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AL CUORE DELL’ESPERIENZA: LA RICERCA SCIENTIFICA ALLA PROVA
Al cuore dell'esperienza: la ricerca scientifica alla prova
Partecipa Maria Teresa Landi, Senior Investigator al National Institutes of Health (NIH). Introduce Giancarlo Cesana, Docente di Igiene all’Università degli Studi di Milano Bicocca.
GIANCARLO CESANA:
Allora, cominciamo questo secondo incontro del ciclo “Al cuore dell’esperienza umana”, con una testimonianza di un contesto molto differente da quello di ieri, che riguardava la drammaticità della situazione africana. Qui è un altro tipo di drammaticità, un mondo fortemente sviluppato. Io conosco Maria Teresa Landi da quando studiava medicina, era venuta a studiare medicina da Foggia, o giù di lì, e aveva incontrato il movimento, GS, in Umbria: lei dice che era un puntino in mezzo a migliaia di persone ad ascoltare Pigi Bernareggi, che è uno dei primissimi che è andato in missione in Brasile, a Belo Horizonte, che parlava della grandezza dell’io. E questo fatto la colpì molto, come sentirete, e capirete anche perché: cioè, è vero che Dio ci prende per quello che cerchiamo. Lei è venuta a Milano, era una studentessa di medicina, bravissima, tutti 30, poi ha lavorato con Pier Alberto Bertazzi, che è l’attuale direttore della Clinica del Lavoro di Milano. Magari molti dei presenti non lo sanno ma lui è uno degli inventori di Cl. Cioè, Giussani ha fondato Cl, Bertazzi, invece, ha inventato proprio il nome, insieme ad altri. E’ stato uno dei pochi resistenti che, dopo la crisi del ’68, hanno ricominciato, è un grande ricercatore ed evidentemente anche un grande maestro, perché sta disseminando i suoi allievi negli Stati Uniti. C’è lei, al National Institutes of Health, l’istituto superiore di sanità americano, e adesso un altro andrà ad Harward. E ci vanno non come cervelli in fuga ma come cervelli da sbarco, ci vanno a fare i professori, succede anche questo, in Italia, non vanno a servire. Poi è diventata molto amica di don Giussani, è andata in America e adesso ci dice perché e a fare che cosa.
MARIA TERESA LANDI:
Innanzitutto voglio ringraziare per l’occasione di poter essere qui a parlare, perché il lavoro che ho dovuto fare, di riguardare tutta l’esperienza di quest’ultimo periodo di ricerca in America, mi ha molto aiutato, mi ha fatto prendere consapevolezza di quello che mi è stato dato e mi ha riempito di gratitudine, che è un po’ quello che vorrei comunicare. Come diceva Giancarlo, io lavoro al National Institutes of Health, sarebbe l’istituto nazionale della sanità, e all’interno di questo istituto lavoro al National Cancer Institute, l’istituto nazionale dei tumori. L’NIH è un centro di ricerca immenso, che si estende su tante città e comprende più di 35.000 dipendenti, ha un budget di oltre 30 miliardi di dollari l’anno per la ricerca, sostiene anche il lavoro di oltre 350.000 ricercatori in 3.000 università di tutto il mondo. Quindi, è veramente un posto dove si respira la ricerca dalla mattina alla sera. C’ero andata desiderosa di fare ricerca nel posto più importante del campo: adesso mi occupo di studiare le varianti genetiche che possono portare allo sviluppo del tumore e di alcuni tumori in particolare. Per portare un esempio, nell’ultima ricerca di cui mi sono occupata abbiamo studiato le varianti genetiche di tantissime persone sane, mappandone il genoma, e di tantissime persone con un tumore, confrontando le varianti per cercare di capire quali potessero essere predisponenti lo sviluppo di un tumore. Per fare questa ricerca, abbiamo studiato 33.000 persone: quindi, un tipo di ricerca su larga scala, non una ricerca in laboratorio o sugli animali da esperimento, ma sull’uomo, su intere popolazioni. In questa ultima ricerca, abbiamo visto qualcosa di veramente nuovo, che ci sono delle zone del genoma, del DNA, che in passato non si sapeva a che cosa servissero. Le chiamavano junk DNA, DNA di scarto, perché non ci sono geni, non si sa bene che cosa facciano. E abbiamo visto che proprio queste zone sono associate allo sviluppo di tanti tumori e di altre malattie: chiaramente siamo sul limite di qualcosa di nuovo, non capiamo bene che cos’è ma c’è qualcosa che può succedere, che può capitare.
Ecco, volevo usare questo esempio per far capire qual è quel tipo di fascino che ti prende quando stai facendo ricerca a un certo livello e ti avvicini a conoscere qualche cosa che potrebbe essere importante, nuovo. Perché a me è successa proprio l’esperienza, l’ebbrezza di trovare una cosa nuova. E’ impressionante, perché tu puoi avere un’ipotesi, e a quest’ipotesi magari hai lavorato per anni, ma se ti accade proprio quella cosa che tu avevi pensato, è una sorpresa, è una cosa che ti lascia umile, in silenzio. Cioè, tu capisci che c’è qualche cosa d’altro, capisci che è qualcosa che va anche oltre tutte le ipotesi che avevi messo giù, oltre il tuo approccio. E’ un’esperienza impressionante: ti sembra di arrivare quasi a toccare l’infinito, il mistero. Però, cosa succede? L’ho visto tante volte, su di me e su altri: non riesci a stare in quella posizione vertiginosa, in cui dipendi, in cui non sai, e quindi immediatamente, un attimo dopo, riduci, per cui diventa: va bene, se siamo arrivati fin qui è solo una questione di tempo, utilizziamo una tecnologia migliore e alla fine capiremo tutto. E immediatamente, facendo così, togli quella possibilità dell’infinito che ti aveva infiammato all’inizio e che immediatamente si riduce.
Questa cosa è peggiorata, aiutata, nel senso cattivo, dalla dinamica della ricerca scientifica in questi centri, dove la competizione è veramente selvaggia: tutta la questione è cercare di arrivare primi, perché se tu arrivi primo a scoprire qualcosa la puoi pubblicare sul giornale più importante e diventi famoso. Per cui la volta dopo, quando fai una richiesta di fondi per fare un’altra ricerca, è più facile che ti diano i fondi perché tu sei quello che ha scoperto quella cosa: prendi più fondi, fai più ricerca, ripubblichi meglio e quindi riprendi più fondi, per cui il ciclo si perpetua ed è sempre una corsa ad arrivare primi. Non solo, ma il tipo di ricerca che faccio io – proprio perché deve esaminare tantissime persone da tutto il mondo – ha bisogno di lavorare, io ho bisogno di lavorare sempre con gente da tutto il mondo. Per esempio, nell’ultima ricerca che ho fatto erano impegnate tutte le migliori università americane, Yale, Harward, la Mayo Clinic, la Anderson, eccetera, ma anche tutte le più importanti università Nord europee, e c’erano il Giappone, la Cina, Taiwan, l’Australia, veramente tutto il mondo occidentale e anche orientale. Ogni volta che si lavora insieme, ognuno ha il suo interesse da difendere, ognuno deve arrivare primo: una dinamica veramente difficile.
Io sono arrivata lì, in questo contesto, dall’Italia: avevo il desiderio grande, grandissimo di fare ricerca, mi attizzava l’idea di essere lì, nel posto dove si produceva, c’era questa ambizione. Avevo incontrato don Giussani e lui mi aveva veramente fatto infiammare per l’ideale: c’era qualche cosa di infinito, di più grande, nella realtà, la realtà era carica di promessa, c’era qualcosa per cui la vita bisognava darla, una cosa più grande. Per cui, sono andata in America con questo incontro che avevo fatto e mi sono trovata molto bene con un certo aspetto della mentalità americana, che punta tutto sulla spinta di provare, di rischiare, di cercare di affermare in tutti i modi il proprio desiderio, il sogno. “Ce la puoi fare”: c’è moltissimo questa ambizione, nessun tentativo è disprezzato, si scommette sull’uomo. All’inizio mi sono trovata benissimo, ero veramente presa da tutte queste cose. Però, nella stessa modalità con cui mi ero lanciata, ho anche fatto l’esperienza di essere presa, catturata, direi, da un altro aspetto della stessa mentalità, quello della competizione, del potere, del cercare di essere io ad avere successo. E questo mi è successo già dall’inizio, dal primo anno. E cos’era successo?
Vorrei fare un esempio. Ero arrivata, avevo disegnato uno studio che mi interessava molto, ci avevo veramente scommesso: però i miei capi e altri non erano molto d’accordo che io guidassi questo studio, che fossi il leader, perché ero giovane, straniera, gli studi che faccio costano milioni e milioni di dollari, per cui non si voleva tanto investire su di me. Io ero arrabbiata, volevo fare il capo, e quindi avevo chiamato don Giussani e gli avevo chiesto un giudizio su questa cosa. Lui mi aveva detto: “Ma tu, ci credi veramente a questo progetto? Veramente pensi che possa servire alla gente che ha il tumore?”. E io: “Certo, l’ho disegnato perché speravo proprio di trovare qualcosa di importante”. E gli ho anche spiegato che cosa mi aspettavo di trovare. Lui mi ha detto: “Se ti imponi per fare il capo a tutti i costi, non rischi di creare inimicizia in quell’ambiente, non rischi che i tuoi capi lo blocchino?”. Ho risposto: “Beh, che si crei inimicizia, sicuramente, perché c’è una competizione tale…”. E lui: “Allora non capisco perché non vai semplicemente dai tuoi capi e gli dici: io ci tengo veramente a questo progetto, sono disposta a fare qualsiasi cosa, anche l’assistente, la segretaria, qualsiasi cosa purché il progetto si faccia”. E io gli ho detto: “Don Gius, no, non esiste, l’idea è stata mia, l’ho scritto io, ho ottenuto i fondi io, sono pronta per iniziare, lo studio è mio”. E lui insisteva: “Non capisco perché devi fare per forza il capo, se la questione è che questo progetto avvenga”. “Ma come, don Gius, è mio, il progetto!”. E in questa dialettica, ad un certo punto ho intuito che lui aveva un punto di vista diverso nel guardare quella stessa cosa. Io dicevo: cavoli, perché non capisce! E poi mi sono detta: forse sono io, che non capisco. Dopo questa discussione, a un certo punto lui mi ha detto: “Ma tu, per chi vivi?”. Quando mi ha detto così, mi è ritornato nell’istante l’ideale che mi aveva preso prima, quel desiderio di infinito, per cui mi è sembrato ridicolo che mi fossi attaccata a fare il capetto di quel progetto, ma fino a un secondo prima avrei sparato a qualcuno se me lo toglievano. Allora gli ho detto: “Don Gius, ma come è possibile che io frema per questo ideale quando lo sento così, eppure mi sia fatta prendere da tutta quest’altra cosa?”. E lui: “Guarda, questo è normale, nella misura in cui sei in un ambiente è normale che la mentalità di questo ambiente ti determini. La questione è che, se penetra qualche cosa di diverso, qualcuno che ti parla, se leggi o senti una cosa, se c’è qualche cosa che all’improvviso ti richiama di più al desiderio del cuore, allora tu vi aderisca: è lì la libertà, è lì che si gioca tutto”.
Ho voluto raccontare questo fatto perché, per me, questa cosa che è successa ormai tanti anni fa – sono lì a lavorare fissa da più di 13 anni – è diventata un punto di non ritorno, non tanto perché poi sia diventato facile e scontato, assolutamente, ma perché lì si è introdotta la pretesa di Cristo, nella modalità con cui io facevo ricerca, non dopo. Lì, Lui è diventato la pretesa di chi dice: io posso corrispondere al tuo desiderio, quello di verità, di giustizia – perché per me era anche una questione di giustizia, quello era il mio progetto -, di felicità, più del tuo piano, di quello che hai in testa tu o del tuo potere piccolino. Ecco, quella cosa si è introdotta, tanto è vero che quando mi hanno dato il titolo per questa mia presentazione, e mi hanno detto che sarebbe stato “La ricerca scientifica alla prova”, ho capito, ripensandoci, che per me la prova non è tanto la competizione, la lotta per riuscire, per avere i fondi, per pubblicare, per essere i primi – e la lotta c’è, eh! È vera -, ma la prova è veramente questo dramma che si introduce perché Cristo prenda una posizione dentro. Ed è come se ti lasciasse lì così, perché ti scombina tutti i piani ma non ti dice come devi andare. E’ come se tu fossi in bilico, dipendente da Lui in questa continua verifica, per cui è drammatico.
Voglio raccontare solo alcuni esempi di come nel tempo ho vissuto questa cosa. Voglio partire da un esempio abbastanza recente. C’erano quattro centri di ricerca, non posso fare i nomi ma i centri di ricerca più importanti in assoluto del campo, che si sono messi insieme e hanno trovato un gene che dicevano essere associato a sviluppare un particolare tipo di tumore. Questa cosa aveva provocato grande scalpore, c’era su tutti i giornali, sarebbe stata presentata al congresso mondiale della ricerca sul cancro di là a pochi giorni. Io avevo tantissimi dati su questo tumore, avendo mappato il genoma, avevo i dati anche su questo gene. Su migliaia e migliaia di persone, io sapevo cosa c’era, per cui sono andata a vedere nella mia banca dati: volevo verificare che questo gene fosse associato a questo tipo di tumore. E ho visto che non era assolutamente associato, non c’era. Ero abbastanza certa dei miei risultati, perché la ricchezza del mio campione era molto più grande di quei quattro messi insieme. Quindi, almeno dal punto di vista statistico ero abbastanza certa, e avevo anche il sospetto che loro avessero fatto un errore nel disegno dello studio, però non sapevo bene che cosa dovevo fare. Da una parte, volevo dire: questa cosa non è vera, almeno, secondo i miei dati non c’è, se no si sarebbe sviluppata tutta una serie di ricerche, università e università avrebbero lavorato su questo gene. Dall’altro punto di vista, non volevo attaccare queste persone, queste quattro università, perché comunque lì c’era di mezzo la carriera loro e mia, perché insomma, attaccare queste quattro università dominanti non è proprio la cosa più semplice da fare. Quindi, ero incerta. Parlando con i miei capi, con i miei colleghi, abbiamo deciso: va bene, tanto il congresso mondiale sarà a Washington (dove io vivo), organizziamo un incontro satellite il giorno prima del congresso mondiale, invitiamo tutti gli esperti del mondo e discutiamo lì la questione prima del congresso, cerchiamo di capire come mettere insieme le cose.
Quindi, facciamo questo incontro satellite. Siamo lì, io tesissima, questi arrivano, presentano i loro dati e in quel momento il rappresentante europeo che era presente ha alzato la mano e ha detto: ma io veramente non ho trovato questa associazione, non c’è questo risultato nei dati europei. Quando ho sentito questo, ho preso coraggio e ho detto: veramente, anche noi non abbiamo trovato niente. Allora si è creato un silenzio pazzesco, perché loro sanno che noi abbiamo tantissimi dati. Questi quattro hanno cominciato ad attaccare, dicendo no, hai sbagliato a fare le analisi, non è vero, non hai considerato tutto. Io ero partita dalla volontà di metterci insieme, per cercare di capire bene come fossero andate le cose. Però, quando mi sono vista attaccata, ho risposto: no, io ho trovato una cosa e ho trovato questo. Una lotta, si è creato un clima tale che sono venuta fuori con tutto il mio temperamento violento e alla fine il moderatore ha detto: basta, coffe break, interrompiamo, pausa caffè, riprendiamo dopo.
Durante la pausa, una collega italiana che era presente e aveva sentito la discussione mi ha chiesto se poteva fare una telefonata internazionale. Ho detto: va bene, dobbiamo andare nel mio ufficio. Siamo uscite dal palazzo dove c’era tutto questo casino e siamo andate nel palazzo a fianco, dove era il mio ufficio, a telefonare. Mentre lei telefonava, sono rimasta cinque minuti in assoluto silenzio, davanti a un finestra. Non c’era più il caos del palazzo a fianco, mi è venuta una tristezza pazzesca, quasi una ferita che faceva male. Veramente stavo male e dicevo: sì, posso anche avere vinto questa battaglia, ma che vittoria è mai questa se tutta la questione non è stata cercare di capire come veramente stanno le cose, ma chi aveva ragione? E’ una questione di potere, io sono più bravo di te oppure ho più dati di te e l’ultimo pensiero, almeno per me, era stato quello delle persone malate per la cui cura stavamo lottando. Ero veramente triste e mi è venuta questa domanda: ma chi, presente lì – eravamo tutti attorno a un tavolo, tutti questi esperti del mondo, e poi c’erano una serie di persone intorno ad ascoltare -, chi di questi che stanno lì a sentire potrebbe mai pensare che sono cristiana? Mi è proprio venuto: da cosa si vede la differenza? E mi sono sentita morire, ero veramente triste.
Però negli anni avevo visto che, quando le circostanze si fanno drammatiche, quando c’è qualcosa che mi fa stare proprio male per il mio errore, come in questo caso, c’è in ballo qualcosa per me, qualcosa che avrei capito, anche se non sapevo bene cosa. Comunque arriva la mia collega, ritorniamo nel palazzo a fianco. Lì si era deciso di evitare di continuare la discussione: domani c’è il congresso, giocherete la vostra battaglia, c’è tutto il mondo, discutete e vedremo che la vince. Allora ho cominciato a pensare a cosa dovevo dire, le tabelle da preparare, cosa fare. Torno in ufficio per scaricare dei dati e vedo che una cara amica mi aveva mandato un’e-mail. Diceva: “Hai visto l’editoriale di mons. Lorenzo Albacete -un teologo americano che a me piace tantissimo – sul Sussidiario on line?”. Lo leggo, era tardi, ero stravolta, però mi attirava: praticamente era un editoriale in cui Albacete descrive un film, Il giorno della marmotta, anzi, in italiano penso sia Ricomincio da capo. Il protagonista è uno che, per una serie di circostanze, si ritrova a vivere sempre nello stesso giorno: vive la sua giornata, va a letto, la mattina dopo si rialza ed è sempre il 2 febbraio, va a letto, sempre così. All’inizio ne trae vantaggio, ma dopo non ce la fa più, cerca in tutti i modi di uscire, addirittura cerca di uccidersi. Alla fine, riesce ad uscire dal ciclo grazie all’amore per la sua donna, che si chiama Rita. E mons. Albacete finiva l’editoriale in questo modo: “Anch’io ho la mia Rita. La mia Rita è una presenza riconosciuta attraverso la fede, che ci insegna come trasformare l’attuale circolo temporale in una sorgente di carità per gli altri, ed è la presenza di Cristo risorto. Egli è capace di fare di ogni giorno un nuovo giorno, permettendoci di svegliarci ogni mattina a un 3 febbraio completamente nuovo”.
Quando ho letto questo sono rimasta fulminata. Prima di tutto ho capito subito che ero dentro questo circolo temporale, perché anche quello che avevo preparato per il giorno dopo era ancora dentro lo stesso schema: chi ha ragione, chi ha più dati: insomma, lo stesso, lo stesso! E volevo una cosa nuova ma non sapevo come fare. Avevo capito una sola cosa, ed era tardissimo e il giorno dopo ci sarebbe stato questo incontro. Avevo capito che non potevo andare lì come lo avevo preparato, non potevo andare lì e prendere la parola, far vedere i miei dati, far vedere che ero più brava. Ho capito solo questo, che non bastava più, però non sapevo cosa dovevo fare, ero veramente tesa. Dicevo: questo non va bene, ma cosa, cosa? E mi aspettavo che dovesse succedere qualche cosa, dovevo vederlo. Per cui, con questa tensione sono andata a letto, pregando. La mattina dopo stavo andando al congresso, ero ferma a un semaforo e mi è venuta un’idea, all’improvviso. Ho detto: ma io sto andando a un congresso mondiale, dove ci sono gli esperti di tutto il mondo, e perché, invece di andare a dire “io ho ragione”, non dico: scusate, mettiamoci tutti insieme, tutte le nazioni del mondo, tutti quelli che hanno dati. Magari, mettendoci insieme, avendo una casistica così grossa, riusciamo veramente a capire di più, non solo se c’è questo gene ma se c’è qualcos’altro, per il bene della gente. Ed ero lì che guidavo, e mi sono tanto commossa che per poco mi dovevo fermare perché dicevo: questa cosa non è mia, non viene da me.
Perché quello che veniva da me l’avevo già visto. E questo teneva conto di tutti i fattori: teneva conto del fatto che poteva essere un bene per la gente, teneva conto del fatto che riuscivamo a capire di più come stavano le cose, la verità, teneva conto del fatto che non dovevo attaccare questi quattro, che non era una questione di competizione ma di lavorare insieme per qualcosa: ero veramente commossa. Ma ero commossa perché, al di là del fatto che così è successo – alla fine ho presentato la cosa e ci siamo messi insieme -, per me la vittoria non è tanto che vado lì e presento, ma che ho potuto stare davanti a questa circostanza, totalmente io. Mi era accaduto qualche cosa, avevo riconosciuto che c’era Lui che mi dava la possibilità di vivere fino in fondo anche quella cosa lì, ma che al fondo dovevo capire, ancora più del gene e del tumore, che Lui c’è, Lui c’è, nel reale, c’è, è vero, è verificabile.
Un altro esempio. Mi avevano offerto di fare il professore, una cattedra nell’università più importante nel mio campo, la numero uno. Ero entusiasta, è una questione di prestigio e poi mi avrebbero dato un sacco di soldi, sia come stipendio che per aprire un mio centro di ricerca, quindi ero molto attratta. Però, non so perché, c’era qualche cosa che non tornava. Sono andata lì un sacco di volte, mi hanno fatto vedere anche la casa, avevo parlato con tanti miei amici, ma c’era qualche cosa che non mi convinceva, non riuscivo a capire cos’era. Sono passati mesi, tira e molla, perché loro mi hanno dato un anno per decidere. Dopo un po’ sono andata a parlare con don Carrón e lui mi ha detto, in trenta secondi: “Senti, lascia da parte un attimo tutta la tua idea del prestigio, dei soldi, del fare il capo, e così. Rispondi a questa domanda: dove, secondo te, puoi fare ricerca meglio per il bene della gente? Rispondi a questo”. Quando mi ha detto così, in un millisecondo, proprio sull’istante, ho capito subito che dovevo restare dov’ero, perché erano già otto anni che portavamo avanti la ricerca, stavamo per avere dei risultati, mollare a quel punto non avrebbe aiutato nessuno. E anche per il tipo di ricerca, che è talmente grossa, ha bisogno di tanti soldi, tante risorse che soltanto un posto come NIH poteva dare in quel momento. E’ stato facilissimo in quell’istante riconoscere che dovevo stare lì, però ci è voluto un richiamo che mi riprendesse all’Ideale, un’altra volta. Ma la cosa che mi ha commosso è stata un’altra volta questo: io mi dicevo che dovevo capire se fare questo lavoro oppure no, se cambiare posto, ecc. In realtà, c’era la possibilità di capire ancora di più che cosa desidero e chi può rispondere al desiderio.
Un altro esempio è una cosa che ho capito nel tempo, il tempo è fondamentale. Prima di andare in America, quando lavoravo all’Università di Milano, ero andata ad un congresso internazionale dove avevano presentato dei dati. Erano stati premiati due professori che avevano trovato delle cose interessanti: grande enfasi, grandi discorsi. Quando sono tornata in Italia ero abbastanza scettica, non capivo questa enfasi, non sentivo questo entusiasmo. Non mi piaceva questa posizione, avrei preferito sentire entusiasmo, sicurezza, certezza. Invece sentivo che non bastava. Allora ho chiesto un giudizio a don Giussani: “Tu come vedi questa cosa”. E lui mi ha detto: “Una conoscenza che non tiene conto di tutti fattori non è una reale conoscenza. Qui manca un fattore fondamentale, questi pensano che lì è tutto, invece la realtà è infinita”. E poi mi ha detto questo, che è stato pubblicato: “Chi ha la coscienza della prospettiva infinita, prima di tutto si sente umiliato nel mondo, perché il mondo getterà fumo ed incenso sugli Einstein ed i Pasteur”. Diceva: “Einstein e Pasteur hanno fatto tre metri rispetto ai soliti tre centimetri, ma sono sempre tre metri rispetto all’infinito, no? Il mondo getterà fumo ed incenso sugli Einstein ed i Pasteur, e non su di te, piccola profetessa ignota che dici: ma è infinita! La realtà è rapporto con l’infinito! E tu, che hai il senso dell’ultimo, sarai chiamata bigotta. Loro, invece, scienziati, faranno le guerre mondiali per imporre la propria formula o per rubare la formula degli altri. Tu invece, con il fiato normale di una persona che mangia, beve, ride tutti i giorni, come fanno tutti, sosterrai l’animo di tanti, di tutti i tuoi amici, di casa tua. E andrai negli Stati Uniti d’America proprio per portare questo fiato. Farai la ricercatrice, la scienziata, avendo coscienza perfetta della piccolezza di questa cosa e della grandezza del motivo per cui sei andata”.
Quando mi ha detto questo, devo essere sincera, per un bel po’ io non l’ho ammesso a me stessa, di fatto non ero tanto convinta di questa cosa, mi sembrava un di meno. Dicevo: dato che non posso essere tra i grandi, mi accontento di avere fiato normale tra gli amici. Ma io volevo essere tra i grandi. Cioè, la mia idea, allora, era essere tra i grandi, era essere lì, sul palco. E quindi, questa cosa non tornava. E’ stato solo nel tempo, quando ad un certo punto, sul palco – non qua, ma ai congressi – i premi li ho presi anch’io, le pubblicazioni le ho fatte anch’io, ho capito che quella cosa che mi aveva detto don Giussani anni prima, veramente aveva una portata rivoluzionaria, culturale, per me, ma veramente! Non solo perché anzitutto afferma che cos’è la realtà, perché la realtà è vero che è infinita – proprio noi che facciamo ricerca lo sappiamo, quando trovi qualche cosa, lo senti che ti si aprono infinite domande, che non finisce mai, lo si sa! Se uno è sincero, lo sa che è così! -, ma perché, quello che lui mi ha fatto capire, che questo fiato è dentro un contesto nel rapporto con l’infinito, nel presente, cioè nella cosa che stai facendo, ti permette di avere una posizione nel lavoro diversa, molto più incidente sulla conoscenza. Perché non sei lì che devi aspettare la soddisfazione quando hai un grande articolo e vai al congresso, no? Ti permette di stare lì perché nel presente sei rapporto con l’infinito!
E io non dico questo per dire, ne ho fatto esperienza perché – non so quante volte vi è capitato -, quando fai un lavoro bene, a me è capitato anche alla notte, che finisco tardi, nessuno lo sa, nessuno mi vede, eppure sono soddisfatta, no? E dico: perché? Io sto rispondendo a qualcuno, la mia esperienza me lo dice che è così. C’è qualcos’altro, no? Per cui, questa possibilità che tu nel presente sia rapporto con l’infinito, ti permette di essere lì anche quando il lavoro si fa tosto, o diventa routine. Perché le grandi scoperte accadono una volta ogni morte di papa. Di fatto, tu sei lì ogni giorno, ore ed ore, 12, 16, 20 ore al giorno lì davanti ad un computer, cercando di interpretare dati, sempre la stessa cosa, riprovando, tornando indietro, magari senza trovare un risultato. Te lo permette perché tu stai rispondendo a Qualcuno! L’affezione, la soddisfazione è lì dentro, altrimenti che cosa succede? Che quando le cose non tornano – questo l’ho visto tantissimo -, immediatamente molli, no? Cerchi di cambiare velocemente, tanto più che la cosa che stai facendo non è di moda, no? E se devi andare sul grande giornale, devi provare la tecnologia, devi fare la cosa un po’ diversa, sennò non ci vai. Quindi molli, no? E questo interrompe il processo di conoscenza, perché tu interrompi, davvero!
Volevo raccontarvi questo: qualche anno fa – al tempo, non facevamo alcuna mappa genoma, cercavamo gene per gene -, stavamo studiando un gene. Noi avevamo fatto un’ipotesi: che una serie di mutazioni in un gene determinassero lo sviluppo di un tumore, talmente potentemente che questo tumore si sviluppava tante volte nelle famiglie, c’erano famiglie con tanti membri malati. Per cui, abbiamo cominciato a studiare delle famiglie con tanti membri malati. All’inizio non trovavamo questa mutazione, già cominciavamo a dire: forse abbiamo sbagliato ipotesi, dobbiamo mollare, cambiare. Se non che, un giorno è arrivata a Cesena, da un mio collega, Donato Calista, una famiglia che aveva cinque membri con lo stesso tumore. Quattro erano già deceduti, quindi non li potevamo studiare, il quinto, parente molto lontano, non aveva questa mutazione. Abbiamo detto: dobbiamo mollare. Però, il fatto che questo fosse un parente lontano non ci rassicurava tanto. Io non ero molto tranquilla, perché abbiamo visto una mutazione in una persona sana e tutti dicevano: vabbè, è una persona sana, si vede che non fa niente perché sennò avrebbe il tumore. E io dicevo: no, aspettiamo un attimo, perché questa persona ha 39 anni. Se questa mutazione fosse maligna, potrebbe sempre sviluppare il tumore, per cui vale la pena studiarla di più. Tutti dicevano: ma no! Insomma, ci siamo detti con alcuni colleghi: almeno cerchiamo di fare una simulazione al computer per cercare di capire che cosa questa mutazione provochi sulla proteina, per vedere se può fare qualche cosa, almeno teoricamente.
Non si era mai vista prima, questa mutazione. E abbiamo visto questo, il modello strutturale di questa proteina. La proteina originale aveva questo in verde e blu, aveva degli atomi di idrogeno sulla superficie che permettevano il legame con altre proteine. Cos’è successo? Che la mutazione ha cambiato semplicemente un amminoacido. Gli atomi erano chiusi su se stessi e si diceva: forse non riesce ad entrare in rapporto con le altre proteine. Sembrava una cosa da niente per cui volevamo lasciar perdere. Però, due tre giorni prima, don Giussani aveva fatto circolare una lettera alla fraternità di Comunione e Liberazione. Era una lettera difficile, in cui parlava dell’Essere e diceva che l’Essere si piega di fronte all’altro, reagisce, prende la forma, che l’Essere, ultimamente, proprio perché riflette la Trinità, è rapporto. Io stavo guardando questo dato e ho detto: ma cavoli, se questo funziona su tutti gli aspetti della realtà, anche una cosa così piccola, che impedisce un rapporto perché chiaramente questi sono chiusi su se stessi e non permettono di legarsi con altre proteine, magari può essere grave, no? Ero così entusiasta di questa cosa che avevo un po’ contagiato gli altri. Alla fine, ci siamo collegati con l’università di Toronto che faceva questo tipo di ricerche e abbiamo studiato come questa proteina interagiva con le altre. E abbiamo visto che l’interazione era molto ridotta, in particolare con una proteina che era fondamentale per controllare il ciclo cellulare, cioè l’avanzamento, lo sviluppo delle cellule, che è fondamentale per lo sviluppo di un tumore. E ci siamo detti: può essere veramente serio! Dobbiamo studiare, tenere sotto controllo quella persona! E poi abbiamo avuto la conferma che era vero, perché un po’ di tempo dopo è arrivata una famiglia con quattro persone affette e tutte quante avevano la stessa mutazione. Allora ho detto: se non avessi fatto attenzione, se non avessi avuto quel punto di vista sulla realtà, magari non l’avrei vista, questa cosa, magari non si sarebbe scoperta. Mi veniva in mente che Carrón ha citato spesso una frase del Papa che: “Il contributo della fede è quando l’intelligenza della fede diventa intelligenza del reale”.
Ma la cosa che mi ha fatto più impressione, ancora una volta, è che grazie ad un’educazione è accaduto questo. Il Gius diceva: “Il lavoro per un cristiano è l’aspetto più arido e concreto dell’amore a Cristo”. E diceva che l’amore non è un sentimento ma un giudizio che trascina con sé ogni aspetto della sensibilità umana. Ci pensavo adesso per fare questo discorso: tutte quelle lotte, tutta questa verifica, tutto questo lavoro, questa continua lotta, dramma, mi hanno fatto verificare che Lui c’è. Per cui mi sono attaccata. Quando adesso vado al lavoro, non sto a dire: funziona, non funziona, Lui mi cambia, non mi cambia, vinco, non vinco. Ho tanti amici che hanno perso il lavoro in questo periodo di crisi, tantissimi amici proprio cari che stanno facendo di tutto per trovare un lavoro, oppure fanno due, tre lavoretti al giorno per portare il pane a casa, per sfamare i loro cari. Ho tante amiche che hanno figli, che si alzano di notte per loro. Ma anche io, no? Io sono lì, davanti ad un computer, magari 10, 12 ore al giorno, anche io sono lì per affermare Lui, per affermare Cristo. Io offro la mia vita e poi ci pensa Lui, magari lo fa per farmi capire qualche cosa per il cancro che veramente io desidererei, oppure aiuterà le persone in Haiti, non lo so. Ci penserà Lui.
E devo dire che Lui mi ha fatto vedere che è così anche molto recentemente. Ho ricevuto una lettera e ho ottenuto il permesso di leggerla. Leggo un pezzettino piccolissimo per farvi capire questa cosa. Penso che lei, tra l’altro, chi l’ha scritta, sia qui. Dice: “Cara Teresa, mi chiamo Santina e vivo in Abruzzo con mio marito e due figli. Nel 2005 mi hanno diagnosticato un melanoma sul dorso. Sin dal primo momento ho provato a documentarmi cercando le informazioni su Internet. Ho letto di tutto e di più, ma non riuscivo a trovare le pubblicazioni del medico che mi aveva curato, trovavo solo estratti di full text disponibili a pagamento. Ho iniziato quindi a cercare le stesse pubblicazioni digitando i nomi di altri autori” e così digitava il mio nome, “e tra gli articoli è comparsa la sua testimonianza: Per chi vivi?”. E’ esattamente l’episodio che vi ho raccontato, successo più di dieci anni fa, quando io avevo sbagliato il progetto e il Gius mi aveva fatto questa domanda. L’avevo raccontato da qualche parte ed è finita su Internet: lei, cercando su Google, l’aveva trovata in mezzo agli articoli scientifici. E dice: “Da quel giorno la mia vita è cambiata. Era l’estate 2006. La sua testimonianza, riletta più volte, mi ha trasmesso un’inquietudine mista a stupore. Non capivo eppure restavo attratta e incuriosita dalla risposta: vivo per Cristo. Mi chiedevo cosa potesse spingere mai una donna, medico affermato, a vivere per Cristo”. E da qui mi racconta la storia bellissima della sua conversione e finisce: “Cara Teresa, ora la malattia si è ripresentata. E mercoledì mi presenterò presso la chirurgia toracica di Forlì, a un intervento al polmone per rimuovere cinque noduli. Non nascondo di essere un po’ preoccupata, ma resto comunque tranquilla, ora. Perché mi sono affidata al Signore, consapevole che tutto quello che fa è buono per la mia vita”.
E poi, da qui mi ringrazia di essere per lei un testimone, una compagnia reale anche se così a distanza. E io, che tra l’altro avevo ricevuto questa lettera il giorno dopo che avevo fatto una domanda alla Madonna – mi devi far capire un po’ di più qual è il mio compito qui dentro -, perché era veramente dura, ho ricevuto questa lettera che mi ha commosso tantissimo. Perché, chi l’avrebbe mai detto che anche un errore mio, dieci anni prima, una correzione così del Gius, potesse fare compagnia ad una persona, a dieci anni di distanza, dall’altra parte dell’oceano, in un momento così drammatico come quando scopri di avere un tumore? Che cos’è questo? Come si può spiegare? E poi, anche l’amicizia che è nata con questa persona, negli ultimissimi tempi. Io questa persona non l’avevo mai vista prima, non sapevo neanche chi fosse, eppure darei la vita! Si darebbe la vita l’uno per l’altro! Che cos’è quest’amicizia? Che cos’è? Perché il fatto che uno riesca piano piano a cambiare, cioè? Io ho capito questa cosa: che l’ideale può accadere perché Lui è fedele. Non io che sono capace, Lui è fedele, dandomi un’amicizia così, che continuamente, magari anche cadendo, ma richiama sempre all’ideale. Io, seguendo, magari ruzzoloni ma seguendo, mi trovo cambiata, posso dire anch’io che posso amare così.
E per chiudere, volevo raccontare un ultimo esempio, è una cosa che mi ha molto commosso, accaduta di recente. Mi ha fatto capire due cose: che non c’è un desiderio o una domanda che non si possa fare, magari lasciandola lì aperta, in attesa di una risposta. E poi anche che quello sguardo iniziale di Giussani, che mi ha fatto infiammare per Cristo, per l’ideale, nel tempo, attraverso tutte queste verifiche, di riscoprirlo presente, di abbandonarlo, di ritrovarlo, in tutto questo Lui ti assimila a sé. Tu ti ritrovi, tu, io, ad avere uno sguardo umano diverso, uno sguardo che veramente cambia. Racconto questa cosa: quando prendiamo i post dottorati a lavorare con noi, è una selezione tosta: guardiamo il curriculum, dove hanno studiato, gli esami che hanno fatto, la preparazione che hanno, gli interessi, controlliamo se quello che interessa loro interessa anche noi, se ce la fanno a fare quello che vorremo fare noi. Prendere i post dottorati è fondamentale, perché sono loro che poi fanno la gran parte delle analisi, sono loro che portano avanti le pubblicazioni che sono importanti per la carriera. Un giorno mi hanno chiesto se potevo prendere un post dottorato che veniva da un programma speciale nel NIH, un programma bello, a dire la verità: praticamente l’NIH individua delle persone di talento ma che vivono in condizioni molto disagiate e permette loro di studiare e poi venire all’NIH, dopo che si sono laureati in medicina, sotto la guida di un mentore, per imparare bene. Mi hanno chiesto se potevo prendere uno di questi.
I miei colleghi mi hanno detto: “Guarda, stai attenta, perché non ha la formazione di cui hai bisogno tu, di cui abbiamo bisogno noi. Dovrai impiegare un sacco di tempo per portarlo all’altezza di capire, non è immediatamente produttivo. Tu impieghi del tempo, lui non produce, non è molto conveniente”. Quella volta è stato molto facile perché io ero grata di quello che mi era stato dato e pensavo: se non avessi avuto Pier Alberto a Milano, e gli altri che lavorano con lui, Angela, Dario, e anche al NIH ho avuto un maestro eccezionale. Se non avessi avuto la cura di certi maestri, non sarei qui a dire: adesso scelgo il post dottorato, anch’io ero stata aiutata, guidata. Per cui ho detto: lo voglio fare, lo voglio prendere, questo ragazzo. Provo. E così è arrivato David. E con lui abbiamo cominciato un bel lavoro perché, per un po’ di tempo, quando finiva la giornata e tutti tornavano a casa, io mi mettevo con lui per ore, la sera, a rileggere i dati, a spiegargli come interpretarli, cosa volessero dire i risultati. E’ un ragazzo molto sveglio, un ragazzo fantastico, appassionato, era bello lavorare con lui, però c’era un sacco di lavoro. Se non che, un giorno, proprio quando pensavo che stava camminando con le sue gambe, lui mi dice: “Sa, appena finiamo, vorrei fare un’altra cosa. Mi vorrei occupare di politica sanitaria, di organizzazione sanitaria a livello nazionale per aiutare la gente povera del mio Paese”.
Lui viene da un Paese in condizioni veramente difficili: quando ho sentito così, ho capito che tutto quello che gli avevo insegnato, gli stavo insegnando, non l’avremmo potuto mai usare in quel Paese. Non erano assolutamente cose che potessero servire lì. Io, poi, di politica sanitaria non capisco niente, non è quello di cui mi occupo. C’è stato un millisecondo in cui lui mi guardava con questo sguardo pieno di desiderio. Mi sono detta: che cosa faccio? Non mi conviene. Poi mi è tornata in mente quella cosa che mi era successa prima con Giussani e ho pensato: magari qua c’è qualcosa per me, Lui sta davanti a me per qualche cosa, mi sta chiedendo qualche cosa, Tu, Gesù mi vuoi far capire qualche cosa, perché mi hai sistemato Tu in questo modo. Non capivo bene cosa, ho detto: voglio verificare che è di più cercare di affermare il desiderio suo che portare un mio progetto. Per cui ho cominciato a parlare con dei miei colleghi, hanno cercato di capire chi si intendeva di politica sanitaria, mi hanno trovato dei dati da analizzare perché lui potesse imparare a far quello, ci siamo messi a fare un progetto perché lui potesse fare un master.
E vedere lui così realizzato, felice, che stava facendo una cosa per il suo Paese, mi ha dato una soddisfazione tale che ho veramente verificato che valeva la pena. La questione non è finita lì. Mesi prima, quando c’era stato il terremoto di Haiti, vedendo quelle immagini mi ero chiesta se dovevo lasciare e andare lì. Tantissimi americani sono andati ad aiutare la gente di Haiti. Parlando con altri, ho capito che il tipo di qualifica di cui loro avevano bisogno non era sicuramente la mia, e che era molto più ragionevole stare alla circostanza che mi era data. Però dicevo a Gesù: tu mi hai messo in una circostanza che oggettivamente è la mia, no? Chiaramente, da tutti i dati della realtà si capisce che sono fatta per stare qui e obbedisco. Ma questo, il tipo di ricerca che faccio, è un lavoro in cui tu puoi andare avanti anni ed anni senza sapere se quello che fai può veramente servire. Mi dicevo: non curo più gli ammalati, non vado come tanti miei amici nei Paesi poveri. Tu che mi hai dato questa circostanza, mi hai dato anche questo desiderio, io ho veramente il desiderio di fare qualche cosa per la gente di lì, la gente povera. E ce l’avevo veramente. Voglio vedere come Tu metti insieme queste due cose, voglio proprio vedere, voglio una risposta.
Poi me ne son dimenticata, sono andata avanti per mesi e mi son dimenticata di questa domanda a Gesù. A un certo punto hanno fatto vedere un programma alla CNN, dove c’erano immagini della ricostruzione di Haiti, delle condizioni difficili. Mentre lo guardavo, all’improvviso mi è tornata in mente quella domanda e ho pensato: oddio, sta a vedere che tutto quello che è successo con David in qualche modo l’hai fatto tu, per rispondermi. Perché io non solo avevo aiutato David, ma lui adesso seguiva proprio queste politiche, cercava di aiutare quel Paese, la gente povera. Proprio quello che io volevo fare, e lui lo poteva fare perché io l’avevo aiutato. Non avevo mai connesso queste due cose, mi sono commossa tantissimo. E l’altro giorno ho pensato che volevo raccontare questa cosa al Meeting di Rimini, e lui mi ha risposto: “Dì pure che io ti sarò grato per tutta la vita perché qui non ho solo imparato ad analizzare ed interpretare dati, ma ho capito come impostare il tempo, quali sono le priorità, come lavorare, ma soprattutto come guardare alle cose senza avere paura di rischiare il mio desiderio. E ti prometto, ti giuro che farò di tutto per aiutare la mia gente, e tu sarai con me, tu l’aiuterai con me, ma quello che voglio portare loro, adesso, è innanzitutto questo sguardo”. Grazie.
GIANCARLO CESANA:
Un mio amico, morto prematuramente pochi anni fa, parlando del mio mestiere diceva che i medici hanno un rapporto almeno ambiguo con i pazienti, perché ci campano. Così gli scienziati con i dati della loro ricerca, i giudici con la giustizia, gli avvocati con gli imputati. Non è sporca solo la politica, la politica si vede di più, il resto lo si vede di meno. Abbiamo visto che anche un ambiente nobile come quello della ricerca scientifica è attraversato da fortissime ambiguità, perché la realtà non è mai definitiva, è suggestiva ma non è mai definitiva. Suggestiva vuol dire che suggerisce, che trascina, ma non risolve. E in questa situazione, che è la nostra condizione umana, la posizione cristiana, come abbiamo sentito da Maria Teresa, non è né un pensiero né una scelta, ma è una vocazione, cioè una chiamata, una chiamata che si realizza proprio rivolgendosi al desiderio che uno ha. Cioè, Dio fa di tutto perché chi Lui vuole Lo voglia, cioè Gli corrisponda. Questo è proprio affascinante. E, se la vita è una chiamata – perché poi naturalmente anche la vita è una chiamata, sono i genitori che ti chiamano alla vita, non ti chiami tu -, vuol dire che la vita ha un compito perché una vocazione c’è per un compito. Il modo con cui si risponde di questo compito, come abbiamo sentito, è il lavoro, e l’esito del lavoro non è l’invenzione della verità ma è la scoperta della verità, proprio come tirare giù una coperta da una cosa che non si vede. E la verità è la cosa che avevo pensato, come ha detto lei, ma raddrizzata, cioè infinitamente più grande, tant’è che, come giustamente sempre lei ha osservato, quando doveva combattere per la sua scoperta rispetto a quella degli altri, l’unico modo giusto di affrontare la verità scoperta e di addentrarsi in essa è la domanda: mettiamoci insieme, no?, quello che fa l’uomo uomo. Perché, quando Carrón dice: “Manca l’umanità”, vuole dire che manca la domanda, perché la domanda, in un mondo che è ostile, crea rapporto e, come abbiamo sentito, l’essere è un rapporto. Ah, scusate. Adesso, alle 17, c’è un incontro che ha per titolo una frase di Dostoevskij: “Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo?”. E’ un incontro affrontato da due personaggi veramente significativi: uno è il cardinale Péter Erdö, Arcivescovo di Budapest e Presidente della Conferenza Episcopale europea, e l’altro è il Metropolita Filaret di Minsk e Sluzk. Quindi, un alto esponente del cattolicesimo e un alto esponente dell’ortodossia che, per la prima volta, si ritrovano insieme a confrontarsi in un ambiente laico: è veramente una cosa notevole, a cui vi consiglio di assistere.
(Trascrizione non rivista dai relatori)