Chi siamo
ACCOGLIENZA: IL FRUTTO DELL’ AMICIZIA
S.E. Mons. Massimo Camisasca, Vescovo emerito di Reggio Emilia – Guastalla; Silvio Cattarina, Fondatore e Presidente Cooperativa Sociale L’Imprevisto; Catia Petta, Famiglia Accogliente; Luca Sommacal, Presidente Associazione Famiglie per l’Accoglienza; Jimmy Tamba, Coordinatore del progetto Sostegno a distanza per Avsi a Freetown, Sierra Leone. Modera Martina Saltamacchia, Distinguished Associate Professor di Storia Medievale all’Università del Nebraska, Omaha.
Questo evento offre una preziosa opportunità: esplorare il legame tra accoglienza e amicizia, grazie alle voci di alcuni testimoni e alla riflessione sul tema affidata a Mons. Camisasca. L’accoglienza, che può manifestarsi in diverse forme e situazioni come adozione, affido e accoglienza, di migranti, di profughi di guerra o persone in fuga da calamità naturali ed eventi straordinari, di giovani alle prese con varie dipendenze, si origina da una relazione costitutiva e profonda: l’amicizia. L’amicizia nasce sempre da un incontro e da una condivisione imprevedibili: essa può generare relazioni durature, significative e sempre nuove, ed è una fonte di speranza di fronte a situazioni e ad avversità che sfidano nel profondo il cuore dell’uomo.
Con il sostegno di Tracce.
ACCOGLIENZA: IL FRUTTO DELL’ AMICIZIA
ACCOGLIENZA: IL FRUTTO DELL’ AMICIZIA
Domenica, 20 agosto 2023 ore: 21.00
Auditorium Isybank D3
Partecipano:
S.E. Mons. Massimo Camisasca, Vescovo emerito di Reggio Emilia – Guastalla; Silvio Cattarina, Fondatore e Presidente Cooperativa Sociale L’Imprevisto; Catia Petta, Famiglia Accogliente; Luca Sommacal, Presidente Associazione Famiglie per l’Accoglienza; Jimmy Tamba, Coordinatore del progetto Sostegno a distanza per Avsi a Freetown, Sierra Leone.
Modera:
Martina Saltamacchia, Distinguished Associate Professor di Storia Medievale all’Università del Nebraska, Omaha
Saltamacchia. Buonasera e benvenuti a tutti a questa prima serata della quarantaquattresima edizione del meeting di Rimini dal titolo L’Esistenza Umana è un’amicizia Inesauribile. L’incontro di stasera vuole guardare alla parola centrale del titolo amicizia, spesso banalizzata e da appiattita, per offrire la preziosa opportunità di un affondo sul suo significato e lo facciamo sorprendendo in azione nel presente e nella storia un frutto inconfondibile dell’amicizia, l’accoglienza, guidati da alcuni testimoni d’eccezione. Abbiamo qui tra noi e ringraziamo sua Eccellenza Monsignor Massimo Camisasca Vescovo emerito di Reggio Emilia Guastalla; Silvio Cattarina fondatore e presidente della Cooperativa Sociale L’Imprevisto; Luca Sommacal Presidente dell’Associazione Famiglie per l’Accoglienza; Katia Petta professore associato di fisica sperimentale delle interazioni fondamentali all’Università di Catania; e Jimmy Tamba coordinatore del progetto sostegno a distanza per Avsi a Free Town in Sierra Leone.
Silvio, da oltre 30 anni le comunità dell’imprevisto accompagnano giovani devianti e tossicodipendenti. In questa esperienza di accoglienza di chi si lascia inghiottire dal proprio male perché pensa di non valere più niente cosa hai scoperto e continui a scoprire?
Cattarina. Il più povero, il più bisognoso, il più piccolo dovevo essere io, sono io. Questo ho capito dopo i primi lunghi anni che avevo intrapreso l’esperienza di accoglienza verso tanti ragazzi. Mi è toccato di imbattermi, ho avuto questo grande dono di incrociare la mia vita con quella dei ragazzi difficili, devianti, tossicodipendenti, arrabbiati, aggressivi, e generosamente mi sono prodigato per ogni sorta di aiuto nei loro confronti, quando a un certo punto ho sentito forte il mio bisogno, il bisogno del mio cuore. Sì, chi più aveva urgenza necessità, fame e sete di accoglienza, cioè di amore, di giustizia di bellezza sono io. Allora ho fermato un po’ il respiro, ho cominciato a guardare altrove ad alzare lo sguardo, a chiedere a cercare. Così un giorno, quando uno dei miei ragazzi per l’ennesima volta disse la frase che di tanto in tanto scappava loro di bocca: quanto bene ci vuoi tu Silvio? Ricordo, ricordo ancora il luogo loro il giorno che per la prima volta io risposi quello che finalmente il mio cuore cercava: no, non siete quelli a cui voglio più bene, non siete quelli che più amo, io voglio, desidero, chiedo, di essere capace di amare più la vita di amare più Dio. Voglio essere il primo, quello che per primo arriva a Dio, mi arrabbierò infinitamente se scopro che invece qualcuno di voi arriverà ad amare Dio più di me. Dopo qualche attimo chiaramente aggiungevo che se qualcuno di loro in questa corsa mi avesse battuto, volentieri avrei ceduto il passo. Ricordo anche che qualche giorno dopo rivolgendomi ai ragazzi ebbi ad aggiungere: quando voi parlate di bene, che vi vogliamo bene, voi pensate all’affetto. Per voi il bene l’amore coincide con l’affetto, con la vicinanza, con la sollecitudine la premura. Non è così, non è solo questo. Anzi queste condizioni sono solo una piccola parte del bene. Il vero amore è un compito, una responsabilità, un’avventura, un cammino, una sfida, un ideale. Io e i miei amici con i quali sosteniamole comunità dell’imprevisto a Pesaro desideriamo chiamarvi a tanto, a molto, a una cosa nuova, grande; insomma, nel mio cuore e grandemente in quello dei miei colleghi cominciava ad albeggiare un giorno nuovo un’era nuova. Lo si vedeva guardando i ragazzi per il modo come loro guardavano noi e le cose, per il passo più leggero e spedito che avevano. Abbiamo capito piano piano i nostri occhi hanno cominciato ad aprirsi, a comprendere, a sentire di più, meglio, altro, un’altra cosa, un’altra presenza. A desiderare una misura nuova. Non sei il tuo passato, non sei il tuo limite. Chi mai ti ha fatto credere che tu sei il male commesso o quello ricevuto? Si può cambiare, si può ricominciare, anzi di più, molto di più: si può volersi bene. Si può aiutarsi. Non siamo più nel paganesimo dove tutte queste cose non erano neanche immaginabili. Così ancora sempre più nitidamente mi scappò di dire: ragazzi non siamo qui per la droga o per la condanna penale per i debiti, ora si dovrebbe dire per l’autolesionismo, per il gioco d’azzardo, per la depressione, per l’anoressia, per i tentati suicidi, l’isolamento. Siamo qui per altro, per molto di più. Se siamo qui solo per i problemi per cui siamo entrati è troppo poco. Quando uno entra in comunità, dopo pochi attimi, mi avvicino, lo guardo, lo abbraccio. E subito, subito, ancor prima di subito, gli dico: cerchiamo, aiutiamoci insieme a cercare una grande cosa. Se nella realtà c’è qualcuno o qualcosa di così grande che venendoci incontro ci porta ogni sorta di bene, di dono di grazia, di aiuto, di conforto. Spesso racconto loro la parabola dello sposo d’eccezione, che ha preparato un grande banchetto nuziale e nessuno riesce ad accogliere più il suo invito, non vuole, non riesce. Chiediamo e cerchiamo qualcuno e qualcosa di così grande che ci aiuti ad essere amici per sempre, per sempre. Con queste parole, con le parole che ora uso con voi ho cominciato a parlare ai ragazzi liberamente, tranquillamente. Un tempo, quando ho iniziato le comunità, quarantatré anni fa, non parlavo così, non mi rapportavo in questo modo. Nasco come sociologo, nel corso degli anni sono diventato anche psicologo. Un po’ per questo, un po’ per il mondo, per la televisione, per la mentalità corrente, pensavo che un conto ero io altro conto erano i ragazzi. Quello che era buono per me chissà per i ragazzi se lo sarebbe stato, tante cose loro non potevano capirle. I primi lunghi anni della mia esperienza lavorativa sono stati alquanto sofferenti e angosciati, sentivo tutto sulle mie spalle, pensavo che quest’enorme dolore e sofferenza dovesse essere io, io con la mia capacità e forza, a dovervi rispondere. Erano più le notti che non dormivo, insomma i ragazzi chi erano? In definitiva chi erano loro e io chi ero? Erano i destinatari del mio bene, l’oggetto del mio servizio, e io l’elargitore di un servizio. Che povera cosa, che situazione misera. Né loro né io veramente protagonisti, attori vivi e veri della vita. Stando con i ragazzi, vivendo giorno e notte con loro, se hai un cuore puro vedi, scopri, capisci molte cose. Ho intuito, anche questo mi è saltato addosso all’improvviso un bel giorno durante un acceso incontro fra i tanti che quotidianamente effettuiamo con i ragazzi, ho intuito che la cosa più bella e importante che io posso fare per loro è il grido; se possa essere davvero importante per voi ragazzi io vorrei esserlo per come vi faccio vedere, vi testimonio come io grido alla vita, a Dio, che mi dia tutto. E così di giorno in giorno, di anno in anno, ho continuato a dire: la vita è un grido, la vita non è una questione di riuscita, di successo, di potere, di performance, come pensate voi. Per questo molti si drogano, per aumentare le capacità prestazionali. La vita invece è un grido, una domanda, una preghiera, un’invocazione, una supplica. Quanta vergogna, quanto incredibile ritegno ad usare certe parole così belle, esplicative suggestive. Dicevo e dico ai ragazzi: io voglio essere degno e fatto capace, essere all’altezza di questo grido. Se sono così, se sono questo, mi sento amico vostro e sento voi amici miei. Voglio stare con voi, esservi vicino, per imparare, per aiutarci ad essere questo grido, per esprimere, per lanciare, per innalzare questo grido, per farlo arrivare in alto in alto, lontano, lontano. Non voglio avere a che fare con dei poveretti con delle mezze cartucce, ma con uomini veri grandi. Su questa vicenda del grido con i ragazzi, ricordo, ci siamo soffermati per un buon tempo. Erano colpiti, contenti, si notava che avevano compiuto un passo buono, significativo. Questa storia del grido gli piaceva. Mancava qualcosa però, qualcosa si inceppava. Il grido diventava sempre più forte, lancinante sanguinante, ma tutto finiva lì? Esisteva solo il grido? La cosa cominciava a diventare difficile, quando ho detto: se c’è il grido vuol dire che c’è chi lo ascolta, chi lo prende, chi lo vuole, chi lo sa guardare, chi da sempre atteso ha cercato il mio grido, chi lo abbraccia, chi lo conosce già ancor prima e più profondamente di quanto e quando mi scoppia in petto. Sì ragazzi, il nostro grido ha un senso, uno scopo. C’è un porto, una meta. Ecco cari ragazzi, perché da un po’ di tempo vi sto dicendo: non guardate me, guardate piuttosto dove io guardo. Questo è molto più interessante più responsabilizzante, insomma, dico sempre più, dico ad alta voce: quello che il nostro cuore cerca, ha sempre cercato, c’è, esiste, vive, è dato. Il primo è più grande atto d’amore, di verità, è quello che porta ad ammettere che c’è, che esiste, una grande cosa, un imprevisto appunto. Questo vale soprattutto per te ragazzo mio, per te che non volevi venire in comunità, per te che odi tutti e tutto, per te che hai sofferto che hai attraversato tante e dolorose prove, tu puoi e devi gridare di più, cioè, chiedere di più sperare di più. Amare di più. Mi ricordo che spesso dico ai ragazzi: se io fossi in voi, al vostro posto, e pensassi, scoprirsi, che tutto il dolore che mi è toccato di vivere non serve a niente e a nessuno, io mi arrabbierei davvero tanto, io spaccherei tutto. Ecco: la nostra vita la nostra amicizia, l’accoglienza che reciprocamente ci offriamo sono questo, queste parole, queste domande, questo struggimento, questo grido, questo lavoro, questa verità. Se la vita è tutto questo, questa grande, impegnativa, affascinante avventura, allora noi adulti possiamo, riusciamo ad essere anche molto precisi, esigenti, anche severi verso i ragazzi. Ho visto, abbiamo capito, che ai ragazzi, all’amico, all’altro, è giusto chiedere tanto, chiedere tutto, altrimenti è come se non credessimo in lui, come se non gli dessimo valore, e soprattutto chiedere tanto, tutto, a chi molto ha sofferto. A chi ha sofferto occorre chiedere il doppio, altrimenti è come se non si potesse dare alcun valore alla sofferenza che ha passato. Chiedere tanto e chiedere tutto per l’infinito bisogno di amore, di giustizia, di bellezza, di cui è pieno il nostro cuore. Le case, il giardino, il parco, le giornate, i vari momenti, gli spazi, le attività, il mangiare e il bere, il lavoro e il gioco, il giorno e la notte, desideriamo siano l’esplosione di questa bellezza, cosicché sempre più profondamente abbiamo capito, che per capire tutto questo ci vuole un lavoro, un impegno serio, quotidiano, severo, certosino. Ecco: il motivo di due incontri, uno al mattino e una al pomeriggio, che ogni giorno, ogni santo giorno, anche sabato e domenica, anche tutta l’estate, Natale e Pasqua, svolgiamo insieme noi adulti con i ragazzi. Ogni giorno per due volte al giorno ci raduniamo, ci aiutiamo a capire, a comprendere, a giudicare, a valutare, a criticare ogni cosa, gesto, azione, avvenimento. A dare un nome alle cose, insomma, sapere per capire per amare, amare per perdonare per donare per abbracciare. Non si vive senza intelligenza, senza profondità, senza passione, senza commozione, senza abbraccio, senza saper ridere, saper piangere, senza saper parlare, dire, cantare, ballare, giocare. Senza tenerezza e dolcezza. In conclusione, più di tutto sempre desideriamo, chiediamo, che sia lo sguardo a illuminare, a dipingere, a contraddistinguere ogni nostro gesto. Sia lo sguardo ad emergere, ad esplodere, a dire, ad esprimere la nostra vita, la nostra amicizia, a testimoniare al mondo il bene che abbiamo incontrato il grande imprevisto che ci ha chiamato convocato radunato. Sì, lo sguardo. Io vorrei essere capace di guardarvi come vi guarda Dio, con lo stesso sguardo di Dio. Quando dico così ai ragazzi vedo che per un breve attimo sono perplessi, quasi contrariati, ma subito si nota, si capisce, che in fondo in fondo sono contenti, orgogliosi. Ma quando aggiungo: anche voi, anche voi ragazzi dovete guardare me come mi guarderebbe Dio! Si scorge, si legge nei loro volti, che non sono più contenti, sono spaesati, fanno finta di non capire, cominciano a guardare di qua e di là, di su e di giù. Invece capiscono più di me, capiscono che è vero che è giusto. Quanto sarebbe bello, ma pensano di non esserne degni di non essere capaci di una cosa così grande bella e vera, di non meritarla. E poi concludo con sempre maggior forza e convinzione: ragazzi, amici, quello che fate qui dentro, ciò che di buono qui guadagnate, o serve o è utile a tutto il mondo, oppure davvero è inutile, non vale neanche per voi.
Saltamacchia. L’accoglienza, dicevi, che reciprocamente ci offriamo, sono queste domande, questo struggimento, questo grido che poi esplode nel desiderio di poter guardare tutti con lo stesso sguardo di Dio. Luca, a partire dal tuo lavoro con Famiglie per l’Accoglienza, famiglie che aprono le porte della loro casa al bisogno dell’altro, in che senso l’accoglienza è il frutto dell’amicizia?
Sommacal. La vostra è un’esperienza di un’amicizia, così Don Giussani diceva ai responsabili della nostra associazione nel 1991. Siamo famiglie normali portate dalle circostanze della vita ad aprire le porte della propria casa a figli, ragazzi o adulti bisognosi, e in questo scopriamo una ricchezza per la nostra esistenza. Famiglie che si mettono insieme per accompagnarsi ad affrontare le sfide che ogni esperienza di accoglienza porta con sé. Una compagnia ovvero un’amicizia. Famiglie che camminano insieme condividendo fatiche, speranze, scoperte. Famiglie amiche, dove il termine amicizia è da intendersi nel suo senso più profondo, profondo e maturo, cioè rapporti che sostengono e rilanciano ciascuno nell’affrontare la propria vita in quella dinamica affascinante che è il senso del destino. Senza sconti, con immensa libertà e stima reciproca. Qualche tempo fa un amico, durante un nostro incontro, diceva riferendosi alla propria esperienza di accoglienza: è stato un cammino possibile solo all’interno di una compagnia nella quale passavano un giudizio e un bene, una compagnia che non si scandalizzava dei miei limiti ma al contrario con il tempo diventava un’amicizia sempre più profonda, una compagnia che non censurava le difficoltà ma nella quale le difficoltà potevano diventare il punto di partenza da cui costruire. Oppure un’amica, raccontando di un dialogo tra lei e il figlio adottivo ormai adulto che le chiedeva: ma per voi cosa è stata l’esperienza con me? Lei gli ha risposto: insomma ci hai fatto impazzire… e lui: lo so. Ma, ha aggiunto lei: sai se tornassi indietro rifarei quello che ho fatto con te. E raccontando di questo dialogo diceva: ma cos’è che ha tenuto nei momenti di difficoltà, di fatica, di dolore, di pianti? Ha tenuto la fedeltà di Dio attraverso una compagnia chiara, concreta, di volti che ci hanno ridato l’origine. È un’amicizia che ha a che fare con la vocazione familiare, che ne accompagna i passi, ed è forse per questo che ha una capacità di coinvolgere chi, trovandosi a vivere il medesimo desiderio, sente la necessità di una compagnia sincera. Sono tante, Infatti, in questi anni le famiglie incontrate che sono diventate carissimi compagni di cammino. Un altro amico racconta come durante un corso di preparazione all’adozione uno dei partecipanti ci abbia ringraziato perché credeva di aver risolto la ferita del non riuscire ad avere un figlio. Dopo il corso ci disse: avete tolto il tappo a una domanda che credevo di non avere più, ricominciare a dialogare con mia moglie di questo tema è per me un dono grande, anche se non so dove mi porterà. È un’amicizia che sente anche l’urgenza di proporsi collaborando con altre realtà associative, con le istituzioni con gli enti pubblici. Un’opera, dunque, frutto di un’amicizia. Un’opera fatta di famiglie, ma che esperienza si vive all’interno di ogni famiglia? C’è una dimensione originale espressa dalla formula celebrata dagli sposi nel rito del matrimonio “Io accolgo te” è un’accoglienza totale, dove l’altro, lo sposo la sposa, è abbracciato, amato nella sua totalità, oltre e attraverso i propri limiti in uno stupore infinito per la sua presenza, perché c’è, fino all’esperienza del perdono. E questa dinamica è generativa, apre, incontra accoglie e include. Così i figli, ma così anche chi si incontra sulla propria strada. La famiglia, dunque, come primo luogo dove si sperimenta l’essere accolti, e da questa esperienza quasi per osmosi ci si trova addosso la capacità di abbracciare l’altro, perché si accoglie, perché si è accolti, ma è più che essere accolti dall’altra persona: attraverso l’altro che mi accoglie sperimento l’abbraccio dell’Essere alla mia vita e proponendomi a mia volta ad accogliere trasmetto questo abbraccio, che non è il mio. È il mio ma non è il mio, è più del mio. E scopro così una strana reciprocità: nell’altro che accolgo, scopro la presenza di colui che mi ama e si accosta a me proprio attraverso l’altro che accolgo. Questo penso sia la reciprocità propria dell’amore, che è data da vivere almeno come possibilità ad ogni famiglia. Questa dinamica si è sorprendentemente attivata negli ultimi anni con la pandemia e più recentemente con la crisi della guerra in Ucraina. Quando è scoppiato il conflitto ci siamo messi a disposizione per aiutare ad accogliere i profughi che sarebbero arrivati in Italia, ci siamo organizzati come associazione, e molte nostre famiglie si sono rese disponibili, oltre ad accogliere i rifugiati, a sostenere la macchina operativa lavorando assieme ad altre realtà, tra cui Avsi. Abbiamo accompagnato chi ha ospitato, e così ci siamo trovati coinvolti in una diffusa e fitta rete di solidarietà fatta di singoli e di famiglie che in tutta Europa si sono e si stanno ancora adoperando per aiutare il popolo ucraino, e questo è un paradossale frutto di bene che la guerra ha generato. Pensate che in tutta Italia abbiamo raccolto la disponibilità ad ospitare in casa profughi da oltre 800 famiglie. Ci siamo così aiutati a cogliere come ogni gesto di accoglienza vissuto in ogni famiglia, anche piccolo o breve, abbia come orizzonte il mondo, e contribuisca alla costruzione della storia, della pace. Questa grande disponibilità, questa grande onda di bene che stiamo intercettando, è la conferma di quanto afferma il Papa in un recente libro quando dice: abbiamo bisogno di uscire da noi stessi perché abbiamo bisogno gli uni degli altri. E’ quella reciprocità di cui parlavamo prima, essenziale allo sviluppo di ogni rapporto umano, tanto più necessaria quanto maggiormente ci accostiamo a chi è sofferente o bisognoso. Una originale apertura all’altro che ha nella famiglia, accogliente per natura, il primo luogo di esperienza, dove l’altro non viene rinchiuso in ciò che può dire o fare ma, sempre citando il Pontefice, viene riconosciuto, considerato, per la promessa che porta in sé. Ecco, è questo riconoscimento in fondo che guida ogni nostro gesto di accoglienza.
Saltamacchia. Ogni gesto di accoglienza ha vissuto in ogni famiglia, anche piccolo breve, ha come orizzonte il mondo e contribuisce alla costruzione della storia della pace. Parole non astratte, Catia. Per la tua esperienza come nella tua vita ogni piccolo gesto di accoglienza ha a che fare con la storia del mondo?
Petta. Vi racconto la mia storia per quadri. Quando ero piccola mia mamma insegnava in una scuola maschile differenziale, all’interno di uno istituto per bambini con complicate situazioni familiari. Spesso qualcuno di essi arrivava in casa nostra per trascorrere insieme a noi il weekend o le vacanze scolastiche. Tra tutti i bambini il più terribile era Giorgio, quello che quando si arrabbiava in classe poteva anche sollevare un banco e scagliarlo sul compagno. Si avvicinavano le vacanze di Natale e Giorgio diventava sempre più agitato, mia mamma gli chiese: vai a casa per Natale? Giorgio: no, mia mamma non sa nemmeno dove mi trovo, qui non è mai venuta. E allora tu le scrivi una lettera e le chiedi divenire a prenderti, ti aiuto io. Ma lei non sa leggere maestra. Non importa quando arriverà la tua lettera lei troverà sicuramente qualcuno che gliela leggerà. Quel Natale Giorgio tornò a casa sua, e quando rientrò in classe era diventato un altro. Mia mamma, con piccoli gesti, mi aveva insegnato i primi rudimenti pratici dell’accoglienza. Aveva letto il desiderio di Giorgio attraverso i segni contraddittori della sua agitazione, del disagio, si era fatta amica, di più, alleata di quel desiderio, e poi aveva lasciato andare quel bambino, non lo aveva trattenuto per sé. Cresco, incontro Ugo che poi sposerò, frequento l’università. Nel tempo libero con tanti amici e con qualche collega vado a Picanello, un quartiere popolare di Catania dove abitano le piccole suore dell’Assunzione. Attorno a loro c’è una trama di persone che incontra, aiuta, si affianca alle famiglie del quartiere. Si raccolgono i bambini dalle strade, si avvia un doposcuola risistemando i locali del Convento, noi andiamo spesso con le suorine nelle case delle neomamme, le aiutiamo ad accudire i neonati con i gesti in silenziosa naturalezza. Si insegnano cura e tenerezza laddove mancano, a tenere in ordine la cucina, la biancheria, la casa, fino al punto che tre famiglie di questo gruppo accolgono in casa propria tre fratellini di un nucleo familiare in condizioni critiche. La loro esperienza non è stata semplice, ma è stata vissuta nella gratuità e nella totale condivisione con le suorine e con gli amici. Per noi è stato un cammino. Poi mi sposo, nasce Francesco che adesso ha 30 anni ed è una gioia immensa, una seconda gravidanza non arriva: è lì che incontriamo famiglie per l’accoglienza. Grazie a loro arriva in affido Giusy, una bambina siciliana di 11 anni che crescerà con noi fino ai 21. Con lei, come con ogni figlio, siamo stati accompagnati a leggere i desideri più profondi spesso nascosti in comportamenti e scelte complicate, siamo stati guidati ad allearci con questi mentre lei ci portava in luoghi e situazioni che non avremmo nemmeno immaginato, abbiamo imparato ad affermare, attraverso i nostri limiti, dentro i nostri limiti “tu sei un bene per me”, perché siamo certi di essere noi un bene per il Padre. Ci sono parole di Don Giussani che si sono incise come un tatuaggio nel nostro cuore tanto sono vere. L’accoglienza è il perdono della diversità dell’altro, accogliere e perdonare è lo stesso. Giusy è tornata nel suo paese, si è sposata ed ha una bimba. È una donna che abbiamo imparato ad amare e a lasciare andare. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina io sono stata investita dalla commozione di fronte alle notizie e alle immagini che arrivavano, io come tutti. Immediatamente una mia giovane amica, una ragazza universitaria timidissima, mi scrive un sms: cosa possiamo fare noi qui? Contemporaneamente su una chat locale di famiglie per l’accoglienza qualche famiglia già si offre per accogliere le persone in fuga e un lampo di idea raccogliamo le disponibilità. Quindi con un passaparola nel giro di pochissimi giorni raccogliamo un elenco con centinaia di famiglie disposte ad accogliere i profughi in Sicilia. Nell’estate dello scorso anno arrivano le mamme ucraine con i loro figli, viviamo una condivisione piena dei loro bisogni, sosteniamo le famiglie che le hanno accolti a volte anche economicamente. Una coppia di cari amici festeggia in quei giorni le nozze d’oro, e commossa destina tutti i regali in aiuti ai profughi. C’è una rete di amicizia che si muove alla ricerca del lavoro, dei corsi di italiano, per accompagnarle ovunque ma anche per creare momenti di convivialità e di svago, sotto gli ombrelloni al mare. Tocchiamo il loro dolore. Alcune vengono da Kharkiv, hanno il marito al fronte, altri figli nelle retrovie. Mescoliamo le nostre lacrime alle loro, offriamo lo spazio del nostro abbraccio impotenti ma con loro. A gennaio, arriva a casa nostra Darya, un dono grande, assolutamente imprevisto. L’avevo conosciuta un mese prima in una call con le amiche Flavia, Rosalba e Donatella di Help Ukraine Point. Lei era già stata in Italia dopo l’inizio della guerra, per sei mesi aveva accompagnato un bambino senza famiglia autistico disabile da un istituto per un delicato intervento chirurgico. Ne era stata la tutrice. A novembre era rientrata a Kiev ma adesso chiedeva di poter tornare in Italia. Quando le domando le sue competenze non mi aspetto la sua risposta: è laureata in chimica, e io insegno proprio al corso di laurea in chimica. Con i miei colleghi le proponiamo di riprendere gli studi, e così si iscrive alla magistrale, felice di rientrare in un settore che aveva dovuto abbandonare. Quando una sera a cena racconto a mio marito che adesso occorre trovarle una famiglia che la ospiti, lui che aveva seguito tutte le fasi di questa storia, senza nemmeno conoscerla mi dice: e perché non noi? Che cosa determina questa apertura se non un’amicizia che viene prima, che sta all’origine di noi prima ancora di incontrare l’altro. Con Darya abbiamo subito vissuto la gratitudine per questo incontro, una familiarità, un desiderio reciproco di vivere in relazione, di conoscerci, di cercarci nelle pieghe profonde della fragilità e del dolore attraversato. Lei con la sua storia personale e la guerra, noi con le difficoltà quotidiane della cura ai miei genitori anziani. Un giorno ci ha detto che non si considera più ospite ma “family”. Che vuol dire vivere l’accoglienza reciproca tra adulti come famiglia? Per noi è una domanda che resta aperta, l’accoglienza tra adulti e il miracolo delle nostre libertà. Noi non siamo perfetti ma realmente amici, sbagliamo continuiamo a cercarci per riprendere insieme dal perdono reciproco. Questo lo abbiamo imparato soltanto nella chiesa, lo vediamo in atto in tanti tra noi in tante storie, che il male e il limite non sono lo scandalo di sé né la parola che chiude i rapporti umani. Nel rapporto quotidiano con Darya, in questo snodo di un cuore che si apre e riapre all’altro, si gioca concretamente qualcosa che ha a che fare con la storia del mondo, con la possibilità planetaria della pace e della concordia, dell’amicizia reale tra i popoli che nasce e può vivere solo in una accoglienza che è perdono.
Saltamacchia. Si accoglie perché si è accolti. Jimmy, oggi lavori come coordinatore del progetto sostegno a distanza per Avsi in Sierra Leone e sei il padre adottivo di due ragazze. Cosa ha reso possibile per te, ex bambino-soldato, questa accoglienza?
Tamba. Vengo da una famiglia di sei persone, con tre sorelle e due fratelli, e io sono il terzogenito. Un ex bambino-soldato che era stato catturato in tenera età, addestrato per diventare un soldato, far parte di un esercito per combattere una guerra non so per quale ragione o perché, e un individuo che ha vissuto molti traumi psicologici emotivi e fisici. Un individuo che, dopo aver perso il padre in tenera età, è diventato un modello di riferimento per altre persone nella vita e nella società di oggi. Non è stato un viaggio facile, eppure sono riuscito a farcela. La maggior parte dei miei compagni che hanno avuto un’esperienza simile alla mia non ce l’hanno fatta, alcuni sono diventati tossicodipendenti, altri sono impazziti, altri ancora si dedicavano a attività di carpenteria notturna, erano scassinatori e ladri addirittura, alcuni sono stati mendicanti e alcuni sono morti per delle malattie strane. Non è stato un loro desiderio ma non hanno avuto una persona a cui guardare, un individuo in grado di capire i loro bisogni o di aprire le braccia per guidarli e di conseguenza dare a loro il sostegno necessario per poter cambiare o migliorare la loro vita. Per i defunti: che le loro anime riposino in pace.
Sono stato un bambino-soldato, ma adesso sono laureato con una laurea triennale in Governance e Leadership, una laurea di primo livello, e presto mi laureerò con un master in gestione dello sviluppo e un diploma post lauream in Scienze della Formazione allo stesso tempo. È una trasformazione che non avrei mai immaginato, però sta succedendo, ed è stato un viaggio lungo, con tantissime sfide di cui non mi metterò adesso a parlare altrimenti non andremo più via stasera. Vorrei ringraziare il Movimento delle Case-famiglia e reverendo padre Joseph Berton che mi è sempre stato vicino e mi ha guidato nel mio percorso, pensando alla mia esperienza passata di bambino-soldato, e che ha visto così tanti scenari così strani nella vita che hanno influenzato il mio percorso personale scenari che possono portare a traumi e ad altri problemi di memoria. Lui non si è mai arreso con me non ha mai mollato, anzi mi ha insegnato il valore della vita, come si può essere una persona migliore nella vita nonostante il tipo di traumi che l’individuo può aver affrontato e io non faccio eccezione. Ero una persona molto difficile con cui interagire, e tutt’ora il mio caratterino, però il reverendo padre Berton ha passato molto tempo con me raccontandomi storie di persone che hanno avuto una storia simile anche se non uguale, ma che sono diventate delle persone grandi nella vita. E lui viaggiava sempre con me in tanti posti diversi per aiutarmi a rilassare la mente e aprirla alle opportunità che mi si presentavano davanti. Possa la sua anima gentile riposare in pace. E sono più che grato a una famiglia italiana che mi ha accettato come uno di loro anche se la razza, il colore e anche la religione non ci collegavano, non ci univano. Eppure, mi hanno visto come uno di loro, mi hanno permesso di rimanere nella loro casa per un anno intero e di vivere con loro e sentire la vita di una famiglia. Mi hanno sostenuto in tanti modi, soprattutto nei momenti di solitudine in cui non avevo voglia di parlare con nessuno, non si sono mai arresi, soprattutto mia madre e il mio fratellino. Devo loro molto e spero che stiano ascoltando questa mia testimonianza. Mi dicono sempre che non devo nulla a loro perché è stata la loro responsabilità in quanto famiglia, lo farebbero con qualsiasi membro della famiglia, e voglio dire grazie, sono orgoglioso di essere vostro figlio e vostro fratello. Sto parlando della famiglia Nembrini di Bergamo. Grazie mille Maria Grazia Franco e Gabriele. Il poco tempo che ho trascorso con voi mi ha insegnato molto sulla vita e sento sempre quelle emozioni della vostra gentilezza, mi avete dimostrato che ognuno ha un valore, tutto dipende dal tipo di persone con cui si interagisce e da quelle che hanno passione empatia e amore per gli altri. Davvero vi sono estremamente grato, vorrei che mia madre Maria Grazia Nembrini e una sorella speciale Elga Contardi fossero sedute qui una accanto all’altra adesso che sto condividendo questa mia esperienza di vita.
Dopo che sono ritornato a casa dopo il soggiorno in Italia diversi anni, sono passati già più di quindici anni, sono tornato come una persona completamente diversa e ho imparato da questa famiglia delle cose che mi hanno guidato. Ho capito che ogni essere umano ha bisogno dell’attenzione degli altri, del loro ascolto e di essere valorizzati nel loro essere per aiutarli nel loro sviluppo personale nella loro trasformazione. Padre Berton, d’altra parte, mi diceva sempre queste parole: cerca sempre di aiutare gli altri, di avvicinarli ogni volta che tu ne hai la possibilità. Questo aumenterà la tua felicità.
Oggi, oltre a mio figlio biologico ho due bellissime figlie Mariama e Sali. Mariama ha quasi 20 anni adesso, e Sali ne ha quasi undici sono state allieve delle scuole della Sacra Famiglia, una scuola molto grande costruita da Avsi attraverso il Movimento delle Case-famiglia in Sierra Leone. Ho deciso di assumermi la responsabilità e di sostenerle entrambe come fossero mie figlie quando lavoravo come assistente sociale nella scuola, e dopo aver appreso le loro storie. Entrambe hanno delle storie di vita diverse, ho conosciuto Mariama quando aveva undici anni dopo il flagello dell’ebola nel nostro paese e ho visto sul suo volto che era depressa timida, non parlava mai, non interagiva mai con gli altri. Dopo aver fatto diverse osservazioni ho capito che aveva bisogno di attenzione. Frequentava la prima classe della scuola media, ho dovuto avvicinarmi a lei per capire che cosa stesse andando storto e perché fosse sempre triste e sola e non parlasse quasi mai con nessuno, così ho dovuto pensare alla mia vita precedente. Dopo diverse interlocuzioni mi ha spiegato la situazione che stava vivendo, è stato difficile per me sopportare quando mi ha raccontato la sua storia: un’orfana che ha perso entrambi i genitori in un giorno a causa del virus dell’ebola e che rimane senza nessuno che si prenda cura della sua istruzione, per non parlare della sua alimentazione. E un vicino che l’ha salvata l’ha quasi sempre maltrattata; quindi, ho dovuto allontanarla da quella famiglia per trasferirla in una famiglia neutrale dove ho potuto offrire il mio sostegno per il suo sostentamento. Sali invece ha avuto una storia diversa ma simile. Non aveva amici, non interagiva con i suoi compagni di classe, e in quel momento aveva solo tre anni. Me ne sono accorto perché ogni volta che andavo a visitare quella scuola materna per giocare con i bambini non si è mai avvicinata nemmeno una volta. Ho dovuto parlare con i suoi insegnanti per conoscere la causa della sua solitudine e le ragioni per cui si sedesse sempre da sola, e gli insegnanti mi hanno raccontato la sua storia. Mi hanno raccontato che sua madre era fuggita lasciando la bambina di un anno solo con la nonna e nessuno sapeva dove se ne fosse andata. La nonna lavorava come giardiniera ma non era in salute, non poteva in realtà continuare a fare quel lavoro; quindi, la bambina arrivava sempre a scuola senza merenda, senza cibo, e ho dovuto passare un po’ di tempo con lei da sola. Ho detto poi all’insegnante che da quel giorno lei sarebbe stata sotto la mia responsabilità. Oggi Sali frequenta l’ultimo anno della scuola dell’obbligo, invece Mariama ha completato la scuola secondaria superiore, sta aspettando i risultati. L’attività più importante che ricordo di aver svolto con loro è stata la celebrazione dei loro compleanni qualcosa che non avevano mai vissuto, non avevano mai festeggiato il loro compleanno in tutta la loro vita. Questa è stata la loro prima esperienza nel capire cosa vuol dire fare una festa di compleanno. Quindi dopo una lunga cena per fare la festa, sono tornate a casa dai loro affidatari e la mattina dopo andando al lavoro ho incontrato gli affidatari che mi aspettavano per esprimere la loro gratitudine e soprattutto la nonna di Sali mi ha detto che sono riuscito a malapena a dormire mentre continuavano a raccontare la loro esperienza per la prima volta e quello era stato il loro settimo compleanno. Hanno dovuto aspettare tanto tempo per capire cosa vuol dire fare una festa di compleanno. Oggi mi sento felice dentro di me nel vedere le mie figlie cresciute fino a raggiungere così un tale apice nella loro vita e questo lo devo alla famiglia Nembrini e a chi mi ha ospitato e alla mia sorella, ex collega di Avsi, Elga Contardi. Elga è stata ed è un mio pilastro portante nel sostenere la crescita di questi bellissimi bambini e bambine. La mia vita è stata come passare dall’essere un beneficiario a essere un benefattore, una cosa che io stesso non riesco nemmeno a immaginare, cioè un individuo che può sostenere la crescita di un altro per diventare una persona utile nella società: mamma mia, che mondo! Non è che io abbia risorse finanziarie per sostenerle, ma mi sono sentito in dovere di farlo perché è qualcosa che io ho imparato da diverse persone nella vita, con diverse esperienze che ho potuto incontrare. Ho questa convinzione nella vita ed è collegata alla mia esperienza. Se diciamo che dobbiamo avere abbastanza prima di poter aiutare gli altri, allora non funzionerà mai perché nulla è abbastanza per noi sulla Terra: anche i ricchi chiedono sempre di più, anzi pretendono di più delle persone medie o delle persone povere che vivono in mezzo a loro le persone di cui ho parlato prima non hanno mai avuto abbastanza e però mi hanno sostenuto e quindi mi sento orgoglioso di fare la stessa cosa adesso. Adesso lavoro come coordinatore di progetto per Avsi nel sostegno a distanza e sto lavorando con un numero maggiore di beneficiari rispetto a prima e con diverse comunità. Il mio obiettivo principale è trasformare la vita degli abitanti che non dispongono dei servizi sociali di base e lavorare in un piccolo villaggio come Madina Tabai, nella parte settentrionale della Sierra Leone, per esempio, una delle nostre aree operative, è diventata la mia sfida personale: una comunità che è priva di tutti i servizi sociali, nonostante sia situata sulla strada principale tra la capitale e la terza città, grazie al sostegno di Avsi, al mio impegno per trasformare la mentalità e la vita delle persone, ho visto molti progressi e devo fare di più. Oggi sono felice di aiutare gli altri a realizzare le loro potenzialità e di guidarli nel loro percorso di vita. Mariama e Sali mi hanno insegnato che le persone possono fare meglio e contribuire al progresso della società se vengono ascoltate e se ricevono la guida giusta e il sostegno giusto. Se tutti noi riuscissimo ad aprire le braccia agli altri, ad ascoltare i loro problemi interiori, ad avvicinarci a loro in modo che si sentano valorizzati, amati e a loro agio, allora vivremmo in un mondo di pace e di armonia, un mondo che non conoscerebbe il caos, la guerra, la soppressione e la depressione, le disuguaglianze e così via, le disuguaglianze di razza, di colore, anche le differenze religiose. Concluderò dicendo questo: tutti noi abbiamo l’opportunità di ospitare, sostenere e aiutare gli altri a realizzare e raggiungere il loro pieno potenziale. Impariamo ad aprire le nostre porte e le nostre braccia a coloro che ne hanno bisogno, che hanno bisogno della nostra attenzione, cura, sostegno e amore. Se lo facciamo tutti, il mondo sarà un posto migliore per tutti noi e non conosceremo mai la differenza tra ricchi e poveri, bianchi o neri. Come scritto nella Bibbia: “Qualunque cosa facciate al più piccolo dei miei fratelli e delle mie sorelle, la fate a me” dice il nostro Signore Gesù Cristo. Che Dio ci benedica tutti. Grazie, grazie.
Saltamacchia. Dunque da un’amicizia che risponde a un bisogno specifico e da una compagnia puntuale tra famiglie, quest’onda si allarga come apertura al mondo e alle necessità storiche, fino ad arrivare in Ucraina e in West Africa dove un ragazzino scampato dai miliziani e accolto in una famiglia italiana poi torna per continuare un’opera. Catia prima domandava: “Che cosa determina questa apertura, se non un’amicizia che viene prima, che sta all’origine di noi?”. Monsignor Camisasca, per concludere, vorrei chiederle di aiutarci a entrare in questa amicizia originale, guardando come si dipana nella storia a partire dalle testimonianze dell’antichità, fino ad arrivare alle storie che abbiamo ascoltato stasera.
Camisasca. Buonasera. Penso che abbiamo percepito tutti nelle commoventi parole che abbiamo ascoltato in tutti questi racconti lo scorrere della storia del mondo. Non stiamo parlando di qualcosa di marginale alla storia degli uomini, non stiamo parlando di sentimenti che stanno in un angolo, di avvenimenti particolari. Anche se il mondo non lo sa, stiamo parlando del motore della storia del mondo perché il motore della storia del mondo è l’amicizia e l’accoglienza. Certo della storia che guarda avanti, della storia che costruisce, perché c’è anche una storia che distrugge: lo sappiamo tutti, ne abbiamo sentito anche stasera l’emozionante rievocazione. C’è una storia che distrugge, ma c’è una storia che costruisce e noi vogliamo essere parte, umilmente ma decisamente, di questa storia che costruisce. Ebbene, pensando all’incontro di questa sera – è un po’ di mesi che ci penso – mi sono andato un po’ a rivedere la storia di tanti popoli e ho scoperto una cosa che intuivo, che già sapevo forse, ma che mi è stata confermata da tante letture e cioè che i popoli dell’antichità hanno conosciuto tutti – chi più, chi meno – la realtà dell’accoglienza, come una realtà significativa delle loro vicende. Accogliere voleva dire che chi arrivava da un viaggio lungo – i viaggi lunghi non sono solo del nostro tempo, ma anche nell’antichità i popoli si spostavano, gli individui camminavano verso l’ignoto, chi arrivava da un viaggio lungo, chi cercava cibo, bevanda, chi era in pericolo e cercava un rifugio, storie di persone, storie di tribù, storie di interi popoli. Ecco un segno di alta umanità era accogliere. Era anche un gesto interessato perché si sperava in questo modo che altri in caso di bisogno avrebbero accolto me, avrebbero fatto con me quello che io facevo con loro e si sperava anche, accogliendo, qualcosa di più: di accogliere gli dèi attraverso il povero o il mendicante o il pellegrino che passava e che chiedeva di essere accolto, in un modo o in un altro, accoglievo qualcosa di misterioso, qualcosa di misterioso e misteriosamente alto si aggiungeva alla mia vita. Si realizzava in questo modo uno scambio virtuoso: chi ospita non solo dava cibo, bevanda, un letto, un giaciglio ma anche riceveva, riceveva la speranza di essere lui a sua volta accolto e riceveva la certezza che quel suo gesto non sarebbe stato inutile per la sua vita futura. Pensate alla parola italiana “ospite”: il vocabolario di 300 anni fa diceva che “ospite” è colui che ospita, ma oggi “ospite” è anche l’ospitato, quindi c’è stato uno scambio. Chi entra nella casa dell’altro viene portato al suo livello e chiamato con il suo nome. Fra l’altro – perdonate questa citazione un po’ dotta – ma la parola “ospite” in italiano viene dalla radice slava “gosp” che vuol dire Signore (“Gospodi pomiluj”, lo sappiamo, chi ha seguito le liturgie bizantine: “Signore”). Il Signore è colui che è ospitato, il Signore è colui che ospita: si diventa signori nell’ospitalità. Vi devo dire anche un’altra cosa: mi sono messo a riprendere in mano il greco, il greco antico e pensate questo, come si dice “straniero” nel greco antico, “xènos”, e come si dice “accoglienza”, “xenía”: le due parole che sembrerebbero le più lontane, lo “straniero”, il nemico l’estraneo e “accoglienza” sono la stessa parola. Che cosa era accaduto? Era accaduto questo: che l’estraneo, il diverso, colui che sente estranei gli altri – attraverso l’ospitalità – viene integrato, viene accolto, appunto. Certo, deve accogliere le leggi del luogo, deve conoscere un po’ la lingua del luogo, deve rispettare le abitudini, delle consuetudini del luogo, ma può diventare amico. In alcuni autori greci la parola “xènos”, che all’origine significa “straniero”, significa, finisce per significare “phílon”, “amico”. Voglio dirvi qualcosa dei poemi che ci hanno costituito nell’origine della nostra storia di Occidente: l’Odissea, il poema che narra il ritorno di Ulisse dopo la Guerra di Troia alla sua Itaca, alla sua casa è il poema dell’ospitalità. Alle origini, dunque, dalla nostra cultura occidentale c’è il tema dell’ospitalità. Quando Telemaco, figlio di Ulisse, giunge alla Reggia di Nestore alla ricerca del padre, un figlio che cerca un padre viene accolto e non gli chiedono che nome ha, non gli chiedono da dove viene. Lo ospitano perché è uno straniero che porta in sé qualcosa di misterioso, alla ricerca di suo padre. Sempre Ulisse, quando giunge all’isola dei Feaci sporco, lacero, viene accolto dalla figlia del re, Nausica. Tutte le ancelle fuggono, lo vedono sporco, lacero, anche nudo. Le donne scappano – allora scappavano. Rimprovera le proprie ancelle che fuggono alla vista dello straniero e ricorda loro che esiste l’obbligo di prendersi cura di coloro che sono mendicanti perché vengono da Dio. All’opposto sempre dell’Odissea Polifemo, il ciclope mostruoso con un occhio solo, non accoglie i doni di Ulisse, ma addirittura si ciba delle sue carni, le carni degli ospiti. Un altro poema fondativo della nostra storia occidentale, l’Eneide: poema latino questo. Nel primo libro i naufraghi che arrivano da Troia si incontrano a Cartagine con la regina Didone e chiedono di essere accolti nella città che lei sta costruendo e lei risponde: “Se volete fermarvi nel mio regno, sappiate che questa città è vostra. Non ci sarà differenza fra voi e noi che veniamo dal Libano”. Dunque, due poemi fondativi di tutta la nostra cultura che sono imperniati sul tema dell’accoglienza come motore del futuro. Il futuro è l’incontro fra i popoli e il motore del futuro è l’accoglienza. Vorrei citarvi adesso una pagina dell’Antico Testamento: il libro della Genesi, le storie di Abramo. Il patriarca Abramo era colui con il quale Dio aveva in modo definitivo inaugurato la convocazione di tutti gli uomini in un popolo solo attraverso l’alleanza e riceve un giorno la visita di tre persone. È mezzogiorno, è un caldo terribile – un po’ come oggi: cosa deve fare con queste tre persone che arrivano alla sua tenda? Le deve accogliere, le deve ristorare. Le supplica di fermarsi, spera di accogliere degli dèi e in realtà lo sono. Spera di ottenere un grande vantaggio per la sua vita e in realtà lo ottiene perché gli promettono un figlio anche se lui e la moglie sono vecchissimi. Allora lui fa portare dell’acqua, fa preparare delle focacce di pane, del latte fresco, del latte acido, della carne e si rende conto a poco a poco che l’ospite è il Signore, il Signore che gli dà l’erede atteso. Nel Nuovo Testamento Gesù è colui che viene da lontano, dal cielo – più lontano di così! Nella parabola che Gesù racconta del buon samaritano uno scende da Gerusalemme a Gerico e Gerusalemme è il cielo, Gerico è un po’ l’inferno – fa più caldo che qua. Bene, Gesù è colui che viene da lontano, il Dio che si fa uomo e che chiede di essere accolto. Ma all’inizio del Vangelo di San Giovanni che cosa troviamo? “Venne tra i suoi ma non l’hanno accolto”. Le tenebre non l’hanno accolto, il mondo non l’ha riconosciuto: ecco il dramma di Gesù. Viene tra i suoi, viene per i suoi, è un segno di contraddizione per il mondo. Alcuni però lo accoglieranno: “A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Altri lo rifiuteranno, capi del popolo. Nell’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, Gesù dice di sé stesso: “Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui” – finalmente, no, l’accoglienza – “cenerò con lui e lui cenerà con me”. Ecco, tutta quanta la rivelazione è un invito ad accogliere Gesù nella casa. Ci presenta anche il mistero del rifiuto, dell’inaccoglienza, della croce: Gesù viene crocifisso fuori delle mura di Gerusalemme, fuori della casa che era stata costruita per Dio. Ma lui insiste per entrare nella nostra vita, perché noi gli apriamo la porta. In sintesi, possiamo dire che, se noi accogliamo Gesù, in realtà è lui che accoglie noi nel banchetto di comunione con lui. Ci accoglie nella vita della Trinità. Pensate, l’origine del mondo non è la solitudine, non è il freddo; l’origine del mondo è il fuoco e questo fuoco è l’accoglienza del Padre verso il Figlio e del Figlio verso il Padre che genera la persona dello Spirito. Durante la sua missione pubblica sulla Terra Gesù è stato ospitato sia per sua richiesta, che per iniziativa di altri. È stato accolto, ma egli è più ancora di colui che è stato accolto: egli è il segno dell’accoglienza di Dio nei nostri confronti. Gesù è il segno che noi siamo accolti. Il capitolo 25esimo di Matteo, Gesù appare sotto il volto dello straniero e dice: “Ero forestiero e mi avete accolto”. Quando accogliamo un fratello, accogliamo Lui. Dunque, abbiamo tutti la missione di rivelare al mondo il volto di Cristo che appare a noi nel volto dei fratelli.
Questo è quanto avevo preparato però voglio aggiungere anche qualcosa, cioè delle piccole riflessioni su ciò che abbiamo ascoltato questa sera: quattro riflessioni sui quattro interventi, le cose che mi hanno colpito di più, che io ho segnato. Sono state dette tantissime cose questa sera, raccontate tantissime esperienze, rivelate tante riflessioni. Io ne ho colto a qualcuna e ve la trasmetto, ve la comunico così come il mio piccolo dono questa sera per ciascuno di voi.
E parto dall’intervento di Luca, di Luca Sommacal perché una cosa mi ha colpito: che l’amicizia viene prima dell’accoglienza, così si diceva nel suo intervento. E perché l’amicizia viene prima dell’accoglienza? Perché l’amicizia è la condizione dell’accoglienza? Guardate, l’amicizia – è chiaro – nel suo livello più alto è l’amicizia tra persone umane (di un uomo con un uomo, di un uomo con una donna, di una donna con un uomo). Ma l’amicizia è qualcosa ancora di più profondo: l’amicizia è l’accoglienza della vita, l’accoglienza delle cose, l’accoglienza di ciò che ci accade. È un modo di essere oltre che un rapporto con altri, l’amicizia. L’amicizia è un’ipotesi positiva sulla vita. Per questo l’amicizia è condizione dell’accoglienza perché, se non c’è un’ipotesi positiva ci chiudiamo. Noi non possiamo amare se non sappiamo di essere amati, meglio, se non facciamo l’esperienza di essere almeno un poco amati. Infatti, la cosa più drammatica della vita è quando si arriva a dire. “Nessuno mi ama”. Quando si arriva a dire “Nessuno mi ama” occorre aprire un pertugio perché quello è il punto in cui la personalità si chiude in sé stessa, la persona si chiude in sé stessa e pensa di essere finita. Attraverso dei segni possiamo aprire la persona. Se un ragazzo soldato può raccontarci quello che ha raccontato oggi, se Cattarina può raccontarci ciò che ci ha raccontato oggi vuol dire che con la pazienza, con il tempo noi possiamo accompagnare le persone all’esperienza di essere amate e quindi all’esperienza di poter accogliere perché sono stati accolte. Questa è la cosa ciò che mi ha colpito dell’intervento di Sommacal.
Poi voglio dire ciò che invece mi ha colpito dell’intervento di Catia e il racconto, i racconti che ha fatto delle ragazze che sono state accolte. Vedete, quando si accoglie persone che hanno vissuto l’esperienza dell’abbandono, non si può fare calcoli perché l’abbandono è un tale buco dentro la persona! Come si fa colmarlo? Accogliere chi è stato abbandonato vuol dire abbandonare ogni calcolo, ogni possibile previsione e anche ogni attesa di reciprocità: c’è solo la gratuità. Ecco, lei ha detto: “L’amicizia apre in noi lo spazio della gratuità. Ci permette di accogliere, di perdonare, di lasciarle andare”. Sembra una cosa molto importante.
Bellissimo intervento di Silvio. Ha detto, rivelato tantissime cose ma io soprattutto ho notato questa: che l’amicizia rilancia alla creatività nell’avventura della vita. Questo mi sembra una cosa importante, cioè le nostre comunità sono luoghi in cui l’uomo rinasce perché rinasca la storia degli uomini. Non rinasce mai, ciascuno di noi non rinasce mai solo per se stesso: “Nessuno vive per se stesso, nessuno muore per se stesso” ha scritto San Paolo e l’esperienza dell’Imprevisto ci ha raccontato proprio questo, no? La Resurrezione che entra, la Resurrezione di Cristo che entra a creare un mondo nuovo.
E da ultimo nell’intervento che abbiamo sentito del nostro Jimmy, che cosa mi ha colpito? Mi ha colpito tantissime cose, ma soprattutto i nomi: padre Berton, i Nembrini, altri perché l’accoglienza ha sempre nomi e cognomi, non è mai una cosa astratta, un valore. L’accoglienza è un’implicazione di persone di storie, di condizioni e perciò è sempre sul crinale, è sempre lì lì per crollare, deve sempre ricominciare, deve sempre riprendersi perché è attraversata continuamente dalla nostra precarietà, dalla nostra fragilità, dalla nostra umanità così povera talvolta ma sempre così affascinante. Vi ringrazio.
Saltamacchia. Ringrazio Monsignor Camisasca per l’approfondimento offertoci e i contributi di stasera che hanno testimoniato quanto lei, Sua Eccellenza, ci ha ricordato: Egli non è soltanto accolto, è più ancora, è soprattutto il segno dell’accoglienza di Dio nei nostri confronti. E il Meeting stesso è nato da un’amicizia: ognuno di noi attraverso la sua donazione alle postazioni “Dona ora” in fiera può contribuire alla costruzione di questo luogo per sé e per il mondo. Vorrei ringraziare ancora una volta e chiedervi di aiutarmi a ringraziare i nostri ospiti di questa sera e tutti voi che avete partecipato a questo incontro. Grazie.