Chi siamo
ADOLESCENTI E GIOVANI NEL DISAGIO: UNA DOMANDA PER CHI EDUCA
In diretta su Famiglia Cristiana, Play2000
Organizzato da Compagnia delle Opere (educazione)
Luigi Ceriani, psicologo e psicoterapeuta, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano; Federico Pichetto, direttore scuola di formazione teologica, diocesi di Chiavari. Modera Emiliano Monzani, psichiatra e psicoterapeuta, direttore SC Psichiatria 1, Asst Bergamo Ovest
L’emergere del disagio negli adolescenti e nei giovani è espressione di una crisi più ampia, legata al cambiamento epocale degli ultimi decenni e ai fattori educativi, sociali e culturali connessi. La prevenzione dei disturbi non è solo un tema clinico, ma riguarda la comunità, la famiglia, la scuola, la rete sociale. Più che un discorso generale sul tema, è interessante l’esperienza di chi è in campo, educa, accompagna, cura i ragazzi, con il loro bisogno di significato, spesso in ombra, nella zona grigia tra disagio e disturbo. L’incontro con il giovane pone inoltre la questione della competenza, che vale sia per il professionista disponibile sia per ogni figura di adulto capace di ascolto.
ADOLESCENTI E GIOVANI NEL DISAGIO: UNA DOMANDA PER CHI EDUCA
ADOLESCENTI E GIOVANI NEL DISAGIO: UNA DOMANDA PER CHI EDUCA
Organizzato da Compagnia delle Opere (educazione)
Giovedì 22 agosto 2024 ore 14:00
Arena Cdo C1
Partecipano:
Luigi Ceriani, psicologo e psicoterapeuta, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano; Federico Pichetto, direttore scuola di formazione teologica, diocesi di Chiavari.
Modera:
Emiliano Monzani, psichiatra e psicoterapeuta, direttore SC Psichiatria 1, Asst Bergamo Ovest
Vittadini. Buongiorno a tutti, vedo che siete molto numerosi. “Adolescenti e giovani nel disagio, una domanda per chi educa”. Questo è il titolo dell’incontro, che nasce dalla collaborazione tra Medicina e Persona e la Federazione Opere Educative della CDO. Questo incontro fa parte di un percorso che prevede poi, a seguire, un secondo momento, un workshop dedicato ad esperienze in atto che si confronteranno tra loro nell’ambito del lavoro territoriale che sperimentano, e che abbiamo intitolato “Il grido dei ragazzi: come risuona nella comunità”. L’incontro di oggi nasce da un’esigenza, da una domanda: quella di capire come stare di fronte ai ragazzi, alla condizione, a volte di malessere, che oggi sperimentano così diffusamente. Medicina e Persona ha un accento sulla persona e quindi sulla salute della persona, ma la salute va al di là dell’aspetto clinico e coinvolge il nostro modo di vivere, in particolare il cambiamento d’epoca attuale. Coinvolge la persona in relazione, nelle sue relazioni: i ragazzi, ad esempio, nei loro ambiti di aggregazione, ma anche in rapporto con la scuola, con la famiglia, quindi con l’adulto, sia esso educatore, genitore, professionista, insegnante. L’adulto è in campo e non può ignorare, non può nascondersi, ma non può neanche strafare di fronte al problema del ragazzo e all’incontro con lui. Questo ci pone anche il tema forte della competenza, che vale per tutti. La competenza di chi incontra, ed è quotidiana, questa esperienza di chi incontra il giovane, l’adolescente. Questi sono bisogni e sono problemi che non possiamo dare per scontati se vogliamo fare un lavoro di prevenzione e di cura. Emiliano, a te.
Monzani. Grazie. Grazie, Giorgio, per avere riassunto il cammino che abbiamo fatto come gruppo di Medicina e Persona dentro agli aspetti sociali e psicologici del disagio che manifestano le persone che curiamo, e grazie per averci anche aiutato ad arrivare fino a oggi, fino a questo punto. Inizierei il momento di oggi, che è stato così ben introdotto da Giorgio, anche se non è elegantissimo citarmi, citando il titolo di un capitolo della mia tesi di laurea, ahimè, anno domini 1988, si intitolava “Adolescenza abbandonata”. Adolescenza abbandonata perché, in quel periodo, non era molto attenzionata. Non c’erano pubblicazioni scientifiche, non ce ne si occupava attivamente. Gli adolescenti non arrivavano neanche all’attenzione, io sono un medico, sono uno psichiatra, non arrivavano alla nostra attenzione con l’impeto con cui arrivano oggi. Io mi ricordo le prime guardie in ospedale, di notte, quando c’erano uno o due adolescenti all’anno: era un anno molto sfortunato. Adesso ne arrivano uno o due per notte, minimo, con quadri anche molto molto importanti e molto gravi, molto preoccupanti. Come si è arrivati a questa maggiore attenzione? Oggi l’adolescenza è tutto, meno che abbandonata: se ne parla, se ne discute, è all’attenzione di tutti. Io credo per due grossi motivi: uno, perché c’è stato all’interno della ricerca e del mondo dei servizi un’enfasi molto forte sull’attenzione agli esordi delle patologie che curiamo. Ci si è accorti che i nostri servizi arrivavano a pazienti anche molto gravi 10-15 anni dopo l’esordio di patologie, e quindi era importantissimo riuscire a, come per tutte le branche, forse, della medicina, ma in termini preventivi, arrivare a riconoscere il più in fretta possibile. Oggi ci si chiede non solo di intercettare il disagio grave quando si manifesta, ma di arrivare a cogliere quali sono i segnali che sono premonitori di una transizione a un disturbo grave, la ricerca dei cosiddetti stati mentali a rischio. Quindi tutto questo ha portato a una maggiore attenzione di chi lavora e di chi studia ai sintomi cosiddetti prodromici. Se andate su Medline, su tutte le banche di ricerca su internet, anno per anno, vedete che dalla fine del secolo scorso la ricerca sugli adolescenti e sugli aspetti prodromici delle malattie è esponenzialmente aumentata e si è accresciuta. E un po’ mi viene da dire: gli adolescenti la scena se la sono presa, perché, dicevo, da un’attenzione clinica che non aveva delle richieste così imponenti, siamo arrivati invece a segnali di disagio e di sofferenza molto franca che sono sotto gli occhi di tutti e che arrivano all’attenzione addirittura dei media e di tutta la popolazione. Perché tutto questo? Perché questa sofferenza, perché questo disagio? È un po’ il tema della giornata, del momento che abbiamo organizzato oggi, e lo facciamo con l’aiuto di due esperti, di due persone che su questo ambito lavorano e faticano da anni, e ci mettono la passione e tutta la loro competenza. Io comincio con Federico Pichetto, Don Federico, Don Federico che è direttore della scuola di formazione teologica della Diocesi di Chiavari, ma è qui anche e soprattutto perché è un insegnante, è un insegnante di religione in un istituto omnicomprensivo: liceo classico, liceo scientifico, liceo linguistico. Per cui questo tema della prevenzione, prevenzione in termini non tanto più di intercettare un disagio franco, conclamato, grave, non più di intercettare i segnali clinici, ma il tema di oggi è come fare prevenzione per evitare che tutto questo arrivi poi all’attenzione clinica, quali sono gli ambiti dove forse manca qualcosa che i nostri giovani cercano o che arriva in modo distorto. Per questo ci siamo rivolti anche a un educatore. E allora, Don Federico, che cos’è questo disagio oggi degli adolescenti? Da dove arriva? Perché sono delusi? Che tipo di risposta forse si aspettano?
Pichetto. Buonasera, il tentativo è quello di fare un piccolo percorso, un contributo in quattro passaggi che possano aiutare. Il primo passaggio è capire insieme brevemente il cambiamento epocale degli ultimi decenni. Io vorrei partire da un libro, *L’invenzione dell’individuo* di Larry Siedentop, che sostiene che il liberalismo non sia soltanto un’invenzione nata in seno al cristianesimo, ma rappresenti quell’invenzione particolare per cui, in un processo di secoli, gli spazi della vita sono diventati progressivamente autonomi tra di loro. Cioè, mentre prima la vita era tutta unita e tutta condivisa, il fatto che sia nato un movimento che abbia messo in discussione questa unità ha generato una progressiva suddivisione, e questo ha assegnato evidentemente alla sfera emotiva e alla sessualità un’autonomia che prima non era mai stata pensata. La sessualità si è emancipata da ogni forma culturale conosciuta in Occidente negli ultimi 1600 anni e le emozioni, che per secoli sono state trattate con vergogna — mia nonna mi diceva “non si deve vedere che ridi” — sono state portate alla luce e quindi condivise, addirittura esibite. Chi oggi è giovane si trova in questo punto della storia. In un classico della letteratura psicoanalitica, *La cultura del narcisismo*, Christopher Lasch afferma, nel ’79, che gli uomini e le donne affrontano oggi i rapporti personali decisi a manipolare le emozioni altrui, proteggendo se stessi da ogni possibile trauma emotivo, mantenendo di fondo un distacco cinico. A mio giudizio questo è il contesto, il contesto in cui noi ci troviamo è un contesto in cui la vita umana, la vita affettiva, la vita emotiva, la vita sessuale è come se non si parlassero più e quindi quello che rimane sul tavolo è un ultimo cinismo, un ultimo uso reciproco che ciascuno fa dell’altro perché non si fida più dell’altro. Un io spappolato non è più capace di guardare in maniera unita la vita dell’altro. E allora? Che cos’è questo disagio? Perché parliamo di disagio? Qual è la percezione della realtà che i ragazzi vivono e che ciascuno di noi vive? Una precisazione: quando parliamo di “ragazzi” è una categoria insopportabile, insopportabile perché i ragazzi non esistono, sono persone che hanno un’età diversa dalla mia e per clima culturale e sociale spesso e volentieri sono cresciuti in un brodo simile al mio. Certo, col variare degli anni questo brodo cambia, ma pensare di poter relegare l’adolescenza a un problema anagrafico e non al problema della vita è tradire l’adolescenza stessa. E allora quando io penso a cosa vuol dire la percezione della realtà, quello che mi viene in mente è che queste persone, queste persone che hanno 15-20 anni, fanno quella che in un libro del 2020, *L’intelligenza dinamica*, afferma: “il cervello è pieno di vita. Ogni volta che scopriamo qualcosa, l’indirizzo di un ristorante o un pettegolezzo che ci incuriosisce, il nostro cervello cambia fisicamente”. Questo accade anche di fronte a un voto a scuola, a un insuccesso affettivo, perché noi cambiamo attraverso il rapporto con la realtà. Il nostro modo di percepire il reale non è riducibile alle coordinate storiche o psicologiche in cui siamo nati, ma si forma con l’esperienza. E qual è questa esperienza? Che cosa quindi caratterizza la percezione di un ragazzo? Ho trovato questa definizione bellissima di David Rieff, che ha lavorato anni sul tema della coscienza storica, dice che “è possibile che non ci sia altra memoria per la nostra mente che quella delle nostre ferite”. La prima percezione di un ragazzo è quella delle ferite che uno si porta dietro. Oggi più che mai è come se improvvisamente una generazione avesse il sussulto di consapevolezza di essere ferita, trattata ingiustamente, abbandonata, rimasta sola. È l’esperienza delle nostre ferite che determina la percezione di noi stessi. Si potrebbe dire che in un contesto di libertà assoluta, dopo una rivoluzione sessuale che ha reso autonome tante parti prima condizionate dalla cultura e dalla società, arriviamo al punto per cui la nostra storia spesso inizia con quella delle nostre ferite. Sono le nostre ferite che costituiscono l’immaginario e il sentimento della realtà. Essere stato abbandonato — parlo della mia persona — ha chiaramente alimentato il mio approccio alla vita, pieno di paura. Io ho paura ancora oggi, dopo 40 anni, che gli altri mi abbandonino. Aver vissuto certe difficoltà ha amplificato questa cosa e l’ha portata al fatto di pensare che io sono irrimediabilmente solo. Io ho 40 anni e penso di poter essere abbandonato e di essere solo quando su questa cosa ci lavoro da 27 anni. Pensate cosa vuol dire per un ragazzo, cosa vuol dire per un ragazzo un genitore che chiude la porta di casa. Questo è il punto. Le ferite sono il primo modo con cui noi percepiamo noi stessi. Questo mi ha portato spesso a essere un mendicante d’amore a buon mercato. Credo che per tutti sia chiaro che non è possibile guardare davvero un ragazzo se non a partire dalle ferite di quel ragazzo e contemporaneamente dalla nostra ferita, perché le loro ferite risvegliano le mie ferite. Ogni volta che io entro in classe e mi viene raccontato qualcosa o vengono nel mio ufficio e mi raccontano qualcosa o vedo qualche scena o adocchio qualche scena o percepisco qualcosa, sono le mie ferite a essere ridestate, perché te e io sperimentiamo lo stesso dolore che ha nomi e percorsi diversi, ma non è tutto qui. C’è una poesia molto bella, *Alla morte non piacciono gli scherzi*, scritta da un autore islandese, Stefánsson — sono tutti figli di vichinghi. L’autore dice: “Devi dare un titolo alla vita che hai vissuto. Qualcosa di corto, orecchiabile, efficace, che stia tutto nel trattino in mezzo alle date di quando verrai deposto sottoterra. Devi trovarlo quel titolo. Può anche avere la forma del rimpianto o il sapore della felicità. Un titolo che dica come hai vissuto, se hai vissuto. Devi dare un titolo alla tua vita”. Nell’uomo, e questo va detto, non ci sono solo le ferite. Nei ragazzi non ci sono soltanto i traumi, le fatiche. In tutti noi c’è il bisogno di dare un titolo all’esistenza. C’è il bisogno che questa nostra esistenza non vada smarrita, perduta, anonimamente gettata nella storia senza alcun valore. Nella vita non ci sono solo le ferite, ci sono anche le promesse. Noi sentiamo di essere stati molto segnati dai comportamenti altrui, ma percepiamo anche di essere fatti per qualcos’altro, qualcosa che è di più delle nostre ferite. C’è una serie uscita nel ’22, la prima stagione era nel ’22, adesso nel ’24 la seconda, che mostra benissimo questo secondo aspetto. La serie è prodotta da Amazon Prime e si intitola *Prisma*. È la storia di due gemelli, Andrea e Marco, che nella Latina dei nostri giorni devono fare i conti con un passato che li ha segnati profondamente, ma anche con sogni, idee e desideri. La chiave di questa serie è proprio nel rapporto fra i due gemelli: essi sono due ma sono uno, sono come due parti della stessa persona che costruiscono le cose migliori solo quando riescono a parlarsi. Ferite e promesse non sono mai in antitesi, ma chiedono di incontrarsi, di dialogarsi. In un frangente storico rivoluzionario in cui le emozioni sono esibite e molte parti di noi sono diventate autonome, senza patria, i ragazzi e ciascuno di noi costruiscono il mondo a partire dalle ferite vissute. Quel mondo però sarebbe sbilanciato se dimenticassimo che ogni ferita, ogni ferita parla con una promessa. Un ragazzo di quinta qualche anno fa era stato gravemente bullizzato. Ogni volta che entrava nel mio ufficio era un pianto continuo. Le cose hanno iniziato a cambiare quando una volta, per caso, ha iniziato a raccontarmi i suoi progetti e i suoi desideri. Ferite e promesse devono parlarsi. È questa la terapia capace di costruire uno spazio nuovo in cui far fiorire, anche nel disagio, una possibilità. Quanto abbiamo appena detto ci porta inevitabilmente a una domanda. Come è possibile che in una persona le ferite e le promesse si parlino? Come possiamo, quando arriva un ragazzo, non solo vedere le ferite ma anche le promesse? Come possiamo, quando parliamo con dei ragazzi, non solo vedere i loro sogni ma anche vedere le loro ferite? Che ruolo ha l’adulto nella costruzione del dialogo tra ferita e promessa? Nicoletta Cinotti è una psicoterapeuta e analista bioenergetica che ha scritto nel 2023 un libro dal titolo eloquente, *Genitori di se stessi*. In esso vengono esaminate tutte le varie fasi della metodologia chiamata Reparenting. Tale metodologia parte dal presupposto che in noi ci siano ferite e promesse. Nella misura in cui impariamo a mettere in dialogo le nostre ferite, le nostre promesse, diventando genitori di noi stessi, siamo conseguentemente capaci di aiutare i ragazzi che incontriamo. Diventiamo significativi per il loro percorso. Io, vedete, sono fortemente convinto che quello che colpisce gli studenti della mia scuola che incontro quotidianamente non sia una qualche forma di particolarità mia, ma il percorso che continuamente sto facendo su di me per ripararmi. Siccome io mi sto riparando, loro capiscono che ci si può riparare per dare dignità a quelle promesse e a quelle ferite per troppo tempo dimenticate. Troppo spesso adulti irrisolti si arrogano il diritto di risolvere la vita degli altri. Io ci tengo a precisare che il contrario di irrisolto non è risolto — io non sono risolto — bensì in cammino. Solo un adulto in cammino può essere davvero utile al cammino dell’altro. I ragazzi aspettano adulti così, desiderano adulti che li comprendano non perché hanno letto tutti i libri del mondo, ma perché sono a lavoro su di sé e sulla propria umanità. Pensate, Taylor Swift nella canzone *King of My Heart* esprime in modo efficace questa attesa: “All’improvviso e tutto insieme mi sono resa conto che eri tutto ciò che stavo aspettando”. Non un amore qualsiasi, ma un amore capace di fare i conti con tutto me stesso. Taylor Swift è la cantante che a livello mondiale ha saputo di più dare voce a intere generazioni. L’adulto è colui che fa i conti con sé. La comunità è il luogo delle persone che fanno i conti con sé. Non c’è spazio per comunità ideologiche che non possono curare il disagio del cuore, ma c’è spazio solo per comunità cantiere. Una scuola o diventa questo cantiere dell’umano o imprimerà all’educazione un tratto sentimentale o identitario, e questo finirà per esasperare e amplificare i problemi e i disagi dello studente. Starà bravo negli anni che è con voi, ma quando uscirà il test sarà che non sta in piedi. Concludo questo passaggio con una domanda per me centrale: qual è il test che uno sta lavorando nel cantiere dell’umano? Qual è il segno che uno sta facendo un’esperienza di adulto come quella che vi ho descritto? Romain Gary, un eroe della guerra francese, diplomatico, viaggiatore, cineasta, vincitore del Goncourt, il 2 dicembre dell’80 si sparò un colpo in testa. Il fatto, benché tragico, non sorprese la comunità parigina, perché Gary era un uomo finito, al capolinea, senza più niente da dire, non scriveva quasi più nulla. Pochi mesi dopo venne pubblicato un romanzo di Émile Ajar, il romanziere più promettente della Francia negli anni settanta, vincitore anch’egli del Goncourt. Il colpo di scena, così importante per quello che vi sto dicendo, è che si scoprì che la pubblicazione di tale romanzo era postuma, perché Romain Gary ed Émile Ajar erano la stessa persona. Mi sembra davvero incredibile questa storia, al di là dei particolari della cronaca, perché indica che dietro ogni storia ce n’è sempre un’altra che non conosciamo. Siamo nel cantiere dell’umano quando scorgiamo dietro la nostra storia le tracce di un’altra storia, quando adocchiamo dietro le tante storie e tanti drammi dei nostri ragazzi un’altra storia. Ridurre la vita di una persona agli errori che ha fatto, ridurre la vita di una persona a quello che ha combinato, non riconoscere nel vissuto della persona un’altra storia, diventa il miglior modo per neutralizzarne le promesse e il futuro. Ecco, la prospettiva che ho cercato di tratteggiare oggi è quella che presuppone che per stare di fronte al disagio sia più importante fare i conti con il proprio disagio. Le competenze sono importanti nella misura in cui le usa e le ha qualcuno che sta lavorando su se stesso. Se questo è vero, è chiaro che quando parliamo di cantiere dell’umano, noi non possiamo che rivolgere un pensiero a quel particolare cantiere dell’umano che è la Chiesa. Ireneo di Lione arriva a dire che l’incarnazione di Cristo inizia con l’annunciazione e termina sulla croce. Tutta la vita per Ireneo è incarnazione, tutta la vita è umanizzazione, tutta la vita è accoglienza dell’umano. Siamo nati come uomini, ma siamo nati per diventare uomini, e ci vuole tempo. Alla luce di questo è più semplice comprendere quale può essere il compito della Chiesa. Pasolini diceva che la più grave colpa della Chiesa è quella di accettare passivamente la propria liquidazione da un potere che se la ride del Vangelo. Per questa frase, il Santo Uffizio, l’Osservatore Romano andarono in esasperazione, e una settimana dopo Pasolini rivendicò il suo pensiero dicendo che la più grave colpa della Chiesa è l’ignoranza, ma non l’ignoranza culturale, bensì l’ignoranza dell’umano, e che quindi l’unica strada che la Chiesa può percorrere per andare nel futuro è la curiosità. O un educatore entra in classe curioso o entra in classe già finito. Il compito della Chiesa è quello di coltivare curiosità per l’umano, una curiosità per il pensiero degli uomini, per le loro canzoni, per le loro serie tv, per i loro film. In ogni tratto di umanità è celato un tratto dell’umanità dei nostri ragazzi, perché è celato un tratto dell’umanità di Cristo. O la Chiesa diventa luogo del cuore di Dio, della curiosità per l’umano, o la Chiesa diventa un fortino. Un fortino che apparentemente è inespugnabile, ma che viene distrutto dal suo interno, perché ciò che è nemico della Chiesa è più forte di tutti i fortini. In questo mio intervento, quello che ho inteso fare è condividere un metodo che partisse dall’esperienza e che si proponesse non di supportare nuove forme di buonismo o di dirigismo, bensì di stimolare il nostro umano. La cosa più importante che possiamo fare per i ragazzi è coltivare noi stessi. La cosa più importante che possiamo fare per tutti quelli che incontriamo è restituire realtà, restituire bisogno di umanità, curiosità per l’umano. Il cuore e il senso di ogni educazione libera è pensare in fondo che i ragazzi, come diceva qualcuno, non sono teste da riempire, ma certamente sono storie da incontrare.
Monzani. Grazie, Don Federico. Con questo intervento ci hai riproposto, anche se, come hai spiegato bene, nel tuo glossario la ferita e il trauma non sono esattamente la stessa cosa, alludono a qualcosa di più profondo e primordiale. La provocazione ci fa pensare a un trauma che tutti, in tempi recenti, abbiamo vissuto: l’esperienza del ritiro durante la pandemia, che forse le generazioni più giovani hanno sofferto più di tutte. Luca Ceriani, psicologo, psicoterapeuta e pedagogista, si è occupato a lungo dei segnali di questa sofferenza nei nostri giovani. Questi segnali erano già presenti prima, ma il Covid probabilmente ha fatto da detonatore, e ora affrontiamo un’ondata di sofferenza che ci soverchia in termini sia qualitativi sia quantitativi. I nostri servizi, ad esempio, quando si trovano di fronte a livelli di patologie importanti, non riescono a farvi fronte. C’è una domanda aumentata, ma anche un’età d’esordio delle sofferenze e delle patologie sempre più precoce, con manifestazioni sempre più gravi. Mi viene in mente, ma è solo un esempio, per i disturbi alimentari: ero abituato a vedere la mamma che portava la quindicenne, che iniziava ad avere restrizioni dietetiche, a non voler più mangiare carne e cose simili; ora arrivano papà e mamme con bambini di 11-12 anni, e il primo intervento che dobbiamo fare è andare in terapia intensiva perché hanno livelli di potassio pericolosissimi, tanto che non mangiano più. Allora, questa sofferenza, che forse il Covid ha fatto anche da detonatore, per quello che tu hai visto, studiato e anche sofferto nella tua esperienza di educatore e di clinico, che spiegazione ne dai? Che idea ti sei fatto? Da dove arriva?
Ceriani. Buongiorno, è un piacere incontrarvi così numerosi. Faccio seguito a quanto diceva Don Federico, cercando di dare il mio contributo in termini soprattutto di esperienza, come Emiliano, di esperienza clinica, di quello che ho visto proprio a partire dall’evento pandemico, dalla questione del Covid. Bisogna sottolineare che il Covid non si è inventato nulla, ha fatto da amplificatore di una tendenza che già c’era, una tendenza che portava a togliere all’adolescenza tutta la bellezza che l’adolescenza costituisce. Io cito spesso un libro degli anni Settanta, scritto da due psichiatri, Fabbrini e Melucci, intitolato *Adolescenza età dell’oro*. L’adolescenza è un periodo della vita, è una transizione, è una crisi che, nella sua drammaticità, porta cambiamento. Se l’adolescenza non ci fosse, bisognerebbe inventarla. Certo, non esiste l’adolescenza in quanto tale, ma esistono le singole adolescenze che prima Don Federico chiamava ferite. Ma l’adolescenza è tale se è portatrice di una domanda che non può essere elusa. Qui c’è la prima questione che suggeriva Emiliano, cioè il fatto che l’adolescenza possa essere una malattia, possa essere patologizzata, cioè che l’adolescenza sia necessariamente un periodo problematico. Non si coglie l’aspetto positivo legato al cambiamento e alla transizione, ma l’adolescenza, in quanto tale, tra l’altro, esiste una branca della psicologia che si chiama adolescentologia, l’adolescenza, in quanto tale, ci fa trattare i ragazzi che sono malati. E’ un periodo che, se Dio vuole passerà. Per nostra sfortuna passa, perché in realtà questo periodo, con la sua portata di cambiamento, dovrebbe generare adulti che non temono il disagio dell’adolescenza, ma che anche lo accolgono. Il disagio dei nostri adolescenti è il nostro agio, perché finché l’adolescenza è un problema, è una malattia, è una patologia, è prodromica al fatto che si svilupperanno ulteriori patologie che possiamo classificare, a cui possiamo dare un nome, che possiamo contenere. Quando tu dai il nome al demone, in qualche modo lo scacci. Ma quando lo contenete nelle griglie della classificazione della nosografia psichiatrica, azzeriamo la portata che l’adolescenza può avere nei confronti dell’adulto. E i nostri adolescenti, che ormai sono trattati nel loro domandare come passeggeri, non diventano più una possibilità per noi adulti di diventare adulti. Il dramma a cui stiamo assistendo, che la pandemia di fatto ha esacerbato, è che l’adolescenza è diventata un periodo di sospensione, un periodo di non vita. E il fatto che ci siamo rinchiusi nelle nostre case è diventato per loro un’ulteriore occasione di nascondimento. C’è un fenomeno che all’inizio sembrava solamente esotico, era citato perché faceva conoscitore del mondo: il fenomeno degli hikikomori. Pensavamo fosse solamente una cosa nipponica, perché i giapponesi, come sapete, sono il lavoro che fanno, sono la loro rappresentazione sociale, sono pura forma. E quindi l’hikikomori, vergognoso di sé nei confronti degli altri, si ritirava nella propria casa e la sua esistenza era solamente virtuale. Io sono la virtualità. E c’è una sovrapposizione fra realtà e virtualità che ora caratterizza l’epoca adolescenziale e giovanile. Perché il vero dramma non è che c’è una spaccatura fra realtà e virtualità, ma che l’adolescente vive la sua realtà nella virtualità. L’adolescente è il suo avatar, è la sua rappresentazione. E noi non abbiamo più a che fare con adolescenti che incontriamo, abbiamo a che fare con ragazzi che ci sfuggono nelle maglie della rete. Se vogliamo prenderci cura dei disturbi che purtroppo emergono, perché i disturbi che emergono in adolescenza sono in realtà una cristallizzazione di una tendenza. C’è una bella differenza fra un adolescente triste che cerca di dare un senso alla propria esistenza e un adolescente depresso. Ma il non accogliere la sua tristezza è la prima condizione perché questa tristezza si trasformi nella perdita depressiva. Così per quanto riguarda, come erano stati citati, i disturbi del comportamento alimentare, così per quanto riguarda i tanto vituperati e decantati disturbi dell’apprendimento. Leggevo un articolo sul Corriere recentemente, scritto da una collega molto nota, che diceva che c’è una sotto-diagnosi dei disturbi dell’apprendimento. Dal 2010 al 2020, dati del MIUR, i disturbi specifici dell’apprendimento sono aumentati del quattrocento per cento. Non è forse questo l’etichettamento che noi diamo a un disagio che non sappiamo gestire? Non è forse questo il modo. Sono anni che combattono i disturbi dell’apprendimento, non combattono i disturbi dell’apprendimento in quanto tali, ma combattono il fatto che il disagio dell’apprendimento, che i ritardi nella lettura e nella scrittura, non interpellino gli insegnanti. Cioè, abbiamo dovuto clinicizzare la difficoltà di apprendimento per costringere gli insegnanti a guardarla, e clinicizzandola abbiamo eluso sistematicamente la possibilità che gli insegnanti potessero realmente cambiare e trattarla. Perché se noi coniamo un termine per ogni disagio, capite perfettamente che lo eludiamo. Perché se tu non sei uno che mi chiede un rapporto, se tu non mi stai incontrando, se tu non condividi con me la tua storia, le ferite a cui si faceva riferimento prima, e se sei per me solamente il DCA (Disturbo del Comportamento Alimentare), l’ADHD, pensate all’uso fuori misura degli psicofarmaci in età evolutiva, il Ritalin fra tutti. Perché ci siamo inventati che la vivacità infantile è segno di un problema legato alla quantità di dopamina. Quindi questa quantità deve essere in qualche modo regolata. Capite che se il problema è neurobiologico, se il problema è neurofisiologico, se il problema è psichiatrico o psicopatologico, non mi interpella, non mi chiede più nulla. Allora, noi stiamo cedendo di fronte al disagio dei nostri figli per il nostro agio. La nostra comodità è dire che sono malati. La nostra comodità, il nostro punto di equilibrio, è trattarli come una cosa passeggera. Sono tante le cose che si potrebbero dire in questo senso, molte le ha dette Don Federico. Mi piace citare uno psichiatra francese che ultimamente sto leggendo. Lo avevo scoperto vent’anni fa, aveva scritto un libro molto bello, si chiama Miguel Benassayag, dal titolo *L’epoca delle passioni tristi*, che io avevo preso in considerazione in un altro libro. Adesso ha pubblicato *L’epoca delle passioni tristi 2*, che ho comprato solo perché dovevo avere anche il 2, ma che in realtà ha contenuti totalmente nuovi, perché il titolo originale francese è *La clinica del malessere*. È incredibile la lucidità con cui Benassayag, nella Francia giacobina e nella Francia come ben sapete assolutamente della gauche anche dal punto di vista psichiatrico, è incredibile come ci possa essere una lettura così attenta del fatto che i nostri figli, i nostri ragazzi, non stanno male perché sono una generazione sfortunata, ma perché sono l’esatta produzione, l’esatta manifestazione, l’esatta rappresentazione di un’epoca, di un periodo storico che non sa conferire senso. Se non c’è senso, c’è malattia. Ciò che l’adolescenza domanda all’adulto non è la competenza, da cui la tanto decantata pedagogia delle competenze. Ciò che un adolescente chiede è: perché devo fare questa cosa? Che senso hanno gli apprendimenti che mi proponi? Qual è il contenuto della mia esistenza? Su questo ci tiriamo indietro. Non faccio riferimento, evidentemente, alla scuola paritaria (altro applauso, evidentemente, perché siamo nel contesto), non faccio riferimento alla scuola paritaria che ha fatto proprio della proposta di senso, della proposta educativa, la sua specificità. Faccio riferimento alla scuola di Stato, che è scuola delle competenze. Devo insegnarti a leggere, a scrivere, a far di conto, ma socialmente non mi interessa se rimani un inetto. Anzi, la tua inettitudine mi infastidisce e l’unico modo che ho per gestirla è patologizzarla e clinicizzarla. Ci sono molti inganni con cui ci stiamo confrontando, parlando del disagio adolescenziale. E uno di questi inganni, oltre a quello della medicalizzazione e della patologizzazione, è il fatto che questi adolescenti non debbano correre rischi. Mi piace sempre citare una cosa un po’ strana che io faccio con i miei giovani pazienti, con grande squilibrio da parte delle madri, con grande preoccupazione, però li porto ad arrampicare. Non sono incosciente, sono 40 anni che lo faccio, nonostante l’età, li porto a scalare, a fare la pratica alpinistica, realizzando quella che si chiama la montagnaterapia, esponendoli in una condizione di rischio. Questa inettitudine sociale rientra. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che ciò che manca ai nostri adolescenti è la possibilità di sbagliare, da cui il grande elogio che bisognerebbe fare del fallimento. Il fallimento come possibilità reale di incontro con gli eventi della vita. Assistiamo, negli adulti, a una deriva sicuritaria, che il Covid evidentemente ha esasperato, a una deriva protettiva (pensate alla mancata alleanza con la scuola), a una deriva sicuritaria che impedisce loro di rischiare. Anzi, l’unico modo con cui riusciamo a immaginarci la nostra alleanza con la scuola, che dovrebbe essere una santa alleanza, è una rivendicazione corporativa, quella dei genitori, unicamente difensiva, per cui la scuola non può giudicare nel merito, non può valutare perché teme la rivendicazione dei genitori, teme l’iperprotezione genitoriale. È il peggiore dei servizi che possiamo fare. È il modo migliore con cui non diamo loro la possibilità di rischiare, di fallire e perciò di conoscersi. Siamo legati a una concezione veramente ideologica dell’adolescenza, secondo la quale tutto può essere permesso tranne il fatto che si scontrino con la reale sofferenza. E il problema, perdonatemi, lo dico in questo contesto, non è religioso, non è, in senso stretto, morale, ma è psicologico, è esistenziale. Anche chi fa il mio lavoro, se vuole incontrare questa adolescenza, deve fare i conti con il non poter esaurire in risposte precostituite la sofferenza di cui sono portatori, ma deve inventarsi e trovare nuovi modi anche di curare. Lo stesso Benassayag parlava del fatto che occorre una clinica dei legami, una clinica del malessere. In alcune scuole con cui collaboro lo sportello psicologico non esiste. Non c’è niente di più triste dello sportello psicologico, a mio parere. È chiaro che non voglio assolutamente togliere la positività di alcune iniziative che ci sono all’interno delle scuole, come il progetto iniziato più di dieci anni fa alla Fondazione Sacro Cuore. Ma fin dall’inizio abbiamo detto: tutto, ma non lo sportello psicologico. Ricordate quando il prete passava per le confessioni e tutti, durante l’ora di matematica, dovevano confessarsi? Questa cosa no, sicuramente non lo sportello psicologico. Però sicuramente, al tempo stesso, l’unione fra il clinico, che porta una sua competenza, perdonatemi, ermeneutica, interpretativa, legata al contesto e che lo spieghi, di cui il docente ha bisogno, è importante. Sicuramente il clinico deve ricordare al docente che non è solo competente e didatta, ma che è educatore e che la relazione educativa è terapeutica. Questa cosa, però, deve essere condivisa, deve essere supervisionata. Chi lavora nella realtà ospedaliera poi raccoglie i rimasugli dei tentativi fatti da adulti inetti che lasciano che le cose arrivino alle estreme conseguenze. Ma perdonatemi, il numero di suicidi ci dice che le estreme conseguenze sono veramente drammatiche. Aiutiamoci: il clinico, l’insegnante, il genitore. Creiamo un contesto di adulti che sia credibile, che sia incontrabile, a cui i ragazzi possano guardare e che sia desiderabile. Cioè, che l’età adulta possa essere una possibilità di soddisfazione. E questo può avvenire solo per contaminazione. Questo può avvenire solo se gli adulti accettano il fatto di realizzare un proprio desiderio. C’è una bella espressione che, come sapete, è di Jacques Lacan, poi ripresa da Massimo Recalcati, ripresa dalla psicoanalisi contemporanea, che è quella secondo cui il compito del genitore è custodire il desiderio del figlio, come peraltro nella *Strada* di McCarthy viene metaforicamente rappresentato dal fatto che il compito del figlio è di portare il fuoco, di raccogliere l’eredità del padre che porta il fuoco per rischiarare le tenebre del nulla. Se questo è il compito, allora è importante che gli adulti non rinuncino a essere sani, non rinuncino a cercare un compimento. Accettino, per esempio, che dei simili possano prendersi cura di loro quando ne hanno bisogno, anche perché, appunto, l’adulto non è risolto, ma è in cammino. L’adulto è una persona che fa venire voglia di desiderare perché desidera, fa venire voglia di ascoltare perché ascolta. E l’educazione è una contaminazione, procede per eredità. In questo senso, allora, tutte le esperienze fatte all’interno delle scuole (perché nelle scuole il malessere esplode in tutta la sua virulenza) ci raccontano del bisogno di adulti che portino il fuoco.
Monzani. Grazie. Volevo fermarti Luca, perché volevo farti un dispetto. Un anno e mezzo fa era accaduto un evento tragico dove lavoro ed ero stato invitato in una scuola a parlare dell’evento tragico. È stato un momento anche bello, caldo, immaginate emotivamente molto partecipato, e a un certo punto un insegnante ha preso la parola e ha detto: “Vabbè, ma se i ragazzi stanno male io cosa posso farci? Mi sento veramente impotente, non so cosa potrei mai dire o fare di significativo per incidere un po’”. Mi è venuto in mente e gli ho risposto così: “Conosco una persona che ha avuto un pezzo della sua vita pieno di ferite, nel senso di cui parlava Don Federico, e che mi raccontava che, con queste parole, a me mi ha salvato il mio insegnante della scuola media. Era una persona un po’ chiusa, anzi molto chiusa, non socializzava con gli altri bambini. Questo insegnante, durante l’intervallo, si sedeva accanto a lui e stava con lui”. E questa persona, lucidamente, una persona molto adulta, mi dice: “A me, mi ha salvato il mio insegnante della scuola media”. A questo punto, arrivo al dispetto per Luca Ceriani. Hai scritto un libro molto bello, fra gli altri che ha scritto, sempre interessanti, e quando lo leggi ogni tanto ti viene da interromperti e fargli l’applauso perché ha scritto un ultimo libro, “Agio o disagio”, vedo con la prefazione dell’amico Vittadini, in cui poni fortemente questo tema: i ragazzi di oggi sembrano così vuoti, così incapaci, così inerti, ma forse, dici tu, tutto questo è l’esito di noi adulti che non sappiamo dirgli, non sappiamo dargli. Ti chiedo, il dispetto è che faccio pubblicità al suo libro e lui non vuole, ma è veramente un libro interessante per delle edizioni Ares, appena uscito credo, l’ho già letto. Che ruolo ha avuto quell’insegnante? Non so cosa gli avrà mai detto. Cosa può fare un insegnante che si sente impotente a essere la salvezza, magari è una parola grossa e Don Federico mi riprenderebbe? Ma che ruolo ha avuto quell’insegnante su quella persona così ferita, così provata?
Ceriani. Io potrei citare dieci insegnanti che mi hanno salvato l’esistenza perché se non li avessi avuti… Ma nel discorso della ferita è possibile anche rintracciare un po’ un inganno, cioè questa è una cosa che spesso noi operatori facciamo: ci deve essere sempre un trauma, i nostri ragazzi sono sempre figli di una storia sfortunata. In realtà, il nostro compito sicuramente è di recuperare l’elemento traumatico, ma è anche quello di far passare questo passato. Sembra un gioco di parole, no? Però spesso i nostri giovani pazienti sono vittime di un passato che non passa. Perché noi li leggiamo sempre alla luce della sofferenza antica. Mi ritrovavo a dire una frase che mi piaceva moltissimo, poi mi sono fermato anche io, come tu hai fatto col libro, mi sono fermato a pensare, e ho detto: “Magari non funziona tanto”. Ho sempre detto “Noi siamo la storia che abbiamo” e non è male detta così, però non è vero. Noi, a un certo punto, dobbiamo incominciare a scriverci un’altra storia. I nostri adolescenti sono la storia che hanno allo stato attuale, diamogli la possibilità di scrivere la loro storia, cioè di superare l’evento del trauma, di non rimanere legati alla sofferenza ma di prendere in mano la vita con tutti i rischi che questo comporta. Qualche volta, anzi, occorre la grazia, la fortuna di un incontro, che è l’insegnante che ti guarda finalmente. L’insegnante che non vuole leggere la tua cartella clinica prima di incontrarti, che non sia contento della relazione della neuropsichiatria, che prima vuole vedere chi sei, poi va a leggere eventualmente gli elementi storici. A me questa grazia è capitata, come è capitata a Emiliano, come penso sia capitata alla maggior parte di noi, di incontrare qualcuno che ci abbia finalmente guardato. In mio caso, lo cito, mi piace, ormai non c’è più, evidentemente si chiamava professor Zolezzi. Nessuno degli insegnanti mi voleva ammettere alla maturità, e ne avevano ben ragione, anche perché io praticamente passavo da scuola e gli insegnanti mi chiedevano: “Ma come mai da queste parti?”. Ma ero in zona, per cui… E questo insegnante mi ha guardato e ha detto: “No, ammettiamolo, secondo me questo ragazzo ha i numeri”. E questa è stata una grazia, è stata la cosa che io auguro a tutti.
Monzani. Don Federico Pichetto, qualche considerazione finale?
Pichetto. A me quello che veniva in mente adesso, ascoltandoti, è una cosa, perché quest’insegnante chiede cosa può fare in quel momento traumatico, ma secondo me il tema è che noi non facciamo nulla nei momenti non traumatici. Cioè, se tu non costruisci un rapporto, poi quando arriva la tegola, mica puoi improvvisarti muratore. Cioè, non funziona così. C’è un tema, non da poco, che è una cosa che a me piace tantissimo: sprecarsi. Cioè, coi ragazzi è importante sprecarsi, ma non sprecarsi… Io sono un prete, voi avete l’idea del prete dell’oratorio, cioè non è questione, va benissimo, ma proprio uno spendersi gratuitamente perché io riconosco che quella terra che calpesto è sacra. Che attraverso quei ragazzi qualcun altro è venuto a farmi visita. E se non c’è questo, se non c’è questo riconoscimento del mistero, beh, allora io rimango non un insegnante, ma un tipo con tanti fogli in mano che è così pieno di tecniche che non ha più tempo per guardarti negli occhi.
Monzani. Sono le quattordici, cinquantasei minuti e dodici secondi. Alle quindici chiudiamo questo collegamento. C’è tempo per una considerazione o una velocissima domanda per i nostri relatori. Se qualcuno se la sente. E se è veloce ne facciamo due.
DOMANDA: Ciao, io volevo dire che quest’anno ho finito la quarta liceo in un liceo statale, e io ho fatto molta fatica quest’anno sia a livello personale ma tanto a scuola, perché mi sono resa conto che c’era un problema nella comunicazione con i miei compagni soprattutto, ma anche con i professori, e io riconoscevo che i miei compagni avevano bisogno di un aiuto e io non riuscivo a darglielo, ma i miei professori non guardavano in faccia e non si rendevano conto di questo problema. E io, da un paio di mesi, ho paura di tornare a settembre con i miei compagni e con i miei professori conoscendo questa situazione e non sapendo cosa fare. Quindi, ascoltandovi, volevo sapere se voi avevate un consiglio su come provare a comunicare questo disagio anche a delle persone adulte che sono lì, che ci vedono tutti i giorni e che possono darci una mano.
Pichetto. Allora, un flash molto semplice secondo me: in quello che dici c’è un pezzettino interessante, cioè è come se tu dessi per scontato che i tuoi compagni e te siete gli stessi di giugno, che il tempo non abbia fatto nulla, che la realtà non abbia fatto nulla. Allora, magari è come dici tu, però se ti togli la curiosità ti togli il meglio.
Ceriani. Battuta: sei un adolescente, ti prego, fai l’adolescente almeno tu, nel senso opponiti, ribellati, chiedi, chiedi. Questa è una posizione che non deve essere persa, cioè non sviliamo appunto l’adolescenza. Diamo, lasciamole questa carica di contestazione. Anche perché ciò che l’insegnante vuole, perdonatemi, però è la normalizzazione dell’adolescente. E la normalizzazione dell’adolescente passa attraverso il fatto che la sua preoccupazione è che voi ragazzi funzioniate, che voi apprendiate. Sovverti, fai casino.
Monzani. Chiedo scusa alle mani che si sono alzate. Per motivi di tempo ovviamente non riusciamo a rispondere a tutti. Vi ricordo, come ci ha segnalato prima Giorgio Cerati, che fra mezz’oretta inizia un altro momento in cui saranno raccontate delle esperienze educative nell’ambito dell’incontro e dell’affronto delle tematiche che abbiamo toccato oggi. Vorrei ringraziare i due relatori perché, soprattutto io che spendo anche la mia vita professionale a fare prevenzione, oggi l’ho vissuta in questo senso così largo, così pieno, non in termini di fattori di rischio, di sintomi, di allarmi eccetera, ma di cosa concretamente io, genitore, io, insegnante, io, che incontro i ragazzi, posso fare per fare reale prevenzione, andando incontro alle domande che stanno forse prima di quello che poi esplode e diventa un fenomeno, un sintomo, una sofferenza.
Grazie