, perché tocca appunto le opinioni pubbliche, rispetto al quale ci sforziamo di dare elementi di ragionamento, ci sforziamo di dire, guardando gli attentati che sono avvenuti, che, è vero, tutti gli attentatori erano della famiglia islamica, ma l’Islam, se guardiamo la loro vita, il loro curriculum, le loro esperienze, è una esperienza molto marginale, molti sono convertiti, mezzi sbandati, convertiti all’ultimo momento, radicalizzati sul web in pochi mesi.
Ci sforziamo in modo più alto, più sofisticato, come fa Olivier Roy, che non siamo di fronte a una radicalizzazione dell’Islam, ma siamo di fronte a una islamizzazione del radicalismo, cioè una spolverata di Islam messo su giovani radicalizzati per diversi motivi, che sono individuali, psicologici, sociali e altro. Ci sforziamo anche, io personalmente cerco di farlo in ogni occasione, di ricordare i numeri, le statistiche: stiamo parlando ad oggi in Europa di cinquanta persone che hanno compiuto attentati in una comunità che in Europa è fatta di cinquanta milioni di persone, solo nell’Unione Europea sono sedici milioni.
Ma questo non basta. Non basta perché, lo vediamo, agli italiani IPSOS chiede (una società di sondaggi), chiede a tutta Europa: “Quanti sono secondo voi i musulmani in Italia” e la risposta che viene data (che dà il senso dell’invasione) è il 20%, quando sono il 4%. Quindi, il senso di essere invasi e anche il senso di ostilità: sette italiani su dieci dichiarano di essere ostili nei confronti dell’Islam. E questo (e chiudo) è una sfida delicata e grave perché l’ostilità non permette di essere freddi nel fare giuste politiche di integrazione (pensate al dibattito sullo ius soli); perché l’ostilità distrugge la zona grigia fra comunità che vivono nello stesso territorio (milioni di persone che vivono da noi), distrugge la zona grigia e crea un “noi” e un “voi”, di cui si parlava prima, che vale sia dentro la nostra società, ma vale anche nei rapporti fra Stati. Ci sono decine di stati islamici nei confronti dei quali accresce l’ostilità e stiamo parlando di un quarto della popolazione mondiale.
Ecco, quindi, alla tua domanda su qual è la sfida più grave, più delicata credo che questa lo sia e credo che questo imponga sia un impegno delle persone di buona volontà nelle nostre comunità, ma condanni anche queste comunità islamiche presenti da noi ad un ruolo più visibile, più attivo. Non tanto, sappiamo che sono contrarie allo stato islamico, agli attentati, ma devono superare la timidezza e rendere il resto dell’opinione pubblica più convinto e più consapevole, che loro sono le vittime principali e quindi loro sono i primi a dover essere vocali, espliciti, nei confronti di questo grande rischio.

ROBERTO FONTOLAN:
Grazie.

GIAMPIERO BARTOLINI:
“Ora paragona la nostra natura, per quanto concerne l’educazione, la mancanza di educazione, a un caso di questo genere: pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l’ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell’antro. Essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco. E tra il fuoco e i prigionieri, come una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stata costruito un muricciolo, come i paraventi sopra i quali i burattinai celati al pubblico mettono in scena i loro spettacoli. Li vedo, disse. Immagina allora degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti di ogni genere, sporgenti dal margine e statue e altri immagini in pietra, in legno, delle più diverse fogge. Alcuni portatori come è naturale parlano e altri tacciono. “Che strana visione! – esclamò – E che strani prigionieri!”. “Simili a noi, simili a noi!”, replicai. Innanzitutto credi che tali uomini abbiano visto di se stessi e dei compagni qualcos’altro che le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna di fronte a loro? “E come potrebbero – rispose – se sono stati costretti per tutta la vita a tenere il capo immobile?”.

ROBERTO FONTOLAN:
Le nostre ombre riflesse sul muro. E ora cerchiamo di capire, di raccontarci cosa c’è al di la di questo muro. Perché vale la pena di fare la fatica di superarlo? Come si attraversa questo muro?
Monsignor Tommasi ci aveva lasciato prima anche con una suspence, su una domanda, non so se vuole riprendere da qui o da questa.
Lei è padrone, può fare ciò che vuole.

S. ECC. MONS. SILVANO MARIA TOMASI:
Certo che al di là del muro ci possono essere delle domande molto difficili. Da giovane prete una volta ho deciso di andare con un gruppo di emigrati messicani, di notte, a passare il confine per entrare negli Stati Uniti. Siamo andati, si accendevano i fuochi e cucinavano un po’ di cibo alla sera, aspettando che la notte profonda arrivasse e poi si camminava, si passava sotto la rete che divideva il Cagnon Zapata (come si chiamava quella specie di vallata che divideva, verso Tijuana, gli Stati Uniti dal Messico) e si entrava negli Stati Uniti.
Mi è venuta da quel tempo una domanda: il muro si può passare, ma tra legalità e la correttezza etica, come ci poniamo? Sono domande difficili, che suscitano l’al di là dei muri. Ci sono muri di intransigenza al dialogo, muri di povertà economiche, che si fa fatica a decifrare, però bisogna affrontarli andare un po’ al di là e trovare la ragione per cui questi muri non devono più esistere. E lì scatta un pensiero diverso. Scatta una dimensione nuova, che arricchisce la persona umana, che però apre strade verso un futuro di solidarietà dove possiamo tutti assieme lavorare e veramente fare in modo che i muri non ci siano più.

ROBERTO FONTOLAN:
Alejandro qual è la tua risposta a questa domanda: cosa c’è al di là del muro, il muro che così hai raccontato in modo così toccante ed emozionante prima.

ALEJANDRO MARIUS:
Sì, infatti stavo pensando, mentre parlavano gli altri, il muro e la paura ti fa costruire dei muri nei diversi ambiti. Pensavo sul tema della libertà di espressione, della autocensura. Non parlerò di chi genera la paura, giustamente per questa ragione. Però è chiaro, che quando devi dire una parola tu sei sfidato ad essere più intelligente, ad andare al profondo delle cose che vuoi dire, senza fermarti in argomenti particolari; quindi quando hai poche parole da dire, devi ragionare di più su cosa dici.
L’altro aspetto che diceva sulla paura, sulla violenza personale voglio raccontare, perché nel primo intervento sono stato (Monsignore… tu hai detto che lui è il capo, quindi gli chiedo a lui il permesso), sono stato veloce quindi adesso aggiungi un minuto. Monsignore sei d’accordo? Perfetto.
Allora perché per me è stato un episodio molto interessante. Come sapete in Venezuela in questi ultimi mesi abbiamo avuto tanti scontri, repressione, e ci sono gruppi che non sono d’accordo con il governo, che pensano che con la violenza possono risolvere i problemi. Sono tanti i ragazzi per strada che la pensano così. A volte sono di fronte ai supermercati, chiedendo da mangiare, ma chiedendo di mangiare per la resistenza. E io sempre li ignoravo, nel senso che non sono d’accordo che la violenza possa essere una forma per cambiare le cose. Ma una volta uscivo con le mie figlie, che hanno paura anche di questi ragazzi, ho detto “Andate in macchina velocemente, io mi fermo a parlare con loro”. Ho parlato con loro e ho chiesto loro: “Ma se io ti do da mangiare, alla sera cosa fai?” “Viene un altro”. “E domani?” “Viene un altro”. “Ok. E quando tu raggiungi il tuo obiettivo che cambia il sistema cosa farai?” “Non lo so”. In questo momento, perché è anche il mio mestiere, io gli ho detto: “Scusa, io conosco una persona, che ti può parlare e ti può offrire opportunità. Cosa facevi tu prima?” “Io lavoravo sulla meccanica.” “E tu?”. E cosi sono venuti tanti e ho scoperto negli occhi di questi ragazzi, che il loro vero desiderio non era proprio “cambiare il sistema” o “utilizzare la violenza”, ma mancava una possibilità, mancava un percorso di opportunità per loro.
Quindi il loro desiderio, guardando gli occhi di questi ragazzi, ho capito che avevano anche la mia stessa paura, quindi ho vinto io, hanno vinto loro, adesso c’è tutto un lavoro da fare, però interessantissimo.
Con le mie figlie, parlando di questo sfidante incontro, ho chiesto loro sul tema della paura. E mi hanno detto: “Papà per noi adesso è una abitudine il perdono, perché non sappiamo se domani alla nostra compagna di classe che abbiamo fatto un problema, non posso tornare a casa con il problema perché non so se la vedo domani. Perché va fuori dal paese o la uccidono, quindi il perdono per noi adesso è più abituale”. È una cosa bellissima.
Sul tema delle opportunità, noi facciamo formazione al lavoro ai giovani, e quindi capire che la violenza viene per mancanza di opportunità e andare incontro ai giovani che magari non sanno la matematica, che sono nella droga, sono in gruppi violenti… Offrire loro (che possono essere meccanici possono lavorare sul legno, che possono lavorare), è già un modo di vincere questo muro andare proprio al fondo del problema che può causare questa violenza. E finisco con due cose. Sul tema delle medicine è incredibile: qui in Italia sono tanti, ma in tutto il mondo, i venezuelani, italo-venezuelani, spagnoli, è una rete internazionale di solidarietà, che utilizzando i mezzi conosciuti dal Monsignore, non tradizionali, fanno arrivare le medicine in Venezuela. Quindi, quando tu hai un problema così, ci sono persone con una sensibilità tale, che ti consentono tramite la solidarietà, di arrivare ad una soluzione (parziale), ma ad una soluzione del problema. Quindi la paura io sento che sono muri che, all’inizio per intuizione, ma dopo di averli superati, per certezza; ma che tu vai avanti, cadono, ma crescono, costantemente. Personalmente, non è che ho vinto la partita, continuano a crescere, ma c’è, non so, nel nostro cuore, qualcosa che ti spinge ad andare sempre all’incontro dell’altro, che ti consente di superare i muri. Quindi è come giocare non in difesa, ma all’attacco, per poter vincere la partita. E quindi andare incontro all’altro, perché c’è la certezza che quello che ti fa del male ha la stessa natura tua e puoi guardarlo negli occhi e puoi trovare qualcosa di positivo, che serve per la tua vita.

ROBERTO FONTOLAN:
Riguadagniamo questa piccola porzione di tempo per avere, (che grazie Alejandro si è conquistato, si è guadagnato, autorizzato da Monsignor Tomasi, perché ha detto delle cose bellissime) lo riguadagniamo con Alessandro Rosina, che, essendo un demografo statistico, un uomo molto preciso, molto puntuale, e molto conciso.

ALESSANDRO ROSINA:
Cercherò di essere all’altezza delle aspettative a questo punto. Cosa c’è oltre al muro, perché val la pena di andare oltre al muro e mi riallaccio a quello che è stato appena detto. Oltre il muro ci sono i nostri desideri, perché i muri a lungo andare ci rendono prigionieri delle nostre paure. Quindi andare oltre il muro, vuol dire liberare il desiderio di poter costruire una vita migliore, cioè cogliere la sfida di costruire una vita migliore. Perché i desideri vincono sempre contro le paure, sono più forti i desideri delle paure; quindi se c’è chi soffia sulle paure, noi dobbiamo alimentare il desiderio, perché solo così possiamo vincere. Torno su un’altra frase di Italo Calvino che è la seguente: “Quando alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori”. Bene, quello che lasciamo fuori sono, appunto, i desideri e secondo me dobbiamo proprio ripartire da qui, perché il desiderio è sempre legato a un mondo migliore da costruire. E quindi, chiudo, tornando appunto sul punto, cioè se noi smantelliamo i muri, avremo più mattoni per costruire dei ponti che ci possono portare verso un futuro desiderato. Grazie.

ROBERTO FONTOLAN:
Avevo detto che era bravissimo! Giampaolo.

GIAMPAOLO SILVESTRI:
Devo dire che quello che ho trovato dopo aver provato ad abbattere appunto il muro dell’ideologia che dicevo prima, è stata come dire, una prateria vastissima cioè perché se non c’è più l’ideologia, si apre una apertura a collaborare con tutti, cioè la possibilità di lavorare con chiunque abbia, appunto, il desiderio di percorrere un tratto di strada insieme, senza alcun tipo di prevenzione o di censura. Perché soprattutto nel nostro mondo, nel mondo dello sviluppo ormai è evidente, che non ce la possiamo fare da soli, bisogna mettersi insieme ad altri, assieme con le ONG, con le imprese, con le istituzioni, con gli Stati, i governi con le altre ONG. Cioè deve nascere questa collaborazione, questa possibilità di lavorare insieme proprio partendo da un desiderio e partendo dalle persone. Da questo punto di vista vorrei così citare questa frase che a me conforta sempre molto di Papa Francesco perché per me, per il lavoro che faccio, mi è veramente di grande aiuto. E’ una frase che lui ha detto a Firenze nel 2015 al convegno nazionale della Chiesa italiana: “Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà. E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze. È fratello”. Ecco, è solo partendo da una posizione di questo tipo, da un’esperienza di questo tipo che forse anche il muro che citava prima Magri, il muro dell’Islam, si può provare a superare. La nostra esperienza che noi stiamo facendo nei paesi a maggioranza musulmana dove lavoriamo, ci dice questo, che è possibile collaborare proprio partendo da questo, dalla possibilità di fare qualcosa assieme, qualcosa anche di piccolo, che contribuisce al bene comune e partendo dalla persone. Noi abbiamo delle esperienze bellissime in aree mussulmane, penso alla valle della Beqa’, totalmente dominata dagli Hezbollah, che partono da questa posizione e insieme riusciamo a fare delle piccole cose, perché c’è questa volontà, c’è questo desiderio. Grazie.

ROBERTO FONTOLAN:
Suor Rosemary, noi sappiamo che lei tutti i giorni scavalca quei muri di cui ha parlato. Che cosa trova al di là di questi muri?

SUOR ROSEMARY NYIRUMBE:
Vedo che il muro crea nuove forme di problemi, perché oltre il muro, quando restiamo troppo a lungo oltre il muro, possiamo essere portati a pensare che il cibo della nostra mamma è migliore. In realtà, non comprendiamo che ci sono altre persone che vivono una vita migliore, non riusciamo ad apprendere la realtà, il fatto che queste persone possono arricchire la nostra cultura. Creiamo muri dando appellativi, quindi chiamando le persone solo con il nome della loro religione. In realtà, quando Dio ci ha creato non ha detto: “Rosemary, tu sei cattolica”, non ha detto: “tu sei un musulmano”. E quando siamo di fronte a Dio, io penso sempre che Lui potrebbe tranquillamente chiederci: “Chi ti ha detto poi alla fine, che tu sei una cattolica e lui è un musulmano?”. Per evitare ulteriori problemi in futuro, dobbiamo imparare ad accettare le persone, dobbiamo sapere, che queste persone entreranno nelle nostre case e che queste persone, in tal modo, ci arricchiranno. Credo che il muro andrà a creare uno spazio ristretto, potrebbe renderci miopi, può rendere il nostro orizzonte ancora più piccolo. Credo che tutti noi dovremmo aprirci ancora di più, ed è ciò a cui io penso quando parlo di tolleranza. Grazie!

ROBERTO FONTOLAN:
Paolo, nella geografia del mondo, cos’è il muro, cosa vedi al di là del muro?

PAOLO MAGRI:
Il muro è anche qualcosa di alto e da qualcosa di alto si può anche guardare lontano, se non si sta sotto. Se noi provassimo ad arrampicarci, virtualmente, sopra i muri, che stiamo costruendo in varie modalità nei confronti dei migranti, se dall’alto di questi muri guardassimo, se guardassimo appena sotto, vedremmo dei disperati accampati, ma se riusciamo a guardare lontano, vediamo due temi: i conflitti e la fame, da cui queste persone, da lontano, scappano e vengono da noi. Io non sono ottimista sulla nostra capacità, nel breve periodo, di migliorare la gestione dei conflitti, però ho qualche ottimismo in più sull’impegno, che possiamo avere nei prossimi anni sul tema dello sviluppo, una delle due cause. Perché il dibattito sullo sviluppo per motivi utilitaristici – fermare i migranti – è entrato nei luoghi importanti di dibattito, nelle istanze importanti dei governi. Prima era confinato alle anime belle della cooperazione, al ministro dello sviluppo. In questo momento i primi ministri dei vari Paesi si incontrano e discutono di una strategia comune per lo sviluppo; utilitaristicamente, per bloccare i migranti, ma prendiamo il positivo di questa novità: il positivo vuol dire far sì che si apra una nuova fase, nei rapporti in primis con l’Africa. Non è facile, perché abbiamo sbagliato tanto in passato, perché i soldi, di cui si sta discutendo ora per questo “aiutiamoli a casa loro”, sono pochissimi, perché le ricette per fare veramente sviluppo non le abbiamo. Però è un elemento nuovo e io credo che, se su questo germe di novità ci sarà una nostra, di tutti noi, attenzione forte e continua, per evitare che questa attenzione allo sviluppo si traduca in soldi per costruire confini più solidi e campi di detenzione più attrezzati, ma se fossimo vigili e attenti, da questo germe di nuovo dibattito sullo sviluppo può nascere – quindi dal muro – qualcosa di positivo.

ROBERTO FONTOLAN:
Bene. Abbiamo costruito questo racconto di tanti aspetti, di tante esperienze, voci diverse, immagini, suoni, evocazioni, per cercare di aiutarci tutti quanti noi ad arrampicarci sul muro e cercare di guardare al di là, e forse magari anche di superarlo questo muro, e scoprire che cosa c’è al di là, come ci hanno raccontato poco fa tutti loro con parole e riflessioni veramente belle. Ci sono fatti – non abbiamo raccontato soluzioni, non ci sono, ma un invito appunto a cercare di compiere questo percorso, questo cammino, dal muro all’al di là del muro – perché ci sono dimensioni e fatti che aiutano, che ci aiutano, ai quali guardare per poter essere sostenuti in questo cammino. Dico, senza molta presunzione, con una certa consapevolezza, che anche il Meeting è uno di questi fatti, è uno tra i tanti fatti che ci sono, e che a sua volta il Meeting ha bisogno di essere aiutato e sostenuto da tutti voi per consentirci di continuare a vivere questi gesti, a potere godere della nostra compagnia e soprattutto della loro intelligenza ed esperienza. Ci sono vari punti del Meeting in cui troverete, sotto l’espressione “Dona ora” la possibilità di aiutare questa nostra realtà a proseguire e a diventare più grande. Ma accanto a questo, naturalmente, ci sono altri fatti, altre dimensioni. La dimensione, quella forse più grande, che accomuna tutti, è la dimensione dell’arte, della musica: prima abbiamo sentito la Ballata di Ysaÿe e ora andremo in questa parte finale ad ascoltare qualcos’altro. Ci aiutano con il senso profondo della bellezza, ed è il motivo per cui abbiamo provato, abbiamo scelto di farci accompagnare in questo nostro breve viaggio da voci, esperienze, parole molto importanti, molto profonde, immagini, video e arte, e musica.

BERNADETTE LO RUSSO:
Buonasera a tutti! Io mi sento tanto fortunata per il fatto di avere a che fare con la musica, che è una cosa grandissima. Vivo in Israele insieme a tanti ragazzi provenienti da tutto il mondo, dalla Turchia, dalla Russia, dall’America, dalla Cina, dal Brasile: veramente dappertutto. Quando suoniamo accade veramente qualcosa di grande, di vero, di misterioso, che conquista e strugge il cuore di tutti e accade proprio una bellezza. Mi viene sempre in mente un mio amico oboista, Fernando, che quando suona letteralmente si trasfigura, cambia faccia, non è più lui. La musica apre proprio il cuore a tante domande, a tutte le domande. Posso dire che è evidente che il nostro cuore, il mio cuore quando incontra qualcosa di vero e di bello è colpito, è preso, e la musica è proprio uno strumento privilegiato per farmi chiedere: “Ma che cosa c’è dietro questa bellezza?”. Per questo motivo vi propongo un ultimo brano, che si chiama Mancanza, è un brano composto per orchestra da mio fratello Emanuele, che eseguiremo domani sera al concerto (al quale vi invito tutti), ed è un brano a me molto caro, perché se non mi accontento del mio orticello, ciò che mi unisce di più ai miei amici di Tel-Aviv e a tutti, a tutto il mondo, è proprio una certa mancanza, la mancanza per cui il mio cuore è fatto.

ROBERTO FONTOLAN:
Bene! Mentre Bernadette Lo Russo eseguiva questo brano, abbiamo visto scorrere immagini dei murales di Banksy, celeberrimo in tutto il mondo, che decorano, illustrano e forse danno vita a tanti muri di tante città, di tanti luoghi del mondo. Io vorrei ringraziare tantissimo tutti loro. Questi ringraziamenti fanno parte di questo… non sono l’ultima cosa, non sono la cosa dopo gli applausi, ma fanno parte. Vorrei che alla fine facessimo tutti un grande applauso per questa occasione, per questo incontro. Spero che vi abbiamo accompagnato in questo viaggio da Monsignor Tomasi, Alessandro Rosina, Alejandro Marius, Giampaolo Silvestri, Suor Rosemary, Paolo Magri, Giampiero Bartolini che ha letto i brani e che ricordo è attore nello spettacolo I due di Emmaus, un incontro eccezionale, che si tiene tutti i giorni alle 15 e alle 18 presso la mostra La terra più amata da Dio, che è la mostra sulla custodia di Terra Santa. Bernadette Lo Russo, violinista nello spettacolo Un sussulto al cuore, a cui lei vi ha già invitato e che si svolgerà domani sera alle 21.45 nell’arena spettacoli. Poi aggiungo i miei ringraziamenti personali e di tutti a Chiara Longobifano, a Silvia Santarelli e a Caterina Migoni, e naturalmente a Paolo Magri e a Monica Maggioni, che salutiamo tutti noi. Grazie e buon proseguimento!

Data

23 Agosto 2017

Ora

17:00

Edizione

2017
Categoria
Incontri