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“AI CONFINI DELLA REALTÀ”. Leggere la storia, leggere le stelle
“Ai confini della realtà”. Leggere la storia, leggere le stelle
Incontro-lettura a cura di Davide Rondoni. Partecipano: Piero Benvenuti, Astrofisico, Università degli Studi di Padova; Alessandro Rivali, Poeta.
DAVIDE RONDONI:
Buonasera, ben trovati a voi che siete qui e a quelli che sono fuori a guardare dal video. L’incontro di questo momento si può intendere alla luce della domanda che il Papa ha fatto al Meeting nel suo messaggio d’inizio: che cosa cercate? L’idea che mi era venuta vedendo il tema del Meeting, discutendo con altri amici, era: perché non creiamo un’occasione, diversamente da quanto accade un po’ troppo spesso nelle altre sale del Meeting più grandi, in cui non si trovano ospiti con le stesse competenze ma mischiando un po’ le acque, com’è bello fare anche al Meeting? Perché proviamo a incontrare persone che vengono da mondi diversi, da percorsi diversi, che sono in qualche modo dei ricercatori e sentiamo che cosa stanno cercando, che cosa stanno trovando e che problemi magari stanno trovando, andando alle estreme periferie del loro campo di visuale e di ricerca? Allora ho chiesto, in questi tre incontri che iniziamo questa sera, a tre amici poeti e scienziati di confrontarsi su questa domanda, cioè su cosa stanno cercando, che cosa stanno trovando e che inquietudini stanno provando nel fare la loro ricerca, perché andare verso le periferie o i confini, lo può fare solamente chi non ha paura di quello che trova. Solamente un uomo che non ha paura va verso la periferia, va verso il confine, non sta sicuro e riparato nel proprio centro.
Quindi, lo scopo di questi incontri è mettere a fuoco una conoscenza comune, fatta insieme, perché le scienze e i metodi di conoscenza possono essere diversi: il metodo poetico è diverso, ovviamente, dal metodo scientifico-analitico ma il metodo vuol dire appunto la strada. C’è una differenza di metodo, di passo, ma la ricerca riguarda la stessa cosa e i problemi forse hanno anche delle somiglianze. Abbiamo con noi questa sera Pietro Benvenuti, un importante scienziato che vive a Conegliano, in provincia di Treviso, che è stato responsabile scientifico per l’Agenzia Spaziale Europea del satellite astronomico, Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e Vice Commissario all’Agenzia Spaziale Italiana, è Ordinario a Padova di Astrofisica dell’alta energia, quindi un curriculum molto ampio, con una quantità di pubblicazioni che non vi cito. Insomma, ha i titoli per parlare di quello che gli abbiamo chiesto e a lui chiedo il primo intervento. Poi presenterò l’altro amico che è alla mia sinistra.
PIERO BENVENUTI:
Grazie per essere qui ad ascoltare questa breve introduzione. Il tema che mi è stato assegnato è “leggere le stelle ai confini con la realtà”. Io credo che da quando l’uomo ha iniziato a sollevare lo sguardo al cielo, ha immediatamente cercato di leggere e interpretare i segni che vedeva, queste stelle che sorgono ogni notte, salgono fino a un certo punto poi tramontano e mantengono le loro posizioni, creano dei disegni in cielo che si mantengono giorno dopo giorno, anche se si spostano leggermente ma sempre insieme. A questi segni, l’uomo ha dato dei nomi, ha trasferito i propri miti, i personaggi della propria storia, gli animali, ha cercato di collegare la propria storia con gli eventi in cielo. Un cielo che si sposta regolarmente e quindi scandisce il tempo. Ha poi cercato di vedere anche se questi movimenti regolari del cielo avevano qualche influenza sulla propria storia: nasce l’astrologia, per cercare di capire il futuro, il fato e il proprio destino dai moti del cielo. E comunque in questa avventura, in questo tentativo di collegamento della propria esistenza con il cielo, c’è sempre stato presente il senso del confine: se io guardo le stelle, vedo che sono lì, si muovono e sono qualcosa di reale, ma so che non le posso toccare.
E’ diverso da quando io osservo per esempio un paesaggio che forse sta al di là del poter essere raggiunto, ma sapendo che posso muovermi e toccarlo. Il cielo rimane sempre al di là – risuonano le parole del poeta – come una “siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Però il poeta continua e dice: “Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo”. C’è il confine, ma anche la sensazione che posso oltrepassare questo confine con il mio pensiero, la mia capacità. Questo per quanto riguarda l’osservazione del cielo con l’occhio nudo che, per millenni, ha segnato la storia dell’astronomia e il collegamento dell’uomo con il cielo. Sappiamo che attraverso questa visione diretta, con il senso della vista, l’uomo ha creato un’immagine del cielo che è totalmente diversa dalla realtà che noi viviamo sulla terra. Se ricordate la filosofia aristotelica, fa una distinzione di sostanza: le sostanze terrestri che mutano, cambiano e sono corruttibili, tutt’altra cosa dall’empireo, la quintessenza perfetta che non si corrompe. Tutta questa divisione fa sì che il cielo divenga anche il luogo dove l’uomo aspira a portare se stesso dopo la morte: il paradiso ha la sua collocazione nel cielo, il regno dei cieli è lì, la Madonna viene assunta in cielo fisicamente. Diventa un luogo fisico che però è diverso dal luogo in cui viviamo. Tutto questo nasce da una visione quasi primitiva, in senso non spregiativo: semplicemente io mi costruisco attraverso il senso della vista.
Tutto cambia nel momento in cui all’occhio nudo si aggiunge uno strumento, un cannocchiale: quattrocento anni fa, Galilei per la prima volta punta uno strumento ottico, il cannocchiale, verso il cielo e si accorge che questa differenza sostanziale tra il cielo e la terra non esiste. La superficie della luna mostra montagne, valli, pianure, simili a quelle che noi vediamo sulla terra. Se avete visto le immagini recenti della cometa Churyumov-Gerasimenko prese dalla sonda Rosetta, avrete notato che queste strutture che si vedono così chiaramente ricordano i ghiaioni dolomitici, i nevai che troviamo in estate. E’ evidente, sia a Galilei quattrocento anni fa, sia a noi oggi, che tutto l’universo è costituito della stessa materia, non c’è più questa differenza. Eppure il limite rimane ancora presente, c’è questo confine: io posso osservare le stelle ma non le posso modificare, non le posso toccare, non posso costruire degli esperimenti con le stelle. L’astronomo deve accontentarsi di osservare e queste osservazioni, a partire da Galilei fino ad oggi, hanno esplorato via via caratteristiche sempre più dettagliate dell’universo. Già Galilei si accorge non solo che il cielo è costituito della stessa pasta della terra ma si accorge anche che il limite precedente, quello del cielo delle stelle fisse, in realtà non c’è, si accorge che il cielo è popolato di miliardi di stelle, si accorge che la Via Lattea che sembrava una specie di nube indistinta, in cielo è costituita da milioni di stelle. Il confine rimane ma si estende: si pone, ancora con forza maggiore, un problema antico, se questo universo che noi vediamo abbia o no un limite, se ci sia un vero e proprio confine oppure no. E’ una domanda antica che si sono posti i filosofi.
Dato che questa è una commistione di scienza e poesia, vi vorrei leggere due passi di un grande poeta latino, Lucrezio, che nel suo De rerum natura si interroga proprio su questo, sulla natura dello spazio, sull’estensione dello spazio e riporta il pensiero di un altro grande filosofo della Magna Grecia, Archita da Taranto, di cui purtroppo non abbiamo quasi nulla. Conosciamo il suo pensiero attraverso le testimonianze di altri autori, in particolare Lucrezio, sarebbe bello leggerlo direttamente in latino. Dice Lucrezio: “Poiché ho insegnato come le particelle elementari della materia incorruttibile volino in eterno senza essere distrutte, ora indaghiamo se esse abbiano o no un limite e ugualmente scopriamo se il vuoto che abbiamo scoperto luogo lo spazio dove ogni evento avviene sia nel suo insieme finito oppure sterminato e infinitamente profondo”. E continua portando questo esperimento virtuale di Archita da Taranto: “Se qualcuno si spingesse fino alle rive estreme dell’universo e scagliasse un dardo volante, ritieni che questo, vibrato con tutte le forze, raggiunga il bersaglio e voli oltre lontano oppure che qualcosa gli si opponga e gli vieti l’andare? Devi per forza ammettere o l’una o l’altra ipotesi”. E con questo esperimento virtuale, Archita e Lucrezio dicono evidentemente che nella mia visione dello spazio non ci può essere un limite, perché se il dardo continua, evidentemente c’è qualcosa che continua, se ritorna indietro, c’è qualcos’altro che lo rimbalza oltre questo limite, quindi c’è ancora qualcosa. Questa è la conclusione per cui, sulla base semplicemente del pensiero, dell’immaginazione, gli antichi avevano pensato che l’universo non poteva avere un limite. Non era l’unica posizione, evidentemente, ma questo mi serve come scenario per dirvi che cosa oggi abbiamo visto nelle stelle per quanto riguarda lo spazio.
La domanda è sempre quella: c’è un limite? Che cos’è lo spazio? La grande novità, la grande scoperta che si è costruita piano piano durante tutto il secolo scorso e che oggi è evidente per noi, è che noi siamo qui in questa stanza e vediamo lo spazio di questa stanza, mentre ci siamo dentro. La fisica moderna, l’astrofisica, la cosmologia, la relatività generale assieme alla fisica quantistica ci dicono oggi che lo spazio non è affatto un contenitore vuoto, è qualche cosa che non può essere pensato se non assieme alla materia ed energia. Materia ed energia, spazio e tempo sono compenetrati in maniera tale che non possono essere separati, non possiamo immaginare lo spazio senza materia, il vuoto non esiste. Questa è una grande novità: naturalmente, per potervi convincere, dovrei parlare per tutto un corso universitario, farvi capire come siamo arrivati a questo punto ma non è il luogo e non c’è il tempo per farlo, quindi, credetemi, questa è la situazione attuale. E’ difficilissimo per noi pensare a questo spazio che è qualcosa di plastico e non può mai essere vuoto, non solo, ma la presenza della materia nello spazio, materia ed energia che sono poi la stessa cosa, ecco questa è una grande novità della relatività, modifica lo spazio che si curva, diventa tridimensionale. E’ molto difficile da immaginare, avremmo bisogno di una quarta dimensione per poterlo vedere curvo ma non l’abbiamo, ci siamo dentro. Ne abbiamo l’evidenza perché le immagini che il telescopio spaziale Hubble ci regala ci hanno mostrato una quantità ormai enorme, decine e decine di lenti gravitazionali, immagini di fata Morgana in cui vediamo galassie lontane che si deformano semplicemente non perché sono deformate esse stesse, intrinsecamente, ma perché la loro luce passa attraverso uno spazio che è deformato dalla presenza di materia. Abbiamo le prove visive che questo spazio è qualcosa di plastico e che si vede. Ora, tutto questo è già straordinario e completamente contro intuitivo. Pensate che da Lucrezio fino a Newton, fino alla fine dell’Ottocento, pensate a Kant, la definizione di spazio e tempo è basata proprio sulla meccanica celeste, con i suoi risultati eccezionali che Newton trova immaginando spazio e tempo come delle entità assolute e inerti che guardano ciò che avviene nel mondo.
Oggi non è più così, abbiamo cambiato completamente: anche se nella mente di tutti noi lo spazio continua ad essere un contenitore, sappiamo che questo è diverso. Non solo ma la cosa eccezionale che si è scoperta durante il secolo scorso è che questo spazio, che contiene all’interno in maniera inestricabile la materia e l’energia, non è statico, fermo, ma in espansione, è in evoluzione e questa è la grandissima novità della cosmologia. Noi viviamo in un universo che è evoluzione: la caratteristica fondamentale del confine della realtà è che questa realtà è evolutiva e noi siamo partecipi di questa evoluzione. Questa novità, dal punto di vista scientifico, è eccezionale, ma dal nostro punto di vista di persone comuni deve essere pure una grande novità perché ci dice che noi siamo legati all’universo in maniera assolutamente indissolubile. Non è un caso che noi siamo qui su questa terra, è il prodotto di un processo lunghissimo che stimiamo essere intorno ai 13,8 miliardi di anni e alla fine di questo periodo ecco che emergiamo come coscienza e siamo in grado di ricostruire questa storia che noi stiamo leggendo attraverso le stelle. E per motivi anche qui facili da spiegare in un corso universitario, ma su cui voi mi dovete credere, con gli strumenti attuali siamo in grado di vedere le immagini del cosmo come erano via via nel passato, fino a 13,8 miliardi di anni luce. Marco Bersanelli, l’amico che qui incontrerete sicuramente al Meeting, studia le immagini di questo universo fanciullo che ottiene attraverso un satellite astronomico che si chiama Planck.
Questa è la grande innovazione ma questo vi dice che il nostro legame con l’universo, con la realtà, è profondissimo, e di questo dobbiamo avere coscienza. Nel sangue che scorre nelle vene di tutti noi in questo momento c’è l’emoglobina che è una molecola complessa dove ha un ruolo fondamentale l’atomo di ferro: se non ci fosse, non ci potrebbe essere lo scambio di ossigeno, quindi è fondamentale. Tutti gli atomi di ferro che stanno scorrendo nelle nostre vene sono stati prodotti all’interno delle stelle che, esplodendo come supernove, hanno diffuso questo materiale cucinato al loro interno per tutto l’universo. E poi, alla fine, questi atomi di ferro sono arrivati nel nostro sangue, magari da stelle diverse. Degli atomi non si può ricostruire la storia, però noi sappiamo che non possono che essersi formati all’interno delle stelle e dalle stelle sono arrivati a noi. Quali altre cose ci dicono queste letture delle stelle? Ci hanno detto un’altra cosa fondamentale, insieme alle letture che i fisici danno delle particelle della materia, un’altra grande scoperta, già intuizione di Democrito e Lucrezio: la materia e l’energia sono quantizzate, non possiamo suddividere la materia infinitamente, ad un certo punto arriviamo ad un limite. Quando parlo di un costituente dell’atomo, nucleo ed elettroni, questi elettroni sono delle particelle che non posso dividere ulteriormente e così la luce di questa stanza posso vederla anche come pioggia di fotoni, piccoli elementi di energia, che non possono essere divisi ulteriormente. Questa è una cosa più facile per noi da capire: ormai chiunque abbia un telefonino sa che l’immagine che ottiene quando fa una foto è digitalizzata è un insieme di piccoli punti luminosi che messi insieme danno un’immagine. Questo concetto di digitalizzazione è molto più semplice per noi da capire però dovete capire che questa quantizzazione non è ulteriormente divisibile. Tra qualche anno la macchina fotografica del mio telefonino sarà obsoleta perché il numero di pixel, elementi di immagine, sarà aumentato enormemente e quindi vengono pixel sempre più piccoli, danno una risoluzione sempre maggiore e questo non può avvenire nel caso dell’atomo.
Parlando di digitalizzazione, per dirvi quanto la nostra concezione della realtà si è modificata nel tempo, non posso che leggervi una poesia di un mio grande maestro, Andrea Zanzotto. E’ una poesia tratta da Vocativo, ve la leggo perché è scritta nel ’57, io avevo 11 anni e così pure il computer elettronico che nasce più o meno quando nasco io, nel ’46, ’45. E’ molto giovane, il computer, quanto sono giovane io! E nel ’57 Zanzotto scriveva questa poesia bellissima, un po’ triste che si chiama Fiume all’alba: “Fiume all’alba / acqua infeconda, tenebrosa e lieve / non rapirmi la vista / non le cose che temo / e per cui vivo / Acqua inconsistente, acqua incompiuta / che odori di larva e trapassi / che odori di menta e già ti ignoro / acqua lucciola inquieta ai miei piedi / da digitate logge / da fiori troppo amati ti disancori, ti inclini e voli / oltre il Montello e di caro acerbo volto / perch’ io dispero della primavera”. L’attenzione ve la porto su questo aggettivo, “digitate logge”, “digitate” vuol dire l’immagine di queste logge che si riflettono nell’acqua del fiume che scorre, tutte spezzettate in tanti elementi di immagine. Questo digitate è proprio lo spezzare dell’immagine in tante parti: lo so perfettamente perché Andrea Zanzotto in quegli anni era il mio professore di lettere e, oltre ad insegnarci la consecutio temporum e farci imparare a memoria in latino Corinzi I,13, ci insegnava l’algebra binaria che è l’aritmetica dei computer in cui ci sono solo due numeri: 0 e 1. Era entusiasta dell’informatica e del suo sviluppo e prevedeva cose straordinarie: grande profeta oltre che grande poeta.
Capire la digitalizzazione, cioè la scomposizione della realtà in pezzi indivisibili, è importante perché la grande sfida intellettuale del futuro, dei fisici, degli astronomi e dei cosmologi è capire se anche lo spazio e il tempo sono digitalizzati, quantizzati. Posso dividere il nostro concetto di tempo in archi temporali quanto voglio, posso dividere in istanti sempre più piccoli, così con lo spazio io posso creare spazi sempre più piccoli. Lo spazio e il tempo sono compenetrati con la materia e la materia sicuramente è quantizzata, allora la questione che si pongono oggi gli astronomi è se lo spazio e il tempo sono continui oppure, ad un certo punto, arrivo ad un quantum di spazio o tempo che non può più essere ulteriormente suddiviso. E’ la grande sfida di congiungere tecnicamente la meccanica quantistica e la relatività generale: sono concetti molto astratti e lontani dalla realtà quotidiana di tutti noi e quindi potete benissimo chiedervi: perché ci parli di questo? Che cosa ci interessa? Tanto la nostra vite scorre senza preoccuparci della quantizzazione, il livello di quantizzazione è così piccolo che io non me ne accorgo, se la costante fosse un po’ più grande me ne accorgerei, non potrei accarezzare il mio gatto perché o non lo tocco oppure gli do una sberla che lo ammazzo.
Questo avviene a livello quantistico ma siccome la quantità di energia è piccola non me ne accorgo. Perché dobbiamo interessarci di questo? Perché anche un giglio del campo nasce e cresce nella sua meraviglia e non influisce per nulla apparentemente nella nostra vita, ma se io non avessi mai visto un giglio nel campo sarei una persona diversa, non potrei riflettere sulla meraviglia di questo universo in cui vivo. Questa è anche una meraviglia, lo spazio e il tempo che può essere suddiviso oppure no, questa questione che cercheremo di risolvere nel futuro riguarda tutti noi perché è la nostra realtà, è pura poesia. Certo, per indagare questi problemi, i fisici e i cosmologi usano la matematica e metodi molto complessi, ma a questo punto faccio appello ai poeti: abbiamo bisogno di poeti che ci esprimano questi concetti in maniera tale che noi cogliamo l’essenza. Non è importante cogliere i dettagli, saper calcolare la meccanica quantistica, è importante capire come siamo integrati in questo universo e in questa realtà e meravigliarci della capacità che abbiamo di comprenderla. Questo è quello che deve provenire da questi studi, altrimenti noi cosmologi diventeremmo sempre più isolati, ci chiuderemmo nella nostra torre d’avorio e godremmo dei nostri risultati senza riuscire a comunicarli agli altri. Abbiamo bisogno di qualcuno che, come ha fatto Lucrezio, in parte Zanzotto, come ha fatto Dante – rileggete per favore il XXVII canto, in cui Beatrice spiega a Dante che si meraviglia di come l’universo tolemaico, o meglio ancora di Eudosso di Cnido, sia fatto di sfere concentriche che alla fine giungono a un centro che è il primo mobile che è Dio, che comprende tutta la sfera. E’ una descrizione meravigliosa di quella che viene chiamata la Tresfera che è il modo matematico di intendere lo spazio tridimensionale con la curvatura. Dante è riuscito a trasmetterci questa meraviglia attraverso i suoi versi. Abbiamo bisogno di questo e mi auguro che nel futuro questa convergenza tra scienza e arte e poesia avvenga sempre più spesso e in maniera più feconda. Grazie.
ALESSANDRO RIVALI:
Sarebbe una sfida un attimo scoraggiante per i poeti. Immaginate a me e Davide che sudore ghiacciato in questo momento possa scendere sulla schiena. Vorrei chiedergli se magari cita il suo ultimo libro e ci racconta al volo qualcosa di questo.
PIERO BENVENUTI:
Quest’ultimo libro si intitola Genesi e Big Bang, parallele e convergenti, è scritto a due mani da Filippo Serafini che è un biblista, che ha scritto una nuova esegesi di Genesi Uno, della Bibbia. La mia parte invece descrive che cosa abbiamo appreso dell’evoluzione del cosmo, del Big Bang, ed è un tentativo di mettere in parallelo due racconti con obiettivi evidentemente diversi ma che alla fine portano alle stesse conclusioni, cioè alla meraviglia della nostra capacità di indagare la realtà, attraverso da un lato un racconto mitico che ha fortissimo valore, perché il mito può essere sempre reinterpretato alla luce di nuove conoscenze e non perde mai il suo valore. Dall’altro, questa straordinaria avventura della cosmologia moderna che ci ha portato a comprendere come noi siamo legati strettamente all’evoluzione dell’universo. È il tentativo di un invito a ripensare in maniera profonda la filosofia della natura che – ricordate – abbiamo sempre imparato come suddivisa in maniera inerte, in materia biologica, in materia intelligente. Queste divisioni diventano sempre più artificiali, bisognerebbe rileggere Teilhard, naturalmente, Il cuore della materia, e rivederlo alla luce delle nuove scoperte. Questo è un piccolo tentativo di portare questi racconti paralleli a convergere in una unità che dovrebbe essere più soddisfacente per chiunque si appresti a leggere sia i racconti della Bibbia che i racconti della scienza moderna.
DAVIDE RONDONI:
Grazie al professor Benvenuti, anche perché avete capito che non è facile comprimere come ha fatto lui così tanta materia, per rimanere sul tema, nello spazio ridotto del suo intervento. Poi magari ci sarà il tempo per fare qualche domanda. Sicuramente è sempre difficile parlare di meraviglia, perché si pensa di sapere cosa sia mentre la meraviglia è esattamente quella cosa che ti arriva e che non sai, quando ti accorgi che il ferro delle stelle è nel tuo sangue. La meraviglia non può essere mai un argomento. La meraviglia è sempre un’esperienza di cui puoi parlare dopo e quindi, giustamente, quando lui accennava alla fine allo spazio comune di un sapere poetico mitico o anche teologico e di un sapere scientifico, il territorio della meraviglia non è cosa che sappiamo bene. La meraviglia non è una cosa pacifica, non è una cosa tranquilla che lo dici e sai che cos’è, la meraviglia è esattamente quella cosa che non sai, che ti prende e non sai come ti prende, non sai quanto e non sai che cosa ti sgomenta, non sai come ti inquieta. Sennò non è una meraviglia cioè la previsione di un sentimento che pensi di conoscere già. Mentre invece la meraviglia è l’esatto contrario della previsione dei sentimenti, sennò che meraviglia è? Per questo dire meraviglia indica quell’apertura inquieta della ragione, del cuore che non è mai tranquillo di sé, sennò non è una meraviglia, sennò è appunto la previsione di un sentimento che pensi di conoscere già e allora non è più meraviglia ma è semplicemente la previsione di come starò fra dieci minuti.
Do la parola adesso ad Alessandro Rivali che, oltre ad essere un caro amico, è anche un amico del Meeting perché, lavorando per edizioni Ares, è qui anche per il suo lavoro, per presentare alcuni libri molto belli che fanno. Ma è un poeta dei più interessanti che gira per l’Italia, è nato a Genova, ha solo questo difetto, no, scherzo, ne ha tanti altri, no, è un’ottima persona, un ottimo poeta e ha studiato a Milano, Lettere. Si è laureato con una tesi che già indica uno dei suoi campi di interesse, sull’immagine della Belle Epoque nella Grande Guerra, cioè un rapporto tra cultura e storia: è uno dei suoi filoni sul lavoro di poeta, non sto a citare tutte le pubblicazioni. Ricordo che nel 2010, per Jaca Book, ha pubblicato la Caduta di Bisanzio, titolo che appunto evoca il rapporto tra storia e poesia. A lui chiedo di raccontarci, anche attraverso la lettura di qualche poesia, come vede questo leggere le stelle, leggere la storia.
ALESSANDRO RIVALI:
Grazie, Davide. Come potete immaginare dopo la conferenza bellissima, non è agevolissimo per me prendere la parola, perché è stata appena lanciata ai poeti una sfida abbastanza ardua. Volevo partire da quello che ci suggeriva Davide, dal tema della meraviglia e vi racconterò. Voglio farvi fare un viaggio, come sono arrivato alla poesia da assetato di storia: mi sono abbeverato di tante storie da quando ero piccolino e in terza elementare mi facevo regalare soltanto soldatini e atlanti di storia, fino a voler scrivere delle stelle, che magari vi do un’anticipazione qui stasera. La prima meraviglia per me è stato appunto l’incontro con la storia. Mentre stavo venendo qua scortato dai meravigliosi volontari in tenuta arancione, che non bisogna mai finire di ringraziare, mi è capitato di vedere un’immagine bianca, un saio di un domenicano, avete presente lo stand? E’ subito qui dietro.
Perché racconto questa cosa ? Perché da piccolo io sono stato portato dai domenicani perché ero considerato indemoniato dai miei familiari: non dormivo mai. I tentativi per farmi dormire furono i più drastici, con il quasi tentativo di mio padre di chiudermi in un armadio, lo possiamo mettere agli atti, non dormivo mai. C’era solo una cosa che in qualche modo riusciva a placarmi, mi acquietava ed era quando mio padre incominciava la sera a raccontare le storie. Allora mi paralizzavo, spalancavo gli occhi come si può fare di fronte ad un cielo stellato, cosa che avrei fatto magari negli anni, cosa che ho fatto nei tanti anni di scout. Il ricordo più bello che ho degli scout è il poter vedere il cielo veramente in tutto il suo splendore, lontano dalle contaminazioni luminose delle mie città. La storia che mi raccontava mio padre – adesso vi faccio un breve trailer della nostra famiglia – è stata per me densissima di suggestioni. Avevo un bisnonno che aveva scelto di fare un comodo mestiere di terrorista, perché siamo nell’Italia di fine ’800, era un periodo agitato, era un mazziniano, un marchigiano, amava mettere alcuni ordigni, fu condannato dal Papa e rimediò nell’unico posto in cui poteva andare, che era la Genova mazziniana. Si calmò attraverso una professione borghese tranquilla e serena, scelse di fare il veterinario: ma il figlio ereditò qualcosa della pazzia paterna e decise di sposare una ragazza bellissima e poverissima, con un solo inconveniente. Aveva degli occhi splendidi, occhi verdi, ma per lei fu diseredato perché faceva la baby sitter, la serva in una casa di conti vicino a Cornigliano, vicino a Genova. Quindi mio nonno scappò con questa ragazza su un piroscafo alla volta dell’Argentina ma ahimè, il drago della sorte era pronto a colpire ancora, perché la ragazza aveva occhi splendidi, verdissimi, bellissimi ma non tollerava il mare e quindi non riuscirono mai a raggiungere la pampa che avevano sognato e si dovettero fermare alla prima città che era Barcellona. Lì la sorte incominciò ad andare bene, fino ad un certo punto. Aprirono prima un ristorante italiano a Barcellona, dal nulla, cucinando in strada, poi allargandosi. Finché tutto venne capovolto la notte del 19 Luglio del 1936. Voi immaginate una famiglia italiana, felice, che pensa di aver trovato la sospirata felicità dopo vari percorsi accidentati e tormentati.
Quello che sto per raccontare è quello che mio papà bambino – aveva 6 anni, era l’ultimo di sette figli – vide spalancando di notte la finestra della terrazza, perché aveva sentito i fuochi d’artificio e si era arrabbiato tantissimo, perché da piccolo sognava di vedere Barcellona dall’alto e i fuochi d’artificio sul mare. Ma la scena che vide fu la scena che non avrebbe mai più dimenticato, è una scena che in qualche modo è stata determinante per tutto il mio lavoro di scrittura e lo è ancora. Perché aprendo le finestre vide il grande rogo di Barcellona, 19 luglio del ’36, passato alla storia come il grande rogo di Barcellona. Vide la chiesa in cui era cresciuto bruciare, vide alcuni uomini fucilati e il bambino rimase scioccato. La famiglia riuscì a salvarsi, a ripararsi dall’incendio, erano malvisti in quanto arricchiti, la situazione italiana nel ’36 era complicata e per ovvi motivi: era un’insurrezione anarchica e la famiglia riuscì a salvarsi. Abbandonarono tutto, assolutamente tutto, tutti e sette salendo su un piroscafo che fece un mesto, triste ritorno in Italia. Cosa vollero tenere? Cosa mia nonna, con astuzia e con senso materno, riuscì a tenere? Le foto a colori seppiati, avete presente le foto antiche con i bordi arrotondati, magari ormai più che ingiallite? Quello volle tenere, volle tenerle tutte, magari infilandole nelle tasche dei bambini. Ogni bambino aveva un indirizzo perché non sapevano chi sarebbe riuscito ad affrontare il quartiere che separava la zona di Barcellona dove vivevano dal porto. Riuscirono a salire sulla nave, riuscirono per fortuna a rimpatriare e salvarono la storia della famiglia attraverso queste fotografie. Ecco, per me queste fotografie sono state come l’inizio della mia ricerca poetica: tutelare in qualche modo la bellezza, cercare una forma di conoscenza e quindi dire chi erano quei volti, qual era la mia storia, la storia della mia famiglia. Per questo io credo che la poesia in qualche modo sia inseparabilmente legata alla ricerca della verità.
Non so chi di voi ha visto il bellissimo film Le vite degli altri: io lo considero una metafora straordinaria della cosa che può fare il poeta, l’artista, perché c’è un uomo, un crudele aguzzino incaricato di spiare un’altra persona, sembra un uomo cane lupo – così lo chiamerebbe Mandel’stam – che cambia, che in qualche modo si converte perché vede la lotta di un altro uomo come lui, di uno scrittore, una lotta corpo a corpo con la verità, con la bellezza. Questa è stata la prima tappa della mia ricerca, ho pubblicato un libro che si chiama la Riviera del sangue: è un titolo dantesco, si parlava prima di Dante, preso dal dodicesimo canto dell’Inferno. Sintetizzava quali erano i due grossi torrenti carsici della mia vita, la Riviera Ligure, con tutto quel portato di memorie di cui vi ho in qualche modo accennato, e il sangue, il sangue come sete di verità e anche il sangue sparso. Non sto a dilungarmi troppo, mio padre fu anche rastrellato, io sono cresciuto con i racconti del suo salvataggio miracoloso da un rastrellamento. Ora penso la poesia come ricerca di contemplazione, vi dico un altro aneddoto che è legato al tema di questa sera delle stelle. Dopo tanto tempo sono riuscito ad andare, alcuni anni fa, al planetario di Milano. È stata un’esperienza magnifica, mi riallaccio al tema della meraviglia di cui diceva Davide. Alcune volte viene snobbato, il planetario di Milano, perché magari considerato luogo per le scolaresche o per il primo appuntamento amoroso, dove il ragazzo non fallirà mai perché in qualche modo riuscirà a sedurre in modo imperdibile la sua donzella. Io ero rimasto conquistato dal titolo di quella sera, era “Misteri e leggende della Via Lattea”. Si era parlato della Via Lattea come di un fiume incendiato oppure un grande fiume che separava due amanti, una tradizione cinese per cui sono separati per sempre e si guardano l’uno con l’altro e non riescono a parlarsi, oppure, quella che per me fu la suggestione più forte, la grande strada dei morti, in cui c’è il collegamento tra questo mondo e l’altro mondo. Messe insieme, queste immagini potete capire possono accendere quella che è la mente, l’immaginario di un poeta.
Ricordo che quando venne oscurata la sala provai questa emozione stupenda di vedere la volta celeste, ma qualcuno vicino a me lasciò il cellulare acceso scatenando le ire più funeste della persona che stava facendo l’introduzione al planetario, alla Via Lattea, ecc., dicendo: “Ecco il primo errore, la cosa che ci dimentichiamo, l’inquinamento acustico e luminoso. Non si può neanche incominciare una conferenza sulle stelle con questi rischi”. Mi ha dato l’idea, la riflessione su quanta necessità abbiamo oggi di contemplazione. Sono ritornato da poco da una vacanza in Puglia e mi ha colpito vedere che tra gli oggetti più concupiti sulle spiagge c’erano i carica batterie portatili dei cellulari, in modo che ognuno di noi non possa stare con il rischio di mezz’ora con la batteria leggermente meno carica del cellulare. Mi ha colpito quest’idea, possibile che ognuno di noi non riesca a trovarsi con lo spazio di intimità per stare un po’ solo con se stesso, contemplando l’interno? Quanto è importante riscoprire al giorno d’oggi quella che Antonio Riccardi, un poeta importante della generazione di Davide, chiama “veglia interna”? Qualche anno fa qui al Meeting ci fu un grosso incontro e una grande mostra su Pasternak, forse ve la ricordate. Ecco, nel Dottor Zivago c’è uno dei momenti più interessanti, in quanto il protagonista sviscera la propria anima contemplando le stelle. Ed è una cosa che mi ha colpito anche leggendo e facendo l’editing per I più non ritornano, il diario di Eugenio Corti, forse qualcuno ne ha sentito parlare. Vi descrive il suo inferno bianco, la sua anabasi di ritorno dalla Russia. Racconta in uno dei suoi passi più duri, quando s’ammordeva la coperta dal freddo e aveva le ossa che sbattevano dal freddo e riusciva ad alzare la testa e vedere questo manto stellato, meraviglioso. E in quell’inferno in cui c’era spazio solo per l’odio, per l’inferno, per l’orrore – I più non ritornano è un libro durissimo scritto nel ’43-44, appena lui torna, è il primo diario che abbiamo della Russia in cui, con uno stile che ricorda quello di McCarthy, per dire la sua essenzialità, un libro quasi profetico nella sua essenzialità – quest’uomo, guardando quel cielo stellato, si ricordava che c’era una bellezza più grande che poteva sorreggerlo, magari guardando quel cielo stellato. Quell’uomo chiamato Eugenio Corti prese su di sé il compito di scrivere, che è una delle cose che lo ha tenuto in vita, in quell’inferno bianco.
Sapete che uno dei motivi, si dice, del tasso di sopravvivenza più alto dei poeti nei gulag non è tanto dato dal fatto che fossero forzati, ovviamente, ma che avevano alcune volte delle storie bellissime da raccontare, per cui anche i più cattivi al centro dei gulag volevano che i poeti fossero vivi, li nutrivano di più. Certo, era un problema quando finivano le storie, che avevano forza interiore, un fuoco dentro che era capace di portarli avanti. Nel carteggio bellissimo tra Varlam Ŝalamov e Pasternak, Ŝalamov racconta come lui sia riuscito a resistere nell’inferno bianco della Kolyma per anni e anni, soltanto con il sogno di poter tornare a scrivere con una matita una poesia. E ci dice qualcosa di grande, di cosa possa essere ancora oggi la poesia. E sulle stelle, ancora, che se alziamo la testa al cielo ci aiutano a contemplare, a entrare in noi stessi. Ma le stelle ci aiutano, credo, anche a essere più umili: questo può essere un bell’insegnamento delle stelle, perché siamo di fronte a dei paesaggi, delle geometrie, delle storie straordinarie, e in qualche modo ci sentiamo parte anche noi di questi paesaggi, una piccola parte.
Quest’anno, una delle avventure intellettuali più belle che mi è capitato di fare è stato incontrare intellettualmente Raymond Carver. Ci sono arrivato attraverso il libro di Padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, ha fatto un libro bellissimo che vi consiglio sul tema della frontiera. E citava ad un certo punto Raymond Carver, più come poeta che come narratore. Carver è noto universalmente come l’autore delle short stories, di brevi racconti, e da poeta mi sono incuriosito, ho detto qua non me la racconta giusta, Carver non fa parte del canone dei poeti. L’opera omnia di Raymond Carver porta il titolo Orientarsi con le stelle. Ed è un libro che ha questa connotazione dell’umiltà che mi è piaciuta un sacco: vi leggo un testo, poi vi leggo qualcosa di mio, per capire come un poeta possa lavorare e toccare il cielo e toccare le stelle. Figurativamente, ovviamente, toccare le stelle per modo di dire, usando degli strumenti quasi da falegnameria, mi verrebbe da dire. Carver ha avuto una vita da film, durissima, tormentatissima, nasce praticamente nello Stato di Washington, isolatissimo, è un bambino che vede intorno a se un papà che ha le dita tagliate dalla segheria e tanti suoi amici lo stesso, povero, e ha questo sogno incontenibile di scrivere. Incomincia a mandare i suoi raccontini a quindici, sedici anni, per corrispondenza, dall’altra parte degli Stati Uniti, se non ricordo male era New York o poco ci mancava, attendendo un giudizio, che qualcuno gli dicesse: hai stoffa, hai grana oppure no. E uno dei suoi ultimi racconti, non a caso quindi c’entra con l’incontro di stasera, si chiama La stella polare: racconta di quando lui faceva lavoretti da nulla e un signore anziano lo vide in casa a curiosare in una biblioteca, la sua libreria. Raymond Carver da ragazzo non aveva mai visto una libreria, pensava che le librerie fossero soltanto appannaggio delle biblioteche, a casa non aveva mai visto una libreria ed era rimasto incantato da una rivista di poesie. Era lì e questo anziano signore, di cui non sappiamo il nome, gli regalò la rivista e gli disse: “Dai, magari un giorno sarai tu a scrivere qui sopra”. Lui non ci aveva mai pensato, quell’incontro gli cambiò la vita, in qualche modo. E vi leggo una poesia che amo molto di Carver, tratta appunto da Orientarsi con le stelle. Si chiama Un taglio di capelli. Lui la scrive pochissimo tempo prima di morire, ha un tumore, sa di averlo ed è in una stagione, nonostante questo, molto felice della vita perché ha lasciato dietro di sé ogni sorta di orrore. È passato per un matrimonio finito male, per un viaggio nell’alcool bruciante, per tanti insuccessi. Il giorno in cui la sua famiglia dichiarò fallimento e lui era veramente sul lastrico più totale, gli arrivò il contratto con la casa editrice, quel contratto gli avrebbe cambiato la vita. Capite, a volte, cosa può succedere nella vita. Vi leggo questa poesia, lui sta per farsi tagliare i capelli in casa, credo che già non potesse più uscire per la malattia, dalla donna Tesgallareg, una poetessa che ha incontrato e che gli ha donato dieci anni di felicità, a suo dire, completa.
Tante di quelle cose impossibili sono già
successe in questa vita. Lui non ci pensa su
due volte quando lei gli dice di prepararsi:
fra poco gli taglierà i capelli.
Si siede sulla sedia nella stanza di sopra,
quella che, scherzando, chiamano
la biblioteca. C’è una finestra lì
che dà una buona luce. La neve viene
giù là fuori come i fogli di giornale si raccolgono
attorno ai suoi piedi. Lei gli avvolge un grande
asciugamano attorno alle spalle. Poi
tira fuori le forbici, il pettine e la spazzola.
È la prima volta che stanno soli
insieme da un bel pezzo – senza che nessuno
debba andare in qualche posto o abbia bisogno
di fare qualche cosa. A parte quando vanno
a letto insieme. Quel tipo di intimità.
O fare colazione insieme. Un altro tipo
d’intimità. Tacciono entrambi e si fanno
pensierosi mentre lei gli taglia i capelli,
li pettina e poi li taglia ancora.
Fuori, la neve continua a cadere.
Ben presto la luce comincia a staccarsi
dalla finestra. Lui guarda la terra, smarrito
e assorto nel tentativo di leggere
qualcosa dal giornale. Lei dice:
"Alza un po’ la testa". E lui ubbidisce.
Poi gli fa: "Guarda un po’ che te ne
pare". Lui va a guardarsi
allo specchio e gli pare che vada bene.
Proprio come piace a lui
e glielo dice.
È solo dopo, quando accende la luce
del portico per scuotere l’asciugamano fuori
e vede i riccioli e le ciocche di
capelli bianchi e scuri volare via
e posarsi sulla neve,
che capisce una cosa: è
un adulto ormai, un vero adulto,
anzi un uomo di mezz’età. Quando era ragazzino,
e andava con il padre dal barbiere,
o anche dopo, da adolescente, come
avrebbe mai potuto immaginare che la vita
gli avrebbe un giorno concesso il privilegio di
una bellissima donna con cui viaggiare,
dormire e fare colazione insieme?
E non basta – una donna che in silenzio
gli avrebbe tagliato i capelli un pomeriggio
in una città buia sotto la neve
a tremila miglia di distanza da dove era partito.
Una donna che poteva guardarlo
dall’altra parte del tavolo e dirgli:
"E’ ora di metterti sulla poltrona
del barbiere. È ora che ti fai fare
un bel taglio di capelli".
E l’ultimo frammento che scrive sul letto di morte Carver, è questo ed è molto indicativo.
“Hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto? Sì. E che cos’è che volevi? Potermi dire amato, sentirmi amato, sulla terra”. Vi leggo qualcosa di mio, invece. Partendo proprio dalla fine, dalle poesie su cui sto lavorando in questi giorni. È un libro che per adesso non ha ancora un titolo, ma che vorrei che in qualche modo avesse a che fare appunto con le stelle. E non vi spaventate, ma credo che uno straordinario campionario di immagini per un poeta possano essere anche i grandi cimiteri. Io sono genovese e sono cresciuto tra le suggestioni del cimitero di Genova. È una città dei morti stranissima perché ci sono monti, vallette, ruscelli, statue bellissime, è come entrare nella macchina del tempo e incominciare a dialogare con la storia, la storia più comune, la storia eroica di alcuni, con le stelle, in che senso le stelle? Vengono da tutto il mondo a studiare le tombe del cimitero di San Dionigi a Genova. C’è un tema che mi è particolarmente caro, che è quello della giovinezza rapita, di ragazze bellissime che portano lo sguardo volto verso il cielo. Il tema della bellezza infranta, dei sogni non realizzati. E c’è uno scultore che so che ama molto anche Davide, Arturo Martini, che lavorò proprio su questo tema, delle ragazze che avevano la testa inclinata a guardare le stelle, a guardare il cielo. Vi leggo due frammenti di questa poesia, sono molto brevi, io amo scrivere poesie piuttosto brevi.
Arturo Martini 1
“Sono bellissime e sfuggenti le donne nascoste tra i cipressi sugli spalti del cimitero inglese. Il poeta sedeva tra le arche cercando i loro occhi tra le stelle. Diventava triste sognante una scultura di Arturo Martini”.
Arturo Martini 2
“Lo scultore indagava il marmo, estraeva uomini dalla pietra, contando le declinazioni della seta. Giganti vestiti di pori, la pisana che dorme sul cuscino. Otri che non fermano la fiamma. Figure in ricerca con la fronte al cielo, come un cieco in ascolto chiamavano per nome le stelle”.
E chiuderei l’intervento con due poesie: una fa parte della Riviera del sangue, l’altra di Bisanzio.
“Si ritira il sipario della pioggia e appare la schiena ricamata del duomo. Allo splendore di una donna, l’ultimo anno del liceo, mentre le seduzioni della guerra mietono ogni memoria sogno l’Europa delle cattedrali e della luce”.
L’ultima che vi leggo è la chiusura della Corte di Bisanzio, che è questo viaggio di un uomo attraverso i grandi collassi della storia che possono essere immaginari: Atlantide che sprofonda nei mari, Bisanzio che viene distrutta il 29 maggio 1453, città distrutte dalla Seconda Guerra Mondiale. L’ultima sezione è tutta incentrata nel dialogo con le stelle, con il Libro dell’Apocalisse. E il viator che ha attraversato tutte le fasi della storia torna per l’ultima volta a contemplare l’incendio delle stelle in cielo. Il protagonista è questo poeta che attraversa la storia.
“Si distese sulla piana, circondato dal Tigri e dall’Eufrate, da mille sorgive d’argento. Iniziò a ordinare le costellazioni, a risalire la vertine della polare secondo il riferimento dei carri. Contemplava la miriade dei volti, le ossa del libro di Ezechiele, i grani della sabbia del mare. Si asciugarono le piaghe e i tessuti ripresero vigore. Fasciando a nuovo, quanto era stato. Era conclusa l’alternanza tra sogno e sangue. Contemplava infine l’epicentro e la bellezza del fuoco”.
Grazie.
DAVIDE RONDONI:
C’è qualche altra domanda o osservazione? Io farei una brevissima domanda a tutti e due i nostri interlocutori, intanto ringraziandoli per il lavoro che hanno fatto. La prima domanda al professor Benvenuti. Ci ha detto di alcuni problemi, no? Ci stiamo muovendo, siamo dentro a una cosa che si muove, che dobbiamo studiare, quindi c’è un punto di vista interno, il vuoto non è vuoto, insomma, alcune cose su cui i fisici, vostri colleghi, stanno lavorando. Ma se dovesse dire per la sua esperienza personale qual è la cosa che la sta affascinando di più, che la sta colpendo di più come questione che sta studiando, che altri studiano e a cui lei partecipa, qual è l’elemento che oggi la sta inquietando di più?
PIERO BENVENUTI:
Più che inquietando, mi sta emozionando sempre più il pensiero che questo quadro dell’evoluzione dell’universo che emerge sempre più, con sempre maggiori dettagli, e quindi non possiamo più tornare indietro. Ho menzionato molti problemi che sono aperti e che gli scienziati cercheranno di risolvere. Però è un po’ come la rivoluzione copernicana. Dopo che si è visto che è la Terra che gira intorno al Sole, e non il Sole intorno alla Terra, non si può più tornare indietro. Anche se dal punto di vista matematico posso costruire un modello nel quale la Terra è ferma e tutto le gira intorno, dal punto di vista della realtà non posso più ammettere che il Sole sia al centro del Sistema Solare. E così non posso più ammettere che l’universo non sia in evoluzione. Ricordo che negli anni ’40-’50, fino agli anni ’60, c’è stata una fortissima discussione sul fatto che fosse veramente in evoluzione l’universo: c’era un modello alternativo che era quello della creazione continua e dell’universo statico. Oggi non si può più tornare indietro. Allora, quello che emerge da questo nesso di dati sempre nuovi, è una struttura che evolve in maniera unitaria. Ovunque io guardi nell’universo, vedo le stesse strutture, vedo gli stessi tipi di stelle, non sono le stesse stelle ma sono della stessa natura, è come se guardassi un prato verde: i fili d’erba sono diversi l’uno dall’altro ma sono tutti fili d’erba. Quindi, questa unitarietà di evoluzione mi fa riflettere sul fatto che io conosco l’uomo solo su questa Terra, conosco la presenza e l’emergere della coscienza solo su questa Terra. Ma tutto il resto, no, a partire dai pianeti extra-solari, che ormai so essere una normalità. Tutte le stelle hanno dei sistemi planetari che ruotano intorno a loro. Quello che io mi sto chiedendo: quali sono le conseguenze per me, per la mia visione della persona nell’universo, pensare che la coscienza sia presente nel cosmo, che non sia solo limitata su questa Terra? So già che non potrò mai comunicare con eventuali coscienze aliene per motivi molto pratici, molto banali, le distanze, i tempi di comunicazione che non sono infiniti ma devono rispettare i limiti della velocità della luce: non potrò mai entrare in comunicazione. Ma solo il pensiero che sia plausibile che la coscienza sia emersa anche in altri luoghi dell’universo, è qualcosa che mi affascina e che mi fa chiedere a me stesso che cosa cambia nella mia visione questa nuova rivoluzione copernicana, che sposta il centro della coscienza dalla Terra a tutto l’universo.
DAVIDE RONDONI:
Bene, grazie, infatti questo passaggio tra la materia e la coscienza è una delle cose più affascinanti, perché abbiamo detto tutto è materia. C’è una domanda?
PIERO BENVENUTI:
Se ci sono delle correlazioni, sono correlazioni puramente simboliche e metaforiche: non riesco a vedere delle correlazioni reali, nel senso di connessioni fenomeniche tra qualcosa che è nel cielo e qualcosa che avviene qui, ma dal punto di vista metaforico posso anche immaginarlo. Però non ho mai meditato a lungo su questo, quindi me la cavo anche più rapidamente dicendo che non so cosa rispondere.
DAVIDE RONDONI:
E sul vuoto?
PIERO BENVENUTI:
Anche quello è di nuovo una considerazione di tipo simbolico-metaforico. Quando dico che il vuoto non esiste è perché lo spazio è sempre permeato di qualcosa, di un campo gravitazionale. Cioè, non posso immaginarlo se privo di qualità e quindi l’opposto dello spazio è il nulla, ma allora rientriamo in un ragionamento di tipo filosofico e non più scientifico. Io mi devo limitare al mio campo scientifico e nel campo scientifico dico che lo spazio non può essere vuoto, è sempre costantemente pieno di qualcosa.
DAVIDE RONDONI:
Io chiederei ad Alessandro se ci legge una poesia per finire.
ALESSANDRO RIVALI:
Fa parte della stessa sezione di cui parlavo prima, di questo capolinea della storia, però un capolinea azzurro, dopo tanti cataclismi e tanto rosso di sangue versato. Ed è anche questo, come dicevo, ispirato all’Apocalisse. “Gli uomini lasciavano le case, correndo sul mare di cristallo, dove spirava un vento originario. Così scendeva la città nuova a fare superfluo l’arco del Sole. Non più acque stagnanti o cadaveri rilasciati dai coralli, ma gioia di rivedere la sposa. Collirio sulla polvere degli occhi”.
DAVIDE RONDONI:
Bene, ringrazio il professor Benvenuti e Alessandro Rivali. Chi è interessato alla poesia, venga alla serata di domani dedicata a Mario Luzi. Leggeremo insieme le sue poesie con la musica di un violino, domani alle 21.30. Mentre invece fra due giorni, se non sbaglio, c’è un prossimo appuntamento qui, sempre tra poesia e scienza, con altri due ospiti, se siete interessati potete tornare. E, ripeto, chi è interessato ad alcune altre iniziative di poesia può lasciare il nome fuori e l’indirizzo email alla signorina Iuliano, che si aggira fuori con un foglio. Grazie per l’attenzione, grazie ancora ai nostri ospiti.