Chi siamo
Accogliere, accompagnare, educare. Esperienze di vita di famiglia
Giampaolo Pambianco, Letizia e Leonardo Speccher, testimoni di Famiglie per l’Accoglienza; Mariangela Tarì, Autrice de Il precipizio dell’Amore, Ed. Mondadori; Presidente dell’associazione di promozione sociale La Casa di Sofia. Introduce Davide De Santis, Presidente Associazione La Mongolfiera odv. In occasione dell’incontro intervento di saluto di Luca Sommacal, Presidente Associazione Famiglie per l’Accoglienza.
Questi due anni e mezzo drammatici dovuti alla situazione pandemica hanno messo in risalto il ruolo fondamentale di una parte della nostra società spesso sottovalutata o bistrattata nel suo valore fondativo, sociale, culturale e produttivo: la famiglia. La famiglia è il perno grazie al quale l’intera società, pur dentro disuguaglianze crescenti, continua ad esistere. Due sono le sue caratteristiche insostituibili: l’accoglienza e l’educazione. La testimonianza di Mariangela Tarì e di membri di Famiglie per l’Accoglienza saranno l’occasione di uno sguardo e di una consapevolezza nuova.
Con il sostegno di Tracce.
ACCOGLIERE, ACCOMPAGNARE, EDUCARE. ESPERIENZE DI VITA DI FAMIGLIA
Davide De Santis: Buon pomeriggio a tutti. Questo è un applauso preventivo, ho portato la mia claque per ho detto applaudite prima che io parli così un altro applauso così…
Benvenuti all’incontro “Accogliere, accompagnare, educare esperienze di vita di famiglia” io ero a una presentazione del Meeting Fatto dal direttore Forlani e lui diceva che alle 15 in
Auditorium c’erano gli incontri più importanti e questo può per stemperare la tensione ai relatori con un altro applauso così noi Draghi, Draghi…
Faccio una piccola premessa, poi lascio a loro la parola, io sono Davide De Santis, sono un mero sostituto di Marina Ricci; Marina Ricci scrittrice e giornalista ha scritto un libro bellissimo, oggi darò alcuni consigli per gli acquisti di libri di fine estate il libro è “Govindo. il dono di Madre Teresa”, in questo libro lei racconta un fatto che racconta della sua vita, lei era inviata del TG5 e va a Calcutta quando sta per morire Madre Teresa, lì incontra Govindo che era uno dei ragazzi accolti nelle case di Madre Teresa, è un ragazzo disabile con una malattia degenerativa che nessuno voleva. Lei decide di accoglierlo e se lo porta a casa da lì in poi è nata un’avventura per lei e per tutta la sua famiglia. Io quindi la saluto tantissimo e anzi chiederei un applauso a Marina che oggi non è riuscita a venire. Govindo, tra l’altro, adesso non c’è più, ma diciamo l’avventura di Govindo sta continuando in tante persone, quindi la ringrazio tantissimo.
Il titolo dell’incontro è accogliere accompagnare educare, sono tre temi molto facili, sinteticissimi, di cui parleranno, cercheremo di parlarne con alcune testimonianze.
Faccio un appunto, Giussani diceva di guardare l’esperienza di Famiglie per l’accoglienza; io ho letto “Il miracolo dell’ospitalità” ed è bellissimo come Giussani dia un’importanza così grande alle famiglie che accolgono, lui dice che è il la più difficile della carità perché ti coinvolge dalla mattina alla sera, non c’è un momento in cui non ti devi dare ragione per quello che fai, a un certo punto però di questo libro, dice anche una cosa che “Queste famiglie sono testimonianza per tutti – e fa un appunto, dice – non dobbiamo lodarli a distanza non dobbiamo guardare queste cose dirigendo una parete di autosufficienza sia pur benevola o un mirata. Noi ci fermiamo all’ammirazione, invece no, devono determinarci. Non si tratta di essere colpiti, ma sconvolti, cambiati, e infatti la generosità della famiglia per l’accoglienza alza il livello di tutta la comunità”. Vi chiedo di ascoltare queste testimonianze con questa intensità; vado a presentare le tre persone che ci racconteranno la loro vita, i testimoni di Famiglia per l’accoglienza. Sono Giampaolo Pambianco, un ragazzo che dopo… Letizia Leonardo Speccher, e poi abbiamo Mariangela autrice del “Precipizio dell’amore” e presidente dell’Associazione di promozione sociale ‘La casa di Sofia’, però amica da tempo e quindi…. prima di introdurli nello specifico di fare alcune domande, lascio la parola Luca Sommacal che è presidente di famiglia per l’accoglienza altro plauso perché anche lui ha la claque portata di persone che introdurrà l’incontro prego.
Luca Sommacal: Grazie Davide, buon pomeriggio a tutti, faccio questo breve saluto raccontando cos’è Famiglie per l’accoglienza e raccontando che cosa stiamo facendo in breve. Famiglie per l’accoglienza è una rete di famiglie che si accompagnano nell’esperienza dell’accoglienza e la propongono come un bene per la persona e per la società intera, quest’anno celebriamo i 40 anni dalla nostra fondazione. In occasione di tale ricorrenza Papa Francesco incontrandoci lo scorso maggio ci ha rivolto parole di stima e di incoraggiamento dicendoci: “perseverate nella fede e nella cultura dell’accoglienza, offrendo così una bella testimonianza cristiana e un importante servizio sociale. Grazie per quello che fate continuate in questo abbraccio”. È una storia che da un piccolo gruppo di famiglie si è diffusa in tutta Italia e in diversi paesi del mondo toccando migliaia di altre famiglie coinvolte in diverse forme di accoglienza come l’affido, l’adozione, l’accoglienza di figli disabili, i genitori anziani e ospitalità varie come giovani e adulti fragili o più recentemente l’accoglienza di profughi provenienti da zone di guerra. Accogliamo nelle nostre case bambini, giovani e adulti con passati spesso drammatici e dolorosi, ma siamo famiglie assolutamente normali, condotte dalle vicende della vita ad aprire il cuore e la porta della propria casa ad un figlio tanto atteso quanto stravolgente i nostri piani, oppure ad un ospite imprevisto, famiglie che accolgono in virtù di una sovrabbondanza di bene sperimentato nel rapporto coniugale e all’interno della compagnia della comunità cristiana, famiglie in rete che si aiutano nelle inevitabili difficoltà che queste esperienze comportano e si sostengono nel rinnovare le motivazioni profonde che accompagnano ogni gesto di accoglienza, perché da soli è difficile se non impossibile reggere l’urto di certe sfide. Accompagnando le fragilità dei nostri figli impariamo a guardare ed accogliere le nostre fragilità e ancor di più sperimentiamo l’impossibilità di risolvere il dramma, il dolore e le ferite di chi ci troviamo ad amare così profondamente. Eppure, vivendo questa esperienza tanto reale quanto contraddittoria, sperimentiamo un bene, lo testimonieranno gli interventi che seguiranno, una maturità umana un amore alla libertà infinita dell’altro, alla sua e solo sua strada, spesso tortuosa verso il proprio destino; un bene che nasce dall’accogliere e abbracciare il mistero della vita che bussa alla porta della nostra casa, realmente, fisicamente, drammaticamente e farsi accogliere a nostra volta da esso. È la dinamica di un avvenimento che accade in ogni nostro gesto di accoglienza e che ha permesso alla nostra esperienza di attraversare 40 anni di storia, un avvenimento che ha toccato il cuore di persone molto diverse per cultura temperamento e vicende personali, ma che si è riproposto identico nella sua essenza e significato, un non come, ma quello, come titolo la mostra proposta in questi giorni qui al Meeting e meglio descritto da Don Giussani in un suo intervento del 1993, quando dice: “Occorre che riaccada quello che è accaduto in principio, non come è accaduto in principio, ma quello che è accaduto in principio, l’impatto con una diversità umana in cui lo stesso avvenimento si rinnova e nel rinnovarsi del primo impatto e perciò della sorpresa della corrispondenza tra una presenza umana diversa e le esigenze strutturali del cuore, si sente Il riverbero dello stesso avvenimento capitato 10 o 20 anni prima”. Ecco non come ma quello, dunque, ciascuno secondo la propria storia la propria modalità al proprio come che veicola quella pienezza accaduta all’inizio che si ripropone e si rinnova nelle giovani famiglie che incontriamo e negli amici che seguono la vita della nostra associazione; una pienezza che si propone non solo a chi è implicato direttamente in esperienze di accoglienza e ospitalità, ma che tocca il cuore di chiunque incontra. È quello che è accaduto ai 14 artisti che abbiamo coinvolto nel progetto della mostra, li abbiamo sfidati proponendo loro di compromettersi con le nostre famiglie, di frequentarle e di esprimere con la forma d’arte propria di ciascuno ciò che avrebbero vissuto, il quello che avrebbero colto attraverso il loro come; sarebbe potuto non accadere nulla, eppure le opere che da questa esperienza sono state realizzate documentano che invece qualcosa è accaduto, qualcosa che ha colpito il loro cuore e il loro sguardo, con la loro sensibilità umana e artistica hanno ben rappresentato la sorpresa suscitata dall’imbattersi in gente assolutamente normale che attraverso semplici gesti di accoglienza indica una strada possibile per tutti. Penso che questo progetto, la mostra e le testimonianze che seguiranno rappresentino un bell’esempio di come le parole citate come titolo di questo incontro, cioè accoglienza accompagnamento ed educazione, non siano preclusiva accezione di chi sia chiamato a vivere o abbia vissuto una certa esperienza particolare, ma proprio attraverso le esperienze particolari che ascolteremo, il cammino di tutti possa essere illuminato, ponendo un seme di cambiamento reale all’interno della nostra società. Si rende allora così sperimentabile ciò che Don Giussani scrive al termine del “Miracolo dell’ospitalità”, libro citato prima, quando dice “si comincia così a percepire un senso del vivere, un gusto del vivere, un’utilità del vivere che per ciò stesso che definisce l’io di ciascuno, insinua una prospettiva nuova dentro il contesto mondano che sembra inevitabilmente destinato alla morte cioè al nulla”.
Davide De Santis: Grazie. Un applauso a Luca, vi consiglio di andare a vedere la mostra che merita. Mariangela, è pronta Mariangela. Sì adesso si sentirà, comunque ti faccio prima una domanda, ti faccio prima una domanda trabocchetto poi dopo… no io e Mariangela ci siamo conosciuti già un po’ di anni fa quando un amico Franco Bernardi con incontri esistenziali l’hanno invitata perché lei aveva scritto un articolo su Repubblica, era il momento in cui Nadia Toffa aveva il tumore e faceva vedere una gioia di vita anche in un momento così difficoltoso e lei ha scritto Repubblica perché in quel momento c’erano i famosi hater, comunque la gente che diceva “è una cosa brutta, non si può essere felici” e lei scrive un messaggio a Repubblica perché in quel momento uno dei suoi due figli aveva un tumore e scrisse delle parole che a me mi hanno colpito tantissimo. Dice solo “il dono è cogliere in mezzo alla bufera ciò che gli dia senso” poi dopo un lettore gli ha chiesto anche, ma siamo sicuri che tuo figlio un giorno sarà felice? più o meno così poi lo racconterà meglio. Lei risponde “la felicità di un figlio può dipendere da molti fattori, il primo è amarlo per quello che è”. Come sei arrivata a questa consapevolezza? anche perché nel mondo d’oggi si fa prima a dribblare questa fatica, cioè molto spesso uno quando ci sono delle difficoltà familiari cerca sempre di evitarle, anche andando a sfaldare la famiglia, oppure buttarsi nella disperazione che è la via più semplice, perché non ti complichi le cose affrontandole. Quindi ti chiedo di raccontare la tua storia. Attenzione qui stiamo parlando di situazioni di disabilità, di malattia, di affido, accoglienza, ma secondo me c’è un fil rouge che lega anche le vite di tutti i giorni di tutti noi, quindi lascio la parola Mariangela.
Mariangela Tarì: Grazie, è una domanda difficile, perché ogni volta mi domandano come ci sei arrivata? io non lo so come ci sono arrivata. Non ho una strada, nessuno mi ha detto come fare, io mi sono trovata con una bambina con disabilità grave che a due anni si ammala gravemente smette di camminare smette di parlare, compaiono crisi epilettiche e scoliosi devastante assenza dello sguardo. Questa è Sofia mia figlia la mia prima figlia a due anni si ammala di una malattia che in realtà lei già aveva, ma è una malattia subdola perché si manifesta soltanto tra i due tre anni e quindi ci danno questa diagnosi di sindrome di Rett, una malattia terribile degenerativa. Nasce il mio secondo figlio e ci porta moltissima gioia, viene a dipingere tutta la casa di piena di colori, ci porta a Gardaland ci porta in giro racconterò gioca con la sorella; quindi, ci fa un po’ da psicologo. A 5 anni Bruno si è ammalato di un tumore gravissimo al cervello, vi ho fatto un riassunto perché la storia è molto lunga, sviene a scuola e la diagnosi è medulloblastoma di quarto grado maligno forse non ce la farà. L’intervento è devastante dura 9 ore e lì comincia un percorso completamente diverso da quello della sorella perché la disabilità e il tumore non sono la stessa cosa. La disabilità è un lungo percorso di conoscenza che fa la famiglia, cioè arriva la diagnosi etto improvvisamente torni a casa con la bambina che esattamente quella del giorno prima, ma sai che le succederanno delle cose lentamente, poi la disabilità comincia a farti camminare in un mondo parallelo dove incontri altre persone che ti aiutano, i genitori, medici; il tumore invece, soprattutto su un bambino, è spiazzante cioè il tumore ti disintegra, ti ricorda immediatamente che la vita può finire, che mentre stai progettando le vacanze, perché era giugno, e stai progettando di andare al mare, tuo figlio può morire, e quindi inizia un percorso. Io ho scritto quella lettera mentre ero in ospedale, ormai avevo cambiato già tre ospedali perché sono stata in ospedale con Bruno quasi due anni e ho scritto quella lettera a Repubblica perché avevo incontrato degli altri genitori che cercavano in tutti i modi riappropriarsi di un pezzo di vita, perché a un certo punto tutto quello che per gli altri sfiga, perché di fronte ai tuoi genitori che hanno due figli malati con due malattie molto gravi, quello che ti ritorna è un atteggiamento pietoso perché ti stanno dicendo “sei veramente sfortunata”, ma mentre tutto quello ti rimanda alla sfiga, alla sfortuna e tu inizi a ragionare che tutto quello che hai e tutto quello che ti rimane. E tutto quello che ti rimane non è poco perché è la vita dei tuoi figli, che siano due giorni che siano tre giorni che siano 10 anni con la disabilità è la vita dei tuoi figli e un pezzo alla volta cominci a fare un patto con la famiglia, un patto silenzioso, perché non ci siamo mai seduti a tavola a dirci adesso dobbiamo essere felici, non ho mai detto mio marito adesso è il momento in cui saremo felici, abbiamo fatto un patto di felicità silenzioso, abbiamo permesso alla nostra vita di aprire porte, di far entrare un po’ alla volta, incidenti felici, perché poi la felicità è questo no? piccoli incidenti felici che entrano da finestre che devi lasciare comunque aperte. Come è stato possibile tutto questo io me lo sono domandato tante volte ho scritto il libro o filosofeggiato con me stessa; sicuramente per quanto riguarda la disabilità di mia figlia l’aiuto più grande credo che sia venuto dal mio lavoro, io ero un insegnante sono ancora un insegnante e insegnare richiede una cosa fondamentale: un atto di fede non in senso religioso, proprio un atto di fede, quando hai davanti dei bambini, devi credere in quello che ancora non vedi, ma c’è; allora la cosa più brutta che si può fare presentarti un bambino dicendo: ah questo non farà mai niente nella vita… no! perché c’è qualcosa che tu non vedi, educare vuol dire tirar fuori e ho cominciato a tirar fuori pezzi di vita per esempio dalla disabilità, quando arriva una disabilità in famiglia la famiglia si sgretola, cioè si comincia a correre da tutte le parti cercando di salvare quello che non si può salvare. Io non ero la persona che sono adesso, ho pianto tutte le mie lacrime, sono stata per mesi stesa per terra, ha pianto mio marito, ci siamo disperati; abbiamo cominciato a cercare cure inesistenti, ci siamo trasformati in fisioterapisti, psicologi, pediatri, migliori amici dei nostri figli, fin quando abbiamo capito che l’unica cosa da fare era guardare quella bambina e riscoprire che dentro quella malattia c’era una bambina e basta e una bambina voleva sua madre, e basta e per essere sua madre dovevo ritornare a essere donna io, ritornare al lavoro, ritornare ai miei hobby, scoprire il bello e man mano che scoprivo pezzi di bello della vita, perché mi piace la poesia, mi piace la letteratura, mi piace il teatro, li riportavo a lei, anche nel suo silenzio, nella sua disabilità, qualcosa si illuminava e questo è stato il passaggio per Sofia, da sola non l’ho fatto non sono un’eroina, accanto ho avuto sempre mio marito e poi sono arrivata a quella frase di Nadia Toffa che è una frase molto difficile perché quando si riesce a dire “il cancro è un dono” stai dicendo qualcosa che fa male no? fa male a chi non ce l’ha fatta, fa male a chi è in quel percorso, fa male perché non è il cancro il dono, il cancro puzza di morte fa paura ti fa tremare le gambe ti cambia la vita, qual è il dono vero che io ho scoperto a mia insaputa? mi sono accorta che ero circondata d’amore, mi sono sentita fortunata, ho cominciato a contare, mentre in ospedale, tutte le mie fortune. Ho visto gente che ha preso Sofia, una bambina che non avevo mai lasciato da sola ma, mai e ho dovuto abbandonare nelle mani di qualcun altro, perché dovevo curare il fratello e ho visto aerei volare da una parte all’altra per portarla in Puglia dei miei genitori, ho visto amici venire da me ogni giorno in ospedale, anche quando non volevo vedere nessuno, c’è gente che ha cucinato per la mia famiglia per mesi, perché io non ero più in grado di cucinare e quindi ho cominciato a contare fortuna su fortuna su fortuna e quando – ho fatto molta vita di ospedale – mi sono resa conto anche che il mio dolore era un granello piccolissimo no? che accanto a me c’erano persone come me che stavano peggio di me che però volevano vivere, vivere e essere ancora felici. Allora invece di lasciarmi trascinare dalla vita, ho pensato di darle un senso, cioè qual era il senso più grande di quello che mi stava accadendo? non c’è un senso nella malattia, la malattia viene e basta, se vogliamo dirla veramente è pura sfortuna; il senso glielo abbiamo dato noi, abbiamo creato un senso dove senso non c’era. Abbiamo creato un’associazione, abbiamo cominciato ad aiutare gli altri bambini, abbiamo cominciato ad uscire con una bambina in sedia a rotelle, con un bambino tutto intubato che faceva la chemio ad andarcene in giro, abbiamo cominciato a goderci quello che per gli altri è tempo sprecato, tempo inutile, abbiamo riscoperto l’utilità dell’inutile, in un mondo che va velocissimo, noi ci siamo fermati a parlare nel letto, a mangiarci la pizza, a guardare un film insieme, a leggerci i libri, a darci baci, credo che sia stato un percorso in cui abbiamo scoperto che la vita è fatta di piccole cose, di attimi, attimi che devi godere ogni giorno, non so come sia avvenuto, perché mi hai fatto questa domanda, non so se si è acceso un microchip nel mio cervello, ma nel momento in cui sono cambiata io e ho cominciato a scoprire che avevo ancora delle cose da fare con i miei figli, che c’era ancora tanto pezzo di vita e tanto stupore, perché poi lo stupore è dentro due cose meravigliose che sono lo sguardo meravigliato sul mondo e la domanda, e quando soffri tantissimo perdi lo stupore, perché non hai più domande sul mondo, la tua vita è finita e non è più meraviglia di niente, ecco io ho riacceso in tutti un po’ alla volta la domanda, le domande sul mondo, la meraviglia di vedere un tramonto insieme, di abbracciare mia sorella, ho cominciato a dire anche quello che è indicibile per una madre, perché la meraviglia del percorso che ho fatto è accettare anche l’inaccettabile e poterlo dire quando sei stanco, quando non ce la fai più, quando hai un momento in cui vorresti che i tuoi figli scomparissero, per un attimo, per riposare, e in quel momento ho scoperto che c’erano sempre mani ad aiutarmi, sempre persone pronte a darmi una mano e questo non è poco, non è poco perché la disabilità impoverisce le famiglie, le rende aride, i mariti molto spesso se ne vanno e i familiari spariscono, allora io invece ho cominciato a segnarmi tutte le persone che restavano, tutte quelle persone che sollevavano la carrozzina di Sofia per portarla al mare e tutte le risate di Bruno nonostante la chemio e tutti tutte le serate passate a sparare le bombe di capodanno perché avevamo paura di non arrivare di non arrivare a capodanno e siccome mio figlio ama sparare le bombe, da noi in Puglia il capodanno è qualcosa di esplosivo, ho cominciato a sorridere come una pazza in pieno agosto in una Roma vuota, festeggiando un capodanno che forse non sarebbe mai arrivato. È una cosa che è commovente anche quando la racconto perché non c’è un perché, è avvenuto ed è avvenuto perché ho incontrato persone capaci di donarsi all’altro. Baudelaire dice che l’amore è la capacità uscire da se stessi e io ho incontrato persone capaci di uscire da se stesse e non so se questo sia…, abbia a che fare con una spiritualità, con qualcosa che non riesco a capire e mi costa molto dire e ogni volta che presento il libro mi costa molto dire che le malattie dei miei figli mi hanno cambiato in meglio, perché è un dolore, perché stai dicendo una cosa molto forte, stai dicendo che la malattia delle persone che ami di più al mondo t’anno cambiato in meglio, ma in realtà il dolore purtroppo o per fortuna ha una potenza creatrice fortissima.. io non piango mai ma mi state facendo piangere, non piango dal 1980…
Davide De Santis: Avevi detto che non amavi le persone che piangevano
Tarì: No, perché questa è una cosa che ho scoperto inconsapevolmente, il dolore ha una forza creatrice come l’amore, cioè quando siamo innamorati, improvvisamente noi rinominiamo tutto il mondo, le scarpe non si chiamano più scarpe, la sedia non si chiama più sedia e il sole non è più il sole quando siamo innamorati perché gli occhi sono dell’amore e quindi tutto ha un altro nome. Il dolore ho scoperto che fa esattamente la stessa cosa, rinomina il mondo, ti disloca da quello che sei, ti ricorda che sei qui oggi, ora e tutto diventa affilato nel dolore, la vita diventa una vita da mangiare a morsi, non so spiegarlo… ed è quello che voleva dire in quel momento, quella notte, Nadia Toffa, cercava di spiegare che in nel momento in cui sapeva di dover perdere la vita, la vita diventava fortissima e questa forza che è arrivata non smette mai di perseguitarmi, mi chiede sempre qualcosa e non so mai da dove arrivano queste domande perché mi chiede sempre di fare di fare qualcosa per gli altri, di fare qualcosa per i miei figli di fare qualcosa per la mia famiglia e mi tiene come un giunco, non so spiegare mi tiene vigile, seppur nella sofferenza, vigile in questa vita, molto presente.
Davide De Santis: Un applauso a Mariangela. È assurdo che il sacrificio dei nostri figli sia.. se per noi… noi vogliamo sempre risolvere il problema loro, in verità sono loro che ti danno sempre qualcosa Grazie Mariangela, veramente.
Passiamo alla parola un applauso anche a Giampaolo
Giampaolo Pambianco: Buonasera a tutti. Sono agitatissimo ma contento di essere qua a raccontare la mia esperienza.
Davide De Santis: Giampaolo è un ragazzo che è stata affidato, adesso ha 27 anni, se non vado errato, 28 scusate, i dettagli sono importanti. La domanda è questa, la domanda è se hai vissuto un bene nell’accoglienza e se questo permane, tanto so che già la prima domanda mi rispondi di no e quindi è una domanda trabocchetto, lo sai.
Pambianco: Allora, salve a tutti, è stato un po’ una particolare. Io sono stato in affidamento a una famiglia all’età di 11 anni, quindi già secondo me ero già abbastanza grande e nella mia famiglia d’origine vivevo una situazione che di famiglia c’era ben poco, perché non c’era nessuna base solida per una famiglia, era una famiglia proprio emarginata anche socialmente e quindi, io diciamo anche cercavo più che altro di crearla io la famiglia nel senso avevo sempre in mezzo situazioni di litigio, situazioni molto brutte e io cercavo di tenere insieme i fili di questa cosa nonostante la giovane, la tenera età diciamo perché l’infanzia che mi sono perso sotto questo aspetto qui. Anche guardando in quella età li i miei compagni i miei amici eccetera, vedevo che loro avevano una famiglia diciamo normale diversa dalla mia completamente diversa dalla mia e quindi cercavo un po’ di tra virgolette rubare un po’ di situazioni un po’ di cose che io già mi ricordo ai tempi la sognavo una cosa del genere. Dicevo, cavolo, ma guarda quello lì come sta bene sotto tanti punti di vista e io invece a me queste cose mi mancano. A 11 anni sono andato in affidamento mi hanno portato in affidamento ma all’inizio io l’ho vissuta tanto come, diciamo, come se mi avessero portato via dalla mia famiglia quasi come un dispetto, perché io nella mia famiglia ero quello che la legava, perché volevo benissimo ai miei, io ero voluto bene, non sono mai stato né maltrattato né niente, però ero il punto diciamo centrale tra queste due figure malate che cercavo di tenere insieme. Una volta andato via la mia prima paura ricordo era quella di…. adesso cosa succederà a casa che non ci sono più io? e quindi l’ho vissuta molto male l’ho vissuta come se fosse stato strappato arrivando in questa famiglia completamente diversa in tutto perché era una famiglia benestante, una famiglia proprio completa, dove c’erano… la famiglia del Mulino Bianco io la chiamo, secondo me, perché è vero è così Io non ho mai trovato dei difetti in quella famiglia, è stata una cosa veramente grossa per me. Questa famiglia del Mulino Bianco, diciamo, il problema è stato che io ho iniziato a vedere delle diversità tra la mia d’origine, che sapevo un giorno a 18 anni sarei ritornato lì, e loro, è una cosa che mi sono fatto io in testa. Tornando a casa una volta a settimana il sabato e la domenica io questa cosa la percepivo molto maggiormente: 5 giorni della settimana mi comportavo in un modo, sabato la domenica tornavo a casa ed ero completamente un’altra persona; quindi, questa cosa mi ha molto deviato, tanto, ed ho iniziato diciamo a provare invidia verso i figli di loro perché, pensavo io, che comunque loro erano figli io ero l’estraneo entrato in quella famiglia lì e quindi non avrei trovato diciamo uno sbocco. Io a 18 anni sarei tornato da casa mia e quindi non avevo un futuro diciamo, sarei ritornato lì. Quindi questa parte è stata molto molto difficile, complicata, io dopo ho iniziato le superiori; i primi due tre anni sono andati bene dopo alle superiori, in una città più grande, conoscendo tanti tipi di persone, mi sono praticamente appoggiato a gente che aveva più o meno le mie stesse problematiche, snobbando invece diciamo la parte della società, non migliore.., nel senso, una parte della società comunque che ragionava in maniera diversa da quella che erano le mie amicizie e qui come ragionavo in quel momento lì, e quindi diciamo per evadere da tutta questa situazione ho iniziato a fare casino in generale cioè, frequentavo gente non proprio raccomandata, ho iniziato a fare casini in casa sempre per invidia e me la sono vissuta molto, molto male. Sono stato bocciato a 16 anni sono bocciato due volte, con i miei genitori affidatari non parlavo per niente perché non mi fidavo neanche, perché li vedo proprio come degli estranei, li ho sempre vissuti come estranei dagli 11 ai 18, sotto tanti punti di vista, a parte che io non sono uno che si apre tanto, a 18 anni decido in malo modo di tornare a casa mia, eravamo a 30 km quindi non è che mi hanno spostato tanto distante, a casa mia praticamente c’era mio padre che era malato di tumore ai polmoni è venuto a mancare sei mesi dopo, mia mamma che ha avuto un tumore al cervello quando avevo 10 anni 9 anni, più o meno, quindi lei era invalida al 100% e mi sono fatto carico di tutto di nuovo, ho portato fino alla morte mio padre praticamente seguendolo quasi tutti i giorni nonostante l’età, comunque anche le difficoltà, perché poi avevo iniziato a fare anche uso di sostanze stupefacenti per cercare di evadere da questa situazione, per stare un po’ più sul pezzo, come si dice. Morto mio padre mi sono dovuto far carico di mia madre in una situazione, comunque, che era completamente diversa e lì non ho retto, lì sono entrato in un circolo di vita di degrado completo che non sapevo neanche più come arrivare al domani e forse speravo anche di non arrivarci al domani, cioè e avevo vent’anni quindi un po’ un pensiero un po’ particolare a quella età lì. Dopo tre anni, che noi non ci sentivamo più, perché io non mi sono fatto più sentire anche per la vergogna, perché io c’ho avuto tanti e ho tanti ancora sensi di colpa nonostante io sia stato perdonato, ci arriviamo dopo, praticamente finisco sul giornale per una situazione spiacevole, e mi arriva una lettera a casa dopo tre anni buoni che non ci sentivamo da Simona, cioè mia mamma, che mi dice che sono preoccupati, che loro ci sono sempre stati per me eccetera e che mi devo far sentire. E io lì mi è crollato un po’ il mondo addosso, mi ricordo che sono stato malissimo ho pianto tanto, e lì ho trovato la forza anche tramite il Sert, perché.., era un servizio tossicodipendenti lo frequentavo eccetera, già c’era una mezza idea di mandarmi in comunità, io li ho detto, cavolo queste persone dopo tre anni dopo tutto quello che ho fatto… e poi ho pensato io non gli ho dato niente a loro, io ho combinato solo macelli, quindi non riuscivo bene a capire la forza di questa famiglia che comunque mi continuava a supportare e in quei tre anni lì in silenzio mi hanno continuato sempre a supportare tramite la preghiera tramite tante cose di questo genere e non me ne sono capacitato, vabbè m’arriva sta lettera e decido di entrare in comunità, ho deciso di entrare in comunità e lì mi metto in contatto con loro dopo tre anni e praticamente scatta una cosa in me, nel senso devo dico, io devo riagganciarmi, riallacciare e riprendere in mano tutto quello che ho lasciato indietro, soprattutto riprendere in mano adesso la mia vita e vado in comunità, loro mi hanno accompagnato.. grazie anche a psicologi operatori che hanno fatto un lavoro.., cioè io ho fatto un lavoro importante su me stesso anche grazie psicologi, operatori eccetera e insieme a loro facendo anche degli incontri eccetera, mi hanno accompagnato e piano piano io ho riscoperto al 100% i valori della famiglia, il fatto che io non mi ci sono mai sentito dentro quella famiglia, ma lì è stata una cosa veramente grossa, un’emozione unica che è stata quasi una, quasi una vocazione per me quella cosa lì, come se mi fossi svegliato una mattina e ho detto cavolo questa è la mia famiglia perché in questi due anni, tre anni invece di due anni perché già era un po’ che pensavo, in questi due anni mi hanno comunque accompagnato, non mi hanno mai abbandonato, mi hanno ripreso in casa perché dopo mi hanno riportato lì a casa, io facevo anche fatica a entrare, mi ricordo anche adesso tante volte faccio fatica perché sono un po’ così, cioè chiedo ancora il bicchiere d’acqua quando entro in casa per dire capito, nel senso un po’ particolare.. io non mi son perdonato su questi aspetti qua, non sono riuscito a perdonarmi, ho ricevuto la grazia,
Davide De Santis: Applauso, merita puoi prendere fiato puoi prendere fiato
Pambianco: Scusate, è stato un percorso molto, molto difficile anche tanto, tanto anche da parte loro perché io dopo ritrovando una stabilità diciamo sana della vita eccetera ho pensato tantissimo anche ai sacrifici che hanno secondo me fatto loro, per riavvicinarsi a me, il fatto del perdonarmi determinate cose, è stata una bella botta che mi ha permesso di guardare avanti, superare lo scalino superare l’ostacolo e andare dritto. Per fortuna lì mi ha scattata un’altra cosa che il fatto di esser parte di una famiglia, cosa che non mi sono mai sentito, e questa cosa ti fa affrontare le cose in maniera molto, molto diversa perché come diceva lei il fatto che a un certo punto ti trovi tutte le mani tese che cercano di darti una mano e tu dici cavolo, ma non son più solo, ma non lo son mai stato solo, è che io quelle mai non l’avevo mai viste prima, capito? Questa è stata una cosa che veramente… ecco adesso in questo momento loro è la mia famiglia perché mio padre è morto, e mia mamma è ina RSA, c’è ancora e non smetterò mai di ringraziarli per questo, perché mi hanno salvato la vita, in quel momento mi hanno salvato la vita.
Davide De Santis: Capisco la tua commozione.
Pambianco: Sì non riesco tanto a parlare, scusate pensavo eravate un po’ di meno.
Davide De Santis: Capisco la commozione rispetto a un amore gratuito nei tuoi confronti è sempre tanto
Pambianco: L’amore gratuito è quello perché adesso, non riesci in questo mondo di oggi, la gente guarda tanto alle sue cose, capito? e tu non essendo parte, nascendo in un’altra famiglia non essendo mai stato, diciamo, dall’inizio, parte di quella famiglia entrarci e capire determinate cose anche il fatto dell’altruismo, la gente che ti aiuta eccetera, io vengo dalla famiglia emarginata socialmente dicevo prima, non abbiamo parenti, sfortunatamente, una situazione molto particolare e diciamo che un aiuto, sì avevamo assistenti sociali, però io mio padre, mia madre non sono stati aiutati tantissimo, capito, nella loro vita, sono sempre … quindi io a questa cosa non ci ho mai creduto, all’aiuto, nell’aiutare gli altri l’ho riscoperta lì io questa cosa qua, e questa cosa qui mi ha fatto anche, diciamo, tutte queste cose hanno fatto sì che io immagazzinassi una visione della vita diversa da quella che io avevo prima, malata, e quindi questa cosa è stata una fortuna perché adesso in questo momento mi sta aiutando a crearmi una mia famiglia a, diciamo, a instaurare dei valori che mi hanno insegnato che mi che ho anche captato, che ho capito molto molto fortunato è una cosa che dovrebbero vivere tutti questa nel senso è difficile, però arrivare a comprendere determinate situazioni anche nella difficoltà dell’infanzia piuttosto che dell’adolescenza, perché dopo ognuno ha una storia a sé diciamo nessuna storia va sminuita, ecco è una cosa che.. mi sono bloccato
Davide De Santis: Vabbè, hai già preso più applausi di Draghi e tutti gli incontri fino adesso. Va bene, grazie Giampaolo veramente perché sei stato veramente…, hai colto il punto dell’amore gratuito Grazie. Passiamo a Leonardo e Letizia. Loro sono una famiglia di Famiglia per l’accoglienza hanno accolto… al telefono mi hanno raccontato diverse storie e quando sono arrivato alla mostra ho collegato tutto quello che mi avevano raccontato perché all’inizio della mostra c’è una frase di Giussani, anche questa molto semplice che dice “l’accoglienza e la condivisione sono l’unica modalità di un rapporto umanamente degno, perché solo in esse la persona è esattamente persona vale a dire rapporto con l’infinito” vi chiedo di raccontare quello che mi avete raccontato al telefono, a un po’ più di persone tenendo presente quello che dice Giussani qui prego.
Letizia Speccher: Allora anche noi siamo un po’ emozionati devo dire, poi voi non lo vedete ma c’è qui un countdown che continua ad andare avanti che mette un po’ di ansia, no allora quando abbiamo raccontato a Davide la nostra storia poi ho messo giù il telefono e mi sono come sorpresa di tutta una grandezza che gli abbiamo un po’ raccontato che ci è accaduta, nonostante noi proprio per cui io sono molto consapevole come di una inadeguatezza proprio di essere qui da una parte, ma anche di essere stata proprio oggetto di una di una bellezza nella vita che quando ci siamo sposati 15 anni fa non immaginavo.
Leonardo Speccher: Diciamo che è stata una storia fatta di piccoli passi e proprio nei primi anni di matrimonio abbiamo incontrato attraverso degli amici l’esperienza dell’associazione che ci ha affascinati, anche perché era una compagnia molto discreta che non imponeva nulla, ma era semplicemente affascinante da poter seguire per cui pian piano abbiamo seguito e così è nata la anche prima esperienza di accoglienza con una bambina piccola di un anno che per alcune ore in alcuni momenti accompagnavamo per sostenere la madre.
Letizia: Si è stata una cosa un po’ piccola, no, da una parte che però ha come ha aperto la strada poi passo dopo passo ad altre accoglienze, cioè ha come permesso di capire che aprire la porta di casa era una cosa conveniente innanzitutto per noi adesso siamo qui in vacanza con questa ragazzina appunto che aveva un anno e adesso ne ha 14 e ieri ci si è rivisti a cena anche con la sua mamma perché è nata proprio anche una bella amicizia, perché poi sono storie che al di là dell’accoglienza che magari si chiudono poi continuano, rimangono.
Leonardo: E così passo dopo passo negli anni successivi abbiamo accolto in affido un ragazzo di 13 anni. Fin da subito è stata chiaro è stata chiara la fatica di questo rapporto in quanto il ragazzo aveva messo un muro con noi, non voleva implicarsi non aveva condiviso questa decisione dei servizi, di chi aveva deciso che venisse da noi in famiglia e mi ricordo proprio nei primi mesi una giornata in cui all’ennesimo momento diciamo di gelo, di muro io proprio l’ho guardato, non mi ricordo cosa gli ho detto esattamente, però proprio percepito lì che quel rapporto mi era dato che era per me, che era al di là dell’esito cioè della risposta che da parte di questo ragazzo poteva arrivare, quel rapporto era un’occasione per me di andare più a fondo di ciò che mi interessava e ciò chi mi premeva.
Letizia: Prima Giampaolo diceva che lui non ha dato niente, no? a un certo punto hai detto non ho dato niente alla famiglia, ecco questo ragazzo che abbiamo accolto a me ha dato, nel tempo – e insomma anche un po’ con fatica in certi momenti e in cui ci siamo dovuti anche proprio riguardare e richiedere, ma perché vale la pena proseguire questa accoglienza? – a me ha dato proprio la consapevolezza che c’è un altro che opera nella vita a prescindere da quanto io ne sia a volte consapevole da quanto io me ne accorga, lui a un certo punto dopo i 18 anni ha deciso di andar via e dopo un po’ di mesi mi ha chiamato in lacrime chiedendo di poter riaccoglierlo, e questa cosa poteva non accadere perché non sempre c’è un esito, una conclusione felice, anche delle accoglienze che facciamo, però a me ha dato proprio questo passo di consapevolezza di guardare quel che succede, anche di accogliere questi ragazzi senza la pretesa di voler cambiare; io a un certo punto avevo proprio la pretesa di cambiarlo di volere che forse un po’ diverso da come era, anche di risolvere le sue fatiche i suoi dolori e il passo per me è stato proprio come guardare anche questo dolore che aveva queste ferite che si portava dietro dalla vita, questo inginocchiarmi davanti a lui e semplicemente fare un pezzo di strada assieme.
Leonardo: L’affido di questo ragazzo poi quando, diciamo, a un certo punto lo abbiamo accompagnato in un percorso, ecco di questo tentativo di uscita, però questa esperienza come se avesse un po’ preparato il terreno per quello che è venuto dopo e tant’è che poco dopo abbiamo deciso assieme di intraprendere il percorso dell’adozione a cui io diciamo, mia moglie è sempre stata più lanciata in questo io un po’ e resistevo, ma in questo proprio è come se fossi passato dalla questione dell’adozione, a proprio a questo desiderio di apertura totale come diceva anche prima Davide che prende dentro accoglienza, affido, adozione, sono ovviamente delle cose diverse, però è come se il desiderio si fosse aperto completamente per cui c’era proprio questo desiderio di essere disponibili a ciò che la vita ci avrebbe posto davanti e così mi sono anche trovato molto più docile e disponibile in maniera che non avrei mai pensato per come posso essere io come carattere, al che è successo un imprevisto, è arrivata attraverso la rete della nostra associazione una richiesta di far compagnia a bambina di 8 mesi che era ricoverata da sola in ospedale che chiameremo adesso Caterina e abbiamo cominciato con altri dell’associazione a fare compagnia a questa bambina in ospedale e alla fine per un mese e mezzo abbiamo fatto compagnia 24 ore su 24 a questa bambina in tutti i bisogni, fino a che a un certo punto c’è stato chiesto di prendere in affido questa bambina e io ricordo, anche con proprio quei momenti che poi si sono ripetuti, con mia moglie, il sì che ho detto, poi ripetuto e ridetto è stato talmente evidente che mai mi sarei aspettato. Così evidente anche perché è come se fosse stata una risposta a qualcosa di imprevedibile che io non avevo calcolato, imprevedibile ma anche così corrispondente a quello che il mio cuore desiderava.
Letizia: Io quando l’ho vista per la prima volta in ospedale non sono riuscita neanche avvicinarmi al lettino perché c’era un po’ di odore nella stanza e era lì attaccata con un sondino nel naso una serie di altri tubicini, mi faceva un po’ quasi un po’ impressione, e anche quando avevamo dato la disponibilità per l’adozione, la questione della disabilità si disabilità no, insomma io ci avevo messo un po’ a decidere, un po’ per come sono fatta io un po’ per altre famiglie che vedevamo che avevano figli disabili in casa. Mi sembrava un po’ un impedimento, il fatto di essere un po’ una persona dinamica, il muovermi come voglio e dover rallentare, e tutti questi pensieri un po’ fatti a tavolino, così, di fronte a lei sono proprio come caduti perché ho dovuto proprio cedere a una cosa così evidente, come diceva Leonardo adesso, cioè è stato un sì che è stato come di tutta una serie di percorsi, di passi che avevamo fatto negli anni precedenti, di piccoli, grandissimi, non so come dire, per cui è stata proprio un’evidenza dire quel Sì grande all’accoglienza di Caterina
Leonardo: Gli anni che abbiamo passato con lei sono stati pieni di vita, di fatiche, di dolore e di gioia e abbiamo visto una bambina poi che tra alti e bassi, perché abbiamo incontrato file di medici, ricoveri in ospedale d’urgenza, insomma sono successe di tutte, ma una bambina che, dal punto dal quasi immobile come era nei primi momenti, ha cominciato a muoversi acquistare, autonomia e a lanciarsi nella vita e aveva questo sondino che poi miracolosamente avrebbero dovuto operarla, ha potuto non fare l’operazione e cominciare a mangiare in autonomia; da ferma che era cominciato a muoversi a gattonare e stava cominciando a camminare mettendo dei tutori che l’aiutavano. C’era un’esplosione di vita cioè, lei stessa aveva una vivacità è un modo di lanciarsi verso le persone, tutti la ricordavano perché proprio con ognuno lei si lanciava protendendo le braccia per cercare un abbraccio, per cui in tutte le persone che incontrava lasciava veramente un ricordo fortissimo e contemporaneamente, e visto appunto che i genitori della bambina non erano più presenti, ci hanno chiesto, abbiamo fatto un percorso, e l’abbiamo proprio adottata.
Letizia: In pochi anni sono successe tante cose, anche faticose, perché siamo corsi tante volte in ospedale nel primo periodo a rimettere questo sondi nel naso che aveva per mangiare, insomma tante cose provocazioni della vita che in qualche modo mi chiedeva di stare, di stare davanti a quel fatto lì, a quella circostanza lì, a volte proprio anche con tutta l’impotenza di fronte a un dolore innocente quando per cercare la vena le facevano tremila punture, perché non gliela trovavano cioè tanti piccoli fatti in cui io mi sentivo veramente anche impotente e ripensandoci ci sono due cose che mi han come permesso di stare sempre di fronte a quel che quel che succedeva: da una parte degli amici che non ci hanno mai abbandonato, che quando eravamo ricoverati in ospedale anche noi ci portava da mangiare, ci portavano i vestiti puliti ci facevano compagnia in tanti modi e dall’altra un gran dialogo col Signore che per me è proprio come è aumentato in questi anni e nell’esperienza con Caterina tantissimo, perché è come un dialogo con un Tu presente che mi aveva dato, era un dono Caterina, me l’aveva proprio data, e quindi io ero in rapporto con lui potevo anche urlarle tutta la mia incomprensione in certi momenti e quando a ottobre dell’anno scorso siamo corsi per l’ultima volta in ospedale e poi ci hanno portati in elicottero d’urgenza, io con Caterina ero sull’elicottero lui non è potuto venire perché poteva andare un accompagnatore solo per cui c’è corso dietro in macchina, e lì in quel viaggio breve insomma in elicottero io proprio pregato di poter avere questa coscienza qui, cioè di poter vivere anche quella circostanza lì con questo dialogo aperto, con questo rapporto che mi permetteva di stare anche di fronte a quella circostanza lì che per me in quel momento era incomprensibile.
Leonardo: Ricordo proprio alcuni giorni prima di questo fatto, in un momento di coccole così con la bambina che proprio ho percepito come tante volte e tante altre volte avevo percepito per la storia che c’è stata per come si era sviluppata, che lei non era mia, non era nostra che ci era donata c’era donata gratuitamente e ho percepito proprio che chi ce l’aveva donata poteva anche chiedercela indietro perché tutto avevamo ricevuto e così poi nel giorno in cui in cui la situazione è improvvisamente precipitata e, mentre mia moglie era solo l’elicottero e andava in ospedale e io n potevo seguirla, mi trovavo a casa totalmente impotente, mi ricordo proprio in quei momenti lì mi ha fatto molto compagnia la figura di del Cardinale Van Thuan che molti di i conoscono, che ha vissuto proprio molti anni in isolamento completo, in una cella una situazione di maggiore impotenza che si potrebbe immaginare, eppure in quella situazione lì di abisso, la fede e la speranza sono rinate e lì proprio ho sentito come un una carezza, nel senso che siamo destinati a un rapporto e ad un amore eterni, e l’altro ieri proprio guardando la mostra ho rivissuto la stessa cosa vedendo, c’era quel quadro di Gastaldo, e per chi l’ha visto insomma questo blu buio e questa luce, dove proprio si vede questa questione che anche nella profondità, nell’abisso c’è una luce c’è un qualcosa che può rifiorire.
Letizia: Abbiamo fatto gli ultimi giorni gli ultimi giorni della sua vita che lei era già in coma in terapia intensiva e sono stati proprio un dono anche quei giorni lì perché per le restrizioni covid non poteva entrare nessuno se non poche ore di fatto, invece a noi è stato permesso, per la circostanza particolare, di vegliare giorno e notte con lei e lì abbiamo proprio sentito questa forza di cui parlava lui, da una parte nei volti dei nostri amici che si collegavano la sera per pregare con noi e poi anche in tanti volti che abbiamo incontrato lì in reparto, nel volto di un infermiere che puliva e accudiva la nostra bimba con una gran cura, anche lui commosso del miracolo che gli stava accadendo davanti, perché era la prima volta che accompagnava una bimba a morire e nell’incontro anche con una dottoressa che è stato veramente commovente che ci ha raccontato un po’ la sua storia di figlia adottiva che abbiamo incontrato lì insomma in tanti volti, che ci metteva come percepire che anche quei momenti non eravamo soli, è stata proprio una forza che ci ha accompagnato fi al giorno del funerale dove noi abbiamo proprio voluto che fosse un po’ un giorno di festa, per cui avevamo chiesto anche agli amici di vestirsi colorati, non di nero e abbiamo chiesto qualcuno di cantare con noi al funerale proprio perché volevamo che emergesse questo di più che ci stava proprio accompagnando passo dopo passo.
Leonardo: E questa consapevolezza proprio di aver ricevuto un grande bene è quello che continuamente mi e ci accompagna e proprio mi veniva proprio sentendo prima Mariangela, la questione di quanto… del dolore, che il dolore nasce dal fatto di voler bene, è l’altra faccia del voler bene, per cui è proprio un qualcosa che io sento proprio come, da questo punto di vista di una grazia, ecco e capita spesso anche con gli amici quando sentono o conoscenti, qualcuno che sente della nostra storia, a volte c’è il pensiero comune che viene fuori, che sfortuna! o cose del genere e a me invece viene continuamente da ringraziare, nel senso che questa storia poteva anche non esserci, noi questa bambina potevamo anche non incontrarla, oppure la storia poteva anche finire prima del previsto, e invece è stata una storia ricca, piena, sovrabbondante; sovrabbondante perché ho ricevuto molto di più di quello che avrei potuto immaginare e questa cosa qui non è una nostalgia del passato, ma un qualcosa che continua a essere presente qua oggi perché lei ci continua ad accompagnare anche adesso.
Letizia: Sì è questo per sempre che in qualche modo ci ha fatto guardare proprio la sovrabbondanza che c’è stata nella nostra vita con questa storia che ci ha fatto anche decidere di fare domanda per una seconda adozione e nel percorso che abbiamo fatto la psicologa a un certo punto mi ha chiesto se ho elaborato un po’ il lutto e io l’ho guardato tutto guarda, cioè dolore per la morte di un figlio non può sparire, magari cambia nel tempo sicuramente, però c’è un dolore che sono sicura resterà per sempre, così come il dolore di non avere figli nostri naturali, cioè io quando vedo tornare qui al meeting pensando che l’anno scorso eravamo qui con lei o vedere tutti questi bimbi, è un dolore che c’è nessuno può toglierlo, però è come se abbiamo imparato, ed è una cosa che dobbiamo continuamente ridirci, e non è che l’abbiamo imparato una volta per sempre, che ci interessa guardare non il dolore o quello che manca, cioè ci interessa guardare questo di più che abbiamo incrociato e che continua a esserci. Per cui questo desiderio, come dire, di fecondità che c’è, magari in maniera diversa da come avrai immaginato io, per questo che mi interessa come restare proprio attaccata alla vita, come raccontava Mariangela, che uno poi proprio gode, guarda di quel che c’è anche delle piccole cose. Volevamo solo concludere leggendo un pezzetto di una frase velocissima del Papa che mi aveva fatto tanta compagnia durante il lockdown quando eravamo con la nostra bimba in casa perché, così una cosa che ci ha proprio tanto accompagnato e una cosa che volevamo regalare anche a voi.
Leonardo: “Questa è la forza di Dio volgere al bene tutto quello che ci capita anche le cose brutte, Egli porta il sere nelle nostre tempeste perché con Dio la vita non muore mai”. Grazie
Davide De Santis: Grazie Letizia e Leonardo veramente, grazie mille, grazie mille veramente, la vostra commozione è anche la mia perché… dirò due brevi cose che dureranno 75 minuti, quindi chi si alza sarà fulminato… c’è il countdown che sta andando, anzi si è fermato e quindi devo fare veloce; riparto dalla domanda che avevo fatto prima a Mariangela perché è impressionante come tutti e tre hanno parlato di una convenienza nell’affrontare le cose e la domanda che ti ho fatto era, cosa ti permette di affrontare le complessità fino ad arrivare ad aprire le porte qualcosa che non è della tua carne e addirittura farla diventare familiare. Che cos’è che ti permette che tutto diventi avventura e appunto famiglia piuttosto che disperazione? io adesso ritorno dalle vacanze in cui una un mio amico ha portato in vacanza un bambino in più e dicevamo, che cosa si fa questo bambino in più? ‘abbiamo dato la disponibilità per prendere questo bambino e tenerlo con noi’ e questo ha dato luce a tutta la vacanza mentre, invece solitamente si pensa che è ciò che complica tutto; oppure ho molti amici che n posso avere figli e in questa drammaticità, standoci di fronte, hanno trovato invece nell’affido, nell’adozione, un aspetto che ha maturato la loro famiglia, ma tutti quelli che gli stanno intorno; perché andare a fondo di tutte queste complessità? io dico che il primo punto è che bisogna dare credito a tutto quello che ci succede, perché sennò ci perdiamo, ci perdiamo tante cose, oggi l’hanno detto, soprattutto Mariangela ha detto ci perdiamo tante cose che ci posso accadere e che potremo perdere. L’uomo è fatto per interessarsi alla sua felicità e soprattutto la felicità degli altri, addirittura Giussani, sempre nel ‘Miracolo dell’ospitalità’, diceva che anche se è inconsapevole, un gesto di condivisione è umano e cristiano, però prima o poi questa inconsapevolezza, anche la fatica della vita e le domande che prima facevano tutti questi amici, ti portano a chiederti il perché di tutte queste cose qua, ti portano a una strada di consapevolezza. Giussani sempre dice state all’erta, prendendo dal Vangelo, state all’erta, siate coscienti, coscienti di che cosa? coscienti di chi ci dona tutto, l’avete detto fino adesso tutti ed è quello che sconvolge che chi ci dona tutto ce lo dona gratuitamente e quello che dicevi prima, Giampaolo, è bellissimo, perché uno si aspetta sempre un do ut des, quindi la mia famiglia mi ama però io mi devo comportare in un certo modo, ma allo stesso tempo la famiglia che accoglie dice io faccio una cosa, il figlio dovrà fare quella lì. Invece la tua famiglia ha continuato ad amarti addirittura fino al punto che tu hai detto tutti dovrebbero fare un’esperienza del genere. Ecco questo è il punto, cioè, queste avventure nascono perché si è amati gratuitamente; quindi, uno cerca sempre di imitare questa gratuità. Sempre Giussani dice “lo scopo adeguato della fatica inerente al lavoro – non lo dice su quindi solo rispetto… lo dice rispetto al lavoro – del dolore che sempre accompagna il lavoro e i rapporti vissuti, ciò che può dar ragione sopportare il lavoro è Cristo” e il momento in cui, come dicevano Leonardo e Letizia, cambia tutto è quando riesci a dare un volto a questa parola a questo Cristo; da qui che scatta una letizia una gratuità immensa, perché uno, io dico sempre da una gratitudine, quando incomincia a conoscere qualcuno che ti ama incomincia a fare come lui, incomincia a essere gratuito su tutto e l’ultimo punto che volevo dire è questo, e questo l’han detto tutti e tre, poi anche nella mostra è molto chiaro nei disegni di molti artisti, è l’importanza di avere degli amici, degli amici che ti sostengo non solo dal punto di vista fisico, quindi nella realtà ma amici che non ti fanno sedere, ti riaprono la ferita, a volte ti danno anche delle risposte, ma sono sempre pronte a guardare con te quello che accade. Questo è fondamentale, è fondamentale perché ti consente di andare a fondo di tutto quello che succede, anche di trovarti in un posto sperduto, vedere uno sguardo di una bambina, innamorarsi di quella bambina e nel rapporto con i tuoi amici, riesci andare anche a fondo di un semplice sguardo. Quindi questo è quanto, io volevo ringraziare tutti, anzi l’ultimo punto è un altro consiglio per gli acquisti di libri, devo fare un po’ di fatturato per la Mongolfiera che l’associazione di cui so presidente, c’è un altro libro che è “Chiedimi se sono felice”, sono alcune esperienze di famiglie con figli disabili che si può comprare in libreria. Io ringrazio tutti i relatori con un grande applauso, anche perché qui il countdown è arrivato a zero potrebbe auto-esplodere tutto l’Auditorium. Ultimo avviso il Meeting è un evento del tutto unico è l’esito sorprendente sempre nuovo di una straordinaria collaborazione umana, una civiltà non cresce senza cultura, dialogo e bellezza ne sono la linfa vitale, il Meeting è da sempre luogo di cultura, ciascuno di voi può contribuire a far continuare questa grande storia, lungo tutta la fiera troverete le postazioni ‘Dona ora’ caratterizzate dal cuore rosso. Le donazioni dovranno avvenire unicamente ai desk dedicati dove vi aspetteranno i volontari che indosseranno la maglietta rossa ‘Dona ora’; una importantissima novità da quest’anno la fondazione Meeting è un ente del terzo settore, chi sosterrà il meeting potrà usufruire dei benefici fiscali al momento della dichiarazione dei redditi, comprate tutti anche i biglietti della lotteria e buon Meeting a tutti.