Chi siamo
A OGNUNO IL SUO LAVORO
Partecipano: Stefano Colli-Lanzi, Amministratore Delegato Gi Group e Vice Presidente Assolavoro; Elena Donazzan, Assessore all’Istruzione, Formazione e Lavoro e Pari Opportunità della Regione Veneto; Annamaria Furlan, Segretario Generale CISL; Salvatore Pirrone, Direttore Generale ANPAL (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro). Introduce Dario Odifreddi, Presidente Fondazione Piazza dei Mestieri.
A OGNUNO IL SUO LAVORO
DARIO ODIFREDDI:
Buongiorno a tutti. Apriamo questa giornata colpiti dalle drammatiche notizie del terremoto di questa notte e il pensiero, come Meeting, va alle vittime e alle loro famiglie. Desideriamo, come Meeting, essere vicini a loro e disporci a questa giornata con ancor maggiore serietà. Ci raccogliamo ora in un momento di silenzio, associandoci alla preghiera del Papa di questa mattina. E proviamo ad affrontare con serietà il tema di questo nostro incontro: “A ognuno il suo lavoro”. Nonostante qualche breve cenno di ripresa economica, qualche piccolo segnale di inversione di tendenza sul tema dell’occupazione, sui tassi di disoccupazione, la difficoltà del nostro Paese su questo tema resta molto elevata. Siamo quindi molto distanti dall’obiettivo “a ognuno il suo lavoro”. Sappiamo (perché tanti di noi vivono situazioni difficili) come questo sia rilevante, impattante nella vita personale di chi ha questo tipo di difficoltà. Ma questo è anche rilevante e impattante sulla vita sociale ed economica del nostro Paese, sulla sua stessa possibilità di crescita e sviluppo. Ci sono stati alcuni tentativi anche recenti, alcuni processi di riforma in atto, come il Jobs Act, come la Buona Scuola, in cui ci sono spunti interessanti. Ma permangono ancora deboli i segnali, troppo forti le diversità (tra Nord e Sud, tra generazioni, talvolta tra classi sociali). E allora, cosa possiamo fare, cosa dobbiamo fare? Innanzitutto, dobbiamo cercare di valorizzare tutti i tentativi positivi che ci sono, tutte le cose che stanno già funzionando. Il nostro Paese spesso ha tante cose, piccole, grandi, che funzionano, ma noi abbiamo una difficoltà enorme come Paese, rendere sistematico l’intervento, far sì che una cosa che funziona, che funziona bene da qualche parte, possa diventare una cosa per tutti, che funziona per tutto il Paese. Ed è per questo che il 19, nel primo incontro che abbiamo fatto sul tema dell’educazione, i giovani e il lavoro, abbiamo lanciato questa idea di un piano Marshall per l’educazione e il lavoro nel nostro Paese. Un’idea che, dall’idea originaria, riprende sostanzialmente il fatto di decidere che questo tema è una priorità del Paese: deciderlo vuol dire porlo da un punto di vista culturale, ma vuol dire anche poi saperlo strumentare e fare soprattutto in modo che gli strumenti che si mettono in pista siano tra loro coerenti. Iniziamo questo nostro dialogo con il primo intervento di Stefano Colli-Lanzi. Dopo la laurea, ha dedicato diversi anni alla consulenza aziendale, ha iniziato nel 1998 un suo percorso imprenditoriale, fondando una società, General Industrial Italia, che oggi è GiGroup. Da allora, ha seguito l’evoluzione e lo sviluppo di questa società ora presente in 40 Paesi. Stefano Colli-Lanzi è anche professore di Economia Aziendale all’università Cattolica di Milano e Vicepresidente di Assolavoro. A Stefano Colli-Lanzi vorrei chiedere, proprio in virtù di questo suo lavoro che è un osservatorio privilegiato, quali sono i punti essenziali, fondamentali che vedi, che vedete come società, per sostenere questo lavoro per tutti, per sostenere lo sviluppo e la crescita dell’occupazione. Perché sappiamo che siamo davanti a una sfida, ma tutte le sfide pongono dei problemi e delle opportunità: all’inizio del Novecento, un economista famoso seppur controverso, Keynes, diceva che lo sviluppo tecnologico avrebbe creato una forte disoccupazione. Ebbe torto, perché lo sviluppo tecnologico aumentò la produttività, liberò parte dei salari, creò la possibilità di far nascere nuovi settori e crebbe non solo l’occupazione ma anche il tenore di vita. Oggi siamo in una situazione più difficile, perché la velocità del cambiamento tecnologico – pensate alle tecnologie digitali – è rapidissima: l’anno scorso due professori di Oxford dicevano che il 47% dei lavoratori americani sarebbero stati spiazzati dal mercato del lavoro nei successivi dieci anni. Lo studio era solo sull’America ma è una cosa che potremo rivedere e ripensare anche nei nostri Paesi europei. E di nuovo c’è una sfida, però! Perché se c’è il 47% che rischia, c’è anche un’enormità di nuovi posti di lavoro che si possono creare e che stanno per nascere. Quindi, chiederei a te, dal tuo osservatorio, di darci un suggerimento e un giudizio. Grazie.
STEFANO COLLI-LANZI:
Grazie Dario. Sono particolarmente colpito e provocato dalla domanda di questo incontro qui al Meeting. L’introduzione di Dario ha come accentuato in qualche modo anche il senso drammatico della questione aperta. Drammatico, perché da un lato ci troviamo di fronte a un bisogno primario: più lavoro e lavoro buono, a ciascuno il suo lavoro, quindi non semplicemente lavoro ma più lavoro e più lavoro adeguato, più lavoro sicuro, più lavoro sostenibile, più lavoro positivo per la persona, per la società. Dall’altro lato, ci troviamo anche con tutto l’impegno che mettiamo e con l’auspicio di poter contribuire ad un miglioramento del mercato del lavoro, ad una facilitazione da parte del mercato del lavoro a costruire queste condizioni di lavoro, maggiori in quantità e migliori per tutti. D’altra parte, non la frustrazione ma il senso di preoccupazione sui risultati, perché oggi noi ci troviamo di fronte a un contesto in cui c’è una disoccupazione giovanile che è assurda, un tasso di occupazione che è molto basso e, mi sentirei di dire, anche di qualità non sempre eccellente. E ci troviamo di fronte, appunto, a questa situazione anche in un momento in cui vengono fatti dei tentativi (il Jobs Act, un tentativo molto forte, che ha una portata storica, tale che, nel pur breve tempo di mia partecipazione alla vita del mercato del lavoro in Italia, non ricordo un momento di riforma così importante… vedremo, perché poi le riforme non portano risultati veri in pochissimo tempo): ci troviamo comunque di fronte ad una drammaticità, a soluzioni che vanno individuate, per cui è interessante porre queste domande e attivare un dialogo. Anche per me è interessante, da una parte, porvi le mie riflessioni, dall’altra, ascoltare e fare dei passi nel dialogo per riuscire a capire come poter contribuire, non semplicemente difendendo il proprio territorio, il proprio interesse. Partendo da questa premessa, avverto che mi sembra che il nodo fondamentale oggi sia aiutare a fare dei passi avanti nel nostro mercato del lavoro, al lavoro, e che questo sia innanzitutto un tema culturale: io avverto una problematica di giudizio sul lavoro. Cos’è il lavoro? Perché è così importante che le persone possano lavorare di più e lavorare meglio? In cosa consiste il fattore di legittimazione del lavoro? A me pare che siamo scivolati un po’ nel fare coincidere l’importanza del lavoro con un’occasione per redistribuire le ricchezze, il reddito: il lavoro come opportunità per dividerci ciò che c’è, per attribuirlo, per distribuirlo, e non invece il lavoro come un’opportunità per costruire ricchezze, per costruire valore. E non intendo il lavoro come costruzione di valore monetario, necessariamente, perché non sempre il mercato riesce a tradurre in modo adeguato il valore prodotto. Ho in mente mia moglie: se c’è una cosa che ha fatto di grande, è stata tirare su i suoi figli e poi accoglierne altri da fuori, integrandoli all’interno della famiglia. E’ un lavoro che ha prodotto un valore, perché ha risposto a un bisogno, ha permesso di avere condizioni di vita migliori di prima. Il lavoro come possibilità di risposta al bisogno: non sempre la risposta al bisogno viene riconosciuto dal nostro mercato, dai mercati. Ma noi dobbiamo puntare sulla costruzione di valore, innanzitutto, e poi eventualmente gestire i mercati per incentivare la produzione di valore. A me pare che occorra recuperare la centralità dello scopo del lavoro: dire faccio le pulizie o rendo questo posto pulito non è solo una differenza lessicale, è decisivo! Tra l’altro, mi sembra che nel ricentrare lo scopo si recuperi la sintesi tra ciò che è utile per il bene comune, tra ciò che è utile per tutta la società, e ciò che è utile per la persona. Io sono appena tornato dalle vacanze, come penso parecchi di voi. Vivevo in casa con mio nipote, che è un autistico, un ragazzone con qualche limite, e trasportava le casse dell’acqua minerale. E mi ricordo che, passando, mentre portava la dodicesima cassa, diceva: “Io ho fatto questo lavoro, lo zio mi ha aiutato”. Cioè, io sono protagonista di questo lavoro: potendo fare qualcosa per rispondere al bisogno di qualcun altro, sono utile. Quindi, nel costruire valore per tutti, costruisco valore per me: recuperare questa logica mi sembra decisivo. Mi ha colpito anche – ho visto ieri la mostra sui restauri della Basilica di Betlemme – questa azienda italiana che ha vinto l’appalto per la restaurazione dei mosaici, che a fronte di un bando che prevedeva che venisse fatto un certo tipo di attività, ha deciso di censire 1.600.000 tessere del mosaico (cosa che non era prevista dal bando), perché questo rispondeva meglio al bisogno, rispondeva di più e meglio al bisogno di tutta l’umanità avere la Basilica di Betlemme in condizioni splendenti, così com’era stata concepita. E ancora, nella mostra dei santi americani, questo san Damiano che decide di coinvolgersi con i lebbrosi in una delle isole delle Hawaii pensa che la drammaticità più grande sia quella di condividere la malattia. Invece si trova a condividere un’umanità ferita, abbattuta, disperata, incattivita, e propone a queste persone, oltre a far loro compagnia, di ricominciare a lavorare: non a lavorare per far passare il tempo, per pestare l’acqua nel mortaio, ma lavorare per costruire case, per costruire una chiesa, per costruire. E questo lavoro, finalizzato alla risposta al bisogno, è un lavoro che ridà dignità a queste persone, rimette in moto la dignità di queste persone. Allora, se poi ci spostiamo di un passo verso quelle che sono state sottolineate come le emergenze più grandi del nostro mercato del lavoro (parliamo della formazione), stiamo vedendo oggi il paradosso di un contesto in cui abbiamo una disoccupazione giovanile molto alta, un tasso di occupazione bassa, eppure sempre più posti di lavoro che non riusciamo a coprire: perché la richiesta delle aziende, la richiesta del mercato, è di competenze, di situazioni che non troviamo, che non riusciamo a reperire sul mercato. Il che rende la situazione davvero paradossale. Ma se ci pensate, investire sulle competenze serve se il lavoro è innanzitutto finalizzato a rispondere a un bisogno: perché se è finalizzato a distribuirci un reddito, non c’è bisogno di professionalità, no? Se dobbiamo dare una scrivania a qualcuno, dargli uno stipendio, non abbiamo bisogno di professionalità: di professionalità abbiamo bisogno se dobbiamo rispondere a un bisogno, se dobbiamo competere per rispondere al bisogno in modo sempre più efficace ed efficiente. Allora, noi abbiamo bisogno di lavorare sull’innovazione, sulle competenze, sullo sviluppo culturale, sullo sviluppo personale. E dall’altra parte, se ci pensate, c’è anche il titolo di questo incontro, “a ciascuno il suo lavoro”: il tema vocazionale, cioè che il lavoro sia un’opportunità per valorizzare le proprie personali competenze o capacità o attitudini. Questo è possibile se il lavoro è concepito come la possibilità di rispondere a un bisogno, di dare il mio contributo per la risposta al bisogno. Allora, proprio questi due temi, il tema della formazione, delle competenze, e il tema dell’orientamento, dell’accompagnamento, dell’aiuto alla persona ad individuare il modo migliore per contribuire al bene comune, sono due temi secondo me centrali per lo sviluppo, per la maturazione del mercato del lavoro nel nostro Paese. Da questo punto di vista, vi dico che il mondo degli intermediari, il mondo delle agenzie per il lavoro, si vede sempre più chiamato a partecipare nella costruzione di valore, innanzitutto facendo funzionare meglio il mercato del lavoro. Proprio su questi due temi, oggi ci vediamo particolarmente impegnati: un esempio bello è che, in questa situazione di disallineamento tra offerta e domanda, molto interessante è stato, nel campo dell’informatica, ricevere in questi ultimi tempi richieste pressoché infinite rispetto alla possibilità di corrispondere, il che è assurdo: non ci sono persone. Allora abbiamo cominciato ad inventarci qualcosa di nuovo, abbiamo cominciato a coinvolgere persone che facevano Matematica in alcune facoltà del Meridione, che si pensavano probabilmente orientate ad insegnare la matematica, non essendoci posti da professori di matematica. E insieme ad alcune aziende leader nel campo dell’informatica, abbiamo messo in piedi dei corsi formativi – direi quasi di addestramento, che riguardano proprio l’ultimo miglio – molto smart, efficaci, capaci di risolvere il problema in poco tempo. In due mesi, queste persone che hanno una formazione di base forte ma non sono impiegabili nel campo dell’informatica, vengono messe in condizione di avere un lavoro certo, di essere utili allo sviluppo di progetti importanti nel campo dell’informatizzazione delle aziende, ecc. Altro tema, quindi: in questo campo della formazione, vediamo un ruolo delle agenzie estremamente importante, che va aldilà del compitino a casa ma ci spinge a creare, a inventare, anche a complicarci la vita, ma ad individuare soluzioni che creino valore, che vadano a rispondere al bisogno, che quindi mettano il mercato in condizione di funzionare meglio. Altro tema importante, di cui parlerà sicuramente Pirrone, il tema delle politiche attive. Penso che ci troviamo di fronte ad un fatto epocale, alla decisione da parte del Governo di strutturare un’azione di politiche attive che in qualche modo si contrappongano alla logica delle politiche passive che ha pervaso la cultura del nostro Paese, per cui preservare il posto di lavoro a qualunque condizione. Invece, la politica attiva come sostegno alla persona che perde il lavoro, aiutandola a trovarne un altro, non è soltanto sostenere la persona, che ovviamente è in difficoltà, a livello di reddito, ma aiutarla a risolvere radicalmente la questione nel trovare un nuovo posto di lavoro. Bene, ci troviamo di fronte a questa nuova opportunità su cui le agenzie intendono giocare una partita assolutamente importante. Ed ultimissima cosa, il richiamo alla possibilità del contratto di somministrazione, contrariamente a certi principi storici che hanno visto preferire, non si sa perché, il contratto a tempo determinato, per esempio. E l’intervento dell’intermediario, del terzo incomodo, era visto come uno che sfrutta, che succhia il sangue, che tira fuori energie. Invece stiamo vedendo come, nell’ambito della formazione piuttosto che dei servizi al lavoro, la combinazione tra flessibilità e sicurezza porti anche alla possibilità di un rapporto continuativo e duraturo che permetta all’azienda di investire sulla persona nell’ambito dell’assunzione a tempo indeterminato da parte delle agenzie. Più noi faremo in modo che la necessaria flessibilità per le aziende passi attraverso l’aiuto degli intermediari – ovviamente qualificati, controllati, che devono rendere conto di quello che fanno – più vediamo la possibilità di arricchire il mercato del lavoro nel suo sostegno all’incrocio domanda-offerta. Come ultimo passaggio, oggi vediamo l’apprendistato come bellissima opportunità per combinare un po’ tutti questi fattori di cui vi ho parlato. Vi ringrazio.
DARIO ODIFREDDI:
Grazie Stefano Colli-Lanzi. Tanti passaggi, tanti spunti, tante sollecitazioni. Ne prendo uno che mi serve per passare la parola al secondo intervento. A un certo punto hai sottolineato il lavoro come possibilità di risposta al bisogno. E i bisogni cambiano, i bisogni di oggi sono diversi dai bisogni di ieri, e cambiano le modalità. E allora, diceva Colli-Lanzi, c’è bisogno di competenze perché se no questo mismatch, come lo chiama lui, cioè questa difficoltà a fare incontrare la domanda e l’offerta, resterà non colmata. E per fare questo è necessario che ci sia un’integrazione forte tra gli strumenti, quella filiera che conosciamo come la filiera Istruzione, Formazione, Lavoro. In questo, un ruolo importante lo hanno avuto le Regioni che per ora, non sappiamo cosa succederà, hanno una competenza specifica su questi temi, in particolare sul tema della formazione professionale. La Regione Veneto ha saputo storicamente – lo dicono i dati – rispondere tante volte a queste sfide, ha saputo raggiungere risultati eccellenti, sopra la media nazionale, spesso anche sopra la media dei suoi competitors più vicini del Nord. Ecco, Elena Donazzan da tantissimi anni ormai si occupa di questi temi: nel 2000 è eletta in Consiglio regionale del Veneto, dal 2005 diventa Assessore con un’infinità di deleghe che non vi leggo, compresa quella che ci riguarda, con Istruzione, Formazione, Lavoro, delega che sostanzialmente è stata confermata fino ad oggi. Quindi, un osservatorio che in questi anni è stato importante. Allora, a te vorrei chiedere questo: cosa c’è di interessante nell’esperienza del Veneto? Quali sono i fattori che hanno permesso di raggiungere queste performance? Cosa, oggi, vale ancora per le sfide future? E cosa, soprattutto può diventare un suggerimento di policy anche per le altre Regioni e in generale anche per le politiche nazionali?
ELENA DONAZZAN:
Grazie, buongiorno a tutti, grazie per l’invito perché questa è una platea importante, un momento di confronto che può permettere a una Regione come il Veneto di mettersi a disposizione, perché io credo che la venuta al Meeting sia un modo per fare il punto. L’ ho sempre visto anche come momento di rilancio di alcuni grandi temi che poi aprono la stagione della ripresa, non solo della politica. Senza fare la figura della prima della classe, perché è normalmente una figura antipatica, alle volte il Veneto rischia di sembrare il primo della classe perché abbiamo questo puntiglio a dire alcune cose: cercherò di dirle con garbo e di metterle a disposizione. Non vi annoierò con i numeri, ne dico tre e una considerazione in generale per rispondere puntualmente alla domanda, perché se sono qui, aldilà dell’amicizia che ci lega, devo portare il contributo, non mio ma di una storia, di un territorio che poi ho avuto la fortuna, l’onore e anche l’onere di rappresentare. Ci siamo abituati, nella cultura di questi nostri ultimi anni, a pensare che saremmo stati in un altro mondo ma sempre migliore. La tensione verso il meglio si è spenta quando nel 2009 tutti noi ci siamo svegliati all’interno di una trasformazione che per la prima volta faceva riflettere su un tema grave: i nostri figli, noi stiamo peggio dei nostri padri. Non solo in senso economico ma morale, di orizzonte, di punti di riferimento. Quindi, fare l’Assessore al Lavoro nel 2008/2009, mi ha imposto un cambio radicale anche di approccio ai temi. E questa è la prima considerazione. I tre numeri che mi portano qui: primo dato che voglio citare, noi abbiamo la dispersione scolastica già secondo i parametri comunitari al 10%. Secondo dato: abbiamo la disoccupazione più bassa, al 7,4%. Non mi piacciono le percentuali ma è solo per fissarle nella mente. Il terzo dato, sulla disoccupazione giovanile che, come diceva Stefano prima, è tra le più drammatiche, è il motivo per cui noi riflettiamo sul futuro. Abbiamo cinque punti inferiori al resto della media nazionale. L’anno scorso venne il Presidente del Consiglio ad un incontro in università. Allora io facevo la prima della classe, non lo farò mai più perché poi prendi quello che c’ha la battuta facile, e il Presidente ha la battuta facile e ti spiazza. Però, al nostro arco, qualche freccia… Allora lui dice: “Ma a voi va bene Garanzia Giovani. Grazie tante, avete un sacco di aziende!”. Non è così. Perché da noi va bene Garanzia Giovani mentre non va in Regioni a statuto speciale o specialissimo, come voglio chiamarle io, Trento, Bolzano e soprattutto il Friuli-Venezia-Giulia, che hanno lo stesso tessuto economico-sociale. Non posso spiegarmi perché Electrolux a Susegana sia diverso da Electrolux a Pordenone: quanti saranno, 10 chilometri? Non è possibile che i risultati siano così diversi. Non è possibile che la mia dispersione scolastica sia così bassa e in Friuli-Venezia-Giulia sia tutt’altro. E vado alle risposte, al consiglio che posso dare al resto delle mie Regioni, con le quali peraltro abbiamo un fitto momento di confronto quando sediamo in Conferenza Stato-Regione. Perché ancora la competenza resta sul territorio. Tre sono, a mio parere, le condizioni. La prima: la chiarezza nelle scelte politiche. Chiarezza vuol dire anche sapere quali sono le tue priorità. L’aver fatto l’Assessore dal 2005 ad oggi, ovviamente, per la vulgata significa che sono fuori tempo, troppo vecchia, seduta su quella sedia da troppo, io però intanto uso quello che posso per metterlo a disposizione. In undici anni capisci che cosa è accaduto e perché è accaduto: senza comprendere le motivazioni, non riusciremo mai ad analizzare il problema e a provare a dare delle soluzioni. Primo: scelte politiche chiare. Non si può cambiare ogni anno la priorità. Qualche mese fa abbiamo ospitato in Veneto uno dei massimi vertici del Ministero dello Sviluppo Economico a parlare di crisi, di quale modello nella gestione delle crisi, perché anche qui abbiamo potuto fare qualche cosa di buono. E questo dirigente ha detto una cosa vera: “Parliamo da anni, probabilmente dal dopoguerra, di politiche industriali. Ci fermassimo a parlare di politica sarebbe già sufficiente”. Perché non si possono modificare in corso, o di anno in anno, le priorità. Quale azienda si mette nelle condizioni di non avere un arco temporale significativo per fare scelte o per misurare risultati? Noi lo abbiamo fatto. La prima scelta che è stata fatta in Veneto – e solo ora altre Regioni si allineano -, è tenere insieme, come diceva Dario, Istruzione, Formazione, Lavoro. In altre Regioni, l’Istruzione sta con la Cultura, separata dalla Formazione e dal Lavoro: due mondi che non dialogano. Da noi l’Istruzione deve dialogare con la Formazione e con il Lavoro: perché, chi è il protagonista? Il protagonista è il buon lavoro di cui parlava Stefano, il che vuol dire dare aspettative realizzabili di vita alla persona. E l’insieme di persone forma l’impresa che è l’altro soggetto, per cui nelle priorità si deve dire se l’impresa è una priorità per questa nazione oppure no. Secondo: la sussidiarietà. Nella nota che ci siamo scambiati, perché ovviamente per fare un dialogo almeno il moderatore deve sapere quali sono le intenzioni di massima, io ho detto: “Noi facciamo sussidiarietà” e ho aggiunto un aggettivo: “vera”. Perché anche questo è un grande tema, è scritto nelle Carte europee, viene elaborato e in maniera anche molto nobile da qualche straordinario pensatore ma non si cala nella realtà. E forse le Regioni, la mia, almeno, cercano di provare a dare un senso alla realizzazione di questi principi. E per sussidiarietà vera intendo una partecipazione diffusa di soggetti che hanno la rappresentanza di bisogni, non di interessi. Significativa distinzione, non solo lessicale. Perché il bisogno ovviamente ha un senso nella vita, nella sua realizzazione, l’interesse evidentemente è sempre di parte; il bisogno è di una comunità, l’interesse molto spesso è di una parte di questa comunità. Allora, la comunità educante che si è realizzata in questo percorso di Istruzione, Formazione, Lavoro, tutta, compresa la dignità nell’impresa di fare educazione, quando parliamo di sussidiarietà, come si è realizzata? Perché se no faccio filosofia anch’io e non voglio. Vuol dire avere sempre riconosciuto alla rappresentanza il fatto di portare legittimi bisogni. E cosa deve fare il decisore politico? Decidere. Non mi piace la mediazione sempre e in assoluto, ma mi piace fare la partigiana di qualche cosa. La rappresentanza ti porta a misurare i risultati per cui quel bisogno è stato espresso. E noi li misuriamo. Abbiamo un forte momento di confronto tra tutte le parti sociali: per la prima volta, il Veneto ha inserito nella commissione di concertazione non solo il sindacato e i datoriali, con una parte residuale del terzo settore, ma anche le libere professioni. Il lavoro non è lavoro dipendente, è il lavoro, è la cultura del lavoro, è un approccio culturale. E quando poi si parla di sussidiarietà vera, scopriamo che nella sua realizzazione Garanzia Giovani da noi funziona e funzionerà ancora di più. E non è solo legato ai giovani, perché sul territorio abbiamo realizzato la piena partecipazione di pubblico e privato, quando parliamo di Servizi per il Lavoro. Non abbiamo mai distinto che cosa deve fare solamente il pubblico mentre le Agenzie per il Lavoro stanno fuori dalla porta. Abbiamo inserito le priorità strategiche, facendole emergere dalla comunità che poi ha questi bisogni diffusi. Anche le scelte che la Regione ha fatto sono state condivise negli strumenti. Abbiamo voluto misurare i risultati, ci siamo dati sempre un arco temporale sufficiente, affinché, assunta la scelta, quella scelta venisse misurata. E questo ha posto – terzo motivo che vorrei indicare come metodo di lavoro – il tema della responsabilità. Se tu riconosci alla rappresentanza un ruolo, riconosci i bisogni, scegli in maniera chiara le priorità e le condividi, ne fai una sintesi e la misuri, vuol dire che ti sei data reciproca fiducia. E se non te la sei data, te la sei confermata o l’hai tolta. Ma la responsabilità è un fatto, la responsabilità non certo politica ma di tutti quei soggetti che concorrono in una sussidiarietà vera. Come l’abbiamo gestita, la responsabilità? Pensate che la responsabilità da noi oggi è un accordo fatto con una importante associazione di categoria, quella dell’occhialeria: ci sono distretti e un’associazione che raccoglie tutti i produttori di occhiali e che ha dato alla Regione Veneto i fondi da gestire. Normalmente il fondo pubblico va verso il privato perché sicuramente è migliore nella gestione. In questo caso, c’è un fondo privato che viene dato alla parte pubblica perché nella sintesi dei bisogni nell’Istruzione, Formazione, Lavoro, riusciamo a raggiungere gli obiettivi dati. E allora, il tema della responsabilità va sempre misurato. Ultima questione. Perché sulla responsabilità e sulla realizzazione di un modello, io amo parlare di modello Veneto? Come avete capito, se abbiamo raggiunto questi risultati non è merito mio, c’è una responsabilità, decisioni che come Assessore regionale e come Regione abbiamo assunto. E allora, sul tema della responsabilità, se è vero che abbiamo un’Italia così divisa e frammentata, è anche vero che questa è una storia che ci portiamo da tempo, ne abbiamo evidenziato i difetti e mai i pregi, non abbiamo preso a modello i migliori. Le riforme vengono fatte da chi, seduto in una stanza, spesso non conosce la realtà del territorio. Ecco perché questo impegno oggi al Meeting è importante per me, perché io credo che alcune questioni possano diventare un modello per altre Regioni. Di recente, regione Veneto e regione Puglia hanno sottoscritto un accordo, a novembre dell’anno scorso, durante la fiera dell’orientamento. Loro non hanno la formazione professionale, e noi l’abbiamo in maniera robusta: ventiduemila ragazzi su cui, per scelta politica della Regione del Veneto, anche nel momento di tagli pesantissimi fatti dallo Stato centrale, si investe perché questo ti porta a creare quel buon lavoro, quelle aspettative di vita che ci sono. E l’altra emergenza, chiudo, sono i giovani per cui abbiamo questo sistema di Istruzione, Formazione, Lavoro. Ma abbiamo i nostri padri e le madri di famiglia che oggi sono il soggetto debole. Perché senza la famiglia quei ragazzi vanno in dispersione scolastica. Perché se un padre, con buona pace delle femministe del mondo, non ha un lavoro, è più grave, in una famiglia. Perché se noi non pensiamo a queste persone, che a cinquant’anni fanno fatica a trovare lavoro, noi non abbiamo fatto ciò che di buono è possibile c’è nella risposta ad ognuno: “a ciascuno il proprio lavoro”. Ed ecco perché la sussidiarietà diventa una rete sociale. In Veneto non sentirete mai parlare di reddito minimo garantito, di legge di cittadinanza, di quelle robe lì. Perché l’assistenza non è parte della cultura del lavoro della mia terra. E’ inaccettabile. Io devo provare a dare un lavoro, non devo dare un reddito minimo di cittadinanza. E vi racconto l’ultima buona storia. Questa scarpa è fatta da una cooperativa di lavoratori di un’azienda del settore calzaturiero di Montebelluno, che qualche anno fa aveva delocalizzato tutto. Il distretto della scarpa sportiva è andato in completa difficoltà perché era più facile in Cina e, ancora oggi, è più facile altrove. Quell’azienda chiude, perde il lavoro, dei suoi ventidue dipendenti non resta più nulla. I più giovani trovano, i più anziani no. Il responsabile del settore di produzione, un signore di cinquant’anni, non trova e fa tante cose, va anche a tenere pulita una stanza. Poi, lo strumento del Workers Buyout gli permette di recuperare: oggi sono in cinque, c’è quel signore che era il responsabile di produzione, si sono inventati la scarpa vegana, che ovviamente ha tutto il mio orrore ma ha un mercato. Questa scarpa che porto ai piedi da tre anni, se la buttiamo si decompone. Questa è una scarpetta alla moda, costi contenuti, tutto in Italia, Montebelluno. Quella responsabilità, quella sussidiarietà, quelle scelte ci permettono di avere queste storie. Altrimenti facciamo solo filosofia.
DARIO ODIFREDDI:
Grazie a Elena Donazzan: anche qui prendo solo due spunti per passare all’intervento successivo. Sussidiarietà vera, partecipazione dei soggetti che hanno bisogni. E poi la cosa su cui è scattato il vostro applauso, che condivido completamente, l’assistenza non è parte della cultura della mia terra. Noi dobbiamo cercare di dare risposte vere al bisogno vero del lavoro. Allora chiedo a Salvatore Pirrone, Direttore del Ministero del Lavoro e Direttore Generale della futura Agenzia nazionale per le Politiche Attive del Lavoro e tanti altri incarichi. Autore anche di numerose pubblicazioni su questi temi. Come si dice spesso, il lavoro non si crea per legge o per decreto, ma non c’è dubbio, un buon funzionamento del mercato del lavoro può aiutare. Può aiutare ad eliminare delle barriere, a togliere quelle che sono definite delle vischiosità. Ora, quello che vogliamo chiederti è: come vedi oggi il ruolo del Ministero? Cosa vuol dire aprire una nuova stagione? Questa stagione delle politiche attive, vuole dire che non è più fattibile pensare che si possano usare politiche passive per accompagnare le persone per tantissimi anni, fino al termine, per raggiungere l’età pensionabile? Ma le politiche attive – ne parliamo da tanti anni, anche da questo palco – in questo Paese sono state debolissime fino ad oggi. C’è una grande scommessa. Allora volevamo chiedere a te, anche nella logica di quello che diceva prima Elena Donazzan, qual è la sfida dell’Agenzia? Come pensate di muovervi? E soprattutto, come pensate di essere sussidiari?
SALVATORE PIRRONE:
Grazie, Dario, grazie a tutti voi dell’invito. Credo che mai come in questi ultimi mesi, in questo anno, si sia parlato di politiche attive del lavoro. Il termine “politiche attive” non è un termine che fa parte del vocabolario di questo Paese. E’ un paese che non ha mai avuto una cultura di questo genere. Su questo tema fondamentale si è fatta una riforma tra il ’97 e il 2000, sull’onda dell’impulso comunitario, era appena sorta la strategia europea per l’occupazione e poi si è rimesso il tema un po’ sotto il tappeto. Viene fuori nuovamente adesso e credo che sia molto opportuno che venga fuori: bisogna evitare il rischio di caricare le politiche attive del lavoro di un peso eccessivo. La crescita dell’occupazione non è un tema da politiche attive del lavoro in generale. E’ un tema prima di tutto legato alla crescita del Paese: le risposte devono arrivare chiaramente a un livello più globale, alla competitività del sistema, alla identificazione della collocazione del Paese nell’ambito della specializzazione internazionale. Da questo punto di vista, il ruolo importante che le politiche del lavoro possono svolgere è quello dell’adeguamento dei sistemi di istruzione e affermazione alla connotazione del Paese nell’ambito della specializzazione, ed è evidente che in tutto questo gioca un ruolo, molto rilevante, il fattore demografico. Le tendenze demografiche, con lo spostamento verso le fasce di età più avanzate, non solo nel nostro Paese, è chiaro che portano la spesa pubblica molto in direzione di fasce di popolazione che non sono più produttive, in maniera assolutamente opportuna. Poi è chiaro che riducono l’impatto che questi investimenti possono avere invece sull’operazione di opportunità lavorativa. Quindi, a cosa possono servire le politiche attive da questo punto di vista? Possono servire sicuramene a fornire servizi alla persona e alle imprese per far funzionare meglio il sistema, per rendere più rapido ma soprattutto più efficace il sistema di incontro fra la domanda e l’offerta di lavoro, quindi fare in modo che le persone trovino lavoro più facilmente e trovino un lavoro più confacente a quello che è il proprio livello di professionalità. Al contempo cercando di rispondere alle esigenze delle imprese in termini di competenze e quindi di incremento della produttività. Possono evidentemente ridurre le simmetrie informative, ne parlava poco fa Colli-Lanzi: è evidente che nel momento in cui io scelgo quella che è la mia strada, quindi mi oriento nel mondo del lavoro, anche nel mondo dell’istruzione e della formazione è molto importante che io abbia a disposizione quelle informazioni che mi consentono di capire dove mi porta la scelta che sto facendo in questo momento. Sto investendo nella mia istruzione e formazione: ci saranno dei ritorni? O sto investendo in canali che difficilmente mi restituiranno l’investimento che sto facendo, non solo in termini economici ma anche in termini di tempo e di opportunità? Quindi, la riduzione dell’asimmetria informativa, la messa a disposizione delle informazioni è un’altra delle questioni molto importanti. Lo diceva Dario Odifreddi adesso, la questione più rilevante è rendere finalmente operativa l’Agenzia nazionale per le politiche attive. Per adesso, quello che esiste è un Consiglio di Amministrazione, poco altro. Mentre invece le risorse umane arriveranno soltanto dal primo gennaio 2017. Però è importante sfruttare anche questi mesi di fine 2016 per anticipare molte delle cose che l’Anpal deve fare. E’ evidente che il clima generale non è molto favorevole. Il peso che il referendum sulla Riforma costituzionale ha su questo tema è molto rilevante, perché uno degli elementi della Riforma costituzionale è il ritorno della competenza esclusiva in materia di politiche attive allo Stato centrale. Ma quello che vorrei ricordare è che invece la Riforma, il decreto legislativo 150, la partenza dell’Agenzia nazionale delle politiche attive è una cosa che è stata decisa, approvata anche con intesa della Conferenza fra Stato e Regioni, con il vecchio vaglio costituzionale. Quindi, è importante che questo pezzo della Riforma veda la luce a prescindere da quello che sia l’esito del referendum. Però è evidente che il referendum incide molto l’orientamento su questa dinamica. Quali sono i temi più rilevanti della partenza dell’Anpal? La filosofia complessiva mi pare che debba essere quella di cercare di cogliere il meglio dalle cose che sono state fatte in questi anni. Sono diciassette anni, le Regioni hanno avuto il trasferimento degli uffici nel ’99 e si sono mosse in maniera molto differenziata: ci sono molti casi di successo e anche molti casi di non successo. Il tema principale su cui si deve esercitare l’Agenzia è individuare le cose migliori, cercare di portarle a fattore comune e metterle a sistema in tutte le Regioni. E anche, consentitemi, trarre dall’esperienze degli altri Paesi. In Europa ma non solo, gli altri Paesi sono molto più avanti di noi nell’esperienza su queste tematiche e quindi sicuramente possiamo imparare molto da loro. Ciò che è molto importante è evitare di disperdere le cose fatte ma costruire e cercare di traguardare sistemi più avanzati. Al contempo, cercando di rimettere a fattore comune le informazioni. Credo che su questo punto un’esperienza molto rilevante sia quella citata di Garanzia Giovani che si è mossa certamente in questo ambito, cioè appoggiare sulla competenza regionale in materia di erogazione di servizi e politiche, cercando di avere una visione complessiva degli standard comuni e di capire a posteriori, con un sistema attento di monitoraggio, quello che succedeva. Adesso so bene che Garanzia Giovani è stata bocciata praticamente in partenza, senza neanche capire quali potessero esserne le potenzialità. Credo soltanto che ci siamo mossi, due anni e mezzo fa, in un sistema che non prevedeva alcun coordinamento dal punto di vista nazionale: abbiamo cercato di recuperare questa modalità di coordinamento e partiamo da un sistema molto sfilacciato. Lo scorso 23 maggio c’era un primo target da parte di tutti i Paesi che avevano ricevuto i fondi dall’Unione Europea: l’Italia è il Paese che ha rendicontato maggiore spesa. Adesso è chiaro che parlare solo di spesa è un dato quasi insignificante, ma è un dato che dà un’indicazione dell’attuazione di un sistema molto complesso, un sistema che si basa su un’autorità di gestione presso il Ministero del Lavoro, con ventitré soggetti che gestiscono le risorse, quindi un programma operativo di dimensioni e complessità raramente visti a livello europeo. E’ oggi il programma operativo che a livello europeo della nuova programmazione 14/20 ha rendicontato più spesa. Spesa indirizzata per fornire a oltre trecentomila ragazzi, tra i novecentomila che si sono registrati, un’opportunità di lavoro, di tirocinio, di formazione che consentano loro di restare o di tornare attivi nel mercato del lavoro, una cosa ancora più importante che trovare un lavoro sicuro, perché la cosa più importante è evitare di disperdere le competenze che i ragazzi si sono formati nel sistema di istruzione e formazione. E come sappiamo, tutti i periodi di inattività disperdono queste competenze, queste professionalità in maniera molto rapida. Quindi, tornando al tema, quello che dobbiamo fare in questi quattro mesi che ci separano dalla fine del 2016 è cominciare a lavorare, così come stiamo facendo, per anticipare le tematiche su cui si confronterà l’Agenzia nazionale per le politiche attive. Nel mese di settembre o inizio ottobre usciremo non solo con il sito dell’Agenzia ma soprattutto con la procedura di registrazione dei disoccupati: confido che sia anche possibile cominciare le modalità per l’attuazione dell’assegno di ricollocazione, quello strumento che consente al sistema pubblico di coinvolgere il sistema delle agenzie per il lavoro nell’erogazione del servizio pubblico, quindi metterli dentro la squadra. Squadra che è fatta di ottomila operatori, molti dei quali fanno parte di quel nucleo trasferito alle Provincie nel ’99, quindi persone comunque di una certa età e persone che si devono in qualche maniera anche ricostruire una professionalità. Ottomila persone che, se confrontate per esempio con le centomila dell’Agenzia federale tedesca per l’occupazione, sono sostanzialmente nulla. Se non mettiamo dentro il sistema e non sfruttiamo la capacità di erogare servizi anche dei soggetti privati, è evidente che avremo un respiro molto corto. Queste sono le cose principali. E tra l’altro io considero altrettanto essenziale rinunciare a strutturare informazioni e strumenti che consentano da una parte agli operatori di gestire meglio il rapporto che hanno con l’utenza, di capire quali sono le aziende che assumono di più sul territorio, rispetto alla professionalità che hanno o che possono raggiungere il lavoratore che hanno di fronte. E cercare di fornire strumenti di questo tipo direttamente alle persone che sono capaci di avere questi servizi direttamente su Internet, per esempio, perché è chiaro che l’utenza sarà molto diversificata. Avremo lavoratori con competenze basse e lavoratori con competenze più elevate, lavoratori più anziani e lavoratori più giovani. E’ evidente che va anche segmentata la tipologia di servizio che noi forniamo, quindi avremo poi anche servizi disponibili su Internet e sarà importante per superare quelle asimmetrie informative e consentire alle persone di scegliere in maniera più consapevole quella che è la loro strada, non solo di istruzione e formazione ma anche per il percorso lavorativo. Grazie.
DARIO ODIFREDDI:
Grazie a Salvatore Pirrone, mi sembrano alcune interessanti indicazioni di metodo, soprattutto sulla strutturazione del servizio. Per quanto riguarda l’Agenzia, abbiamo capito che dobbiamo aspettare il prossimo Meeting per capire di più che cosa veramente sta succedendo. Annamaria Furlan, una lunghissima, importante carriera dentro la CISL iniziata nel 1980. Ha guidato la CISL di Genova, la CISL regionale della Liguria e oggi è segretaria generale della CISL. Una responsabilità importante, in un momento di cambiamento del sindacato, che ha avuto una parte rilevante nelle sfide del nostro Paese, anche nella ricostruzione, anche nel raggiungere le posizioni che il nostro Paese ha raggiunto, ma come tutti oggi credo sia fortemente interrogato dai cambiamenti. Che cosa vuol dire oggi il ruolo di un sindacato? In questo caso, il ruolo della CISL? Cosa vuol dire la tutela del lavoratore? Cosa vuol dire, davanti alla sfida del lavoro che cambia? Il lavoro autonomo di oggi non è il lavoro autonomo di dieci anni fa, ci sono nuovi operatori, intermediari che entrano nella dinamica tra il lavoratore e l’azienda, e bisogna decidere se questo è un male a prescindere o se questa invece è un’opportunità per facilitare l’inserimento lavorativo. Quindi, tante sfide: ad Annamaria Furlan la risposta.
ANNAMARIA FURLAN:
Grazie dell’invito e soprattutto di darmi l’opportunità di partecipare a questa tavola rotonda davvero interessante. Il nostro moderatore mi ha fatto cinquantuno domande in una. Io parto da una riflessione che credo sia davvero importante, anche se un po’ inquietante, una cosa che ha detto l’Assessora Elena Donazzan e che rispecchia assolutamente quello che il Paese ha vissuto e sta vivendo e, dentro il Paese, ogni uomo e ogni donna. Noi, tra la fine del 2007 e il 2008, una mattina ci siamo svegliati e abbiamo scoperto una cosa assolutamente nuova rispetto alla nostra memoria storica, delle generazioni che ci hanno preceduto: e cioè che guardando avanti non potevamo più sperare nel meglio. Questo è stato, credo, un elemento davvero inquietante e devastante nelle comunità, nelle collettività, nelle stesse famiglie e per ogni persona che ha vissuto questa esperienza. Perché? Perché non eravamo mentalmente abituati a immaginare un futuro diverso rispetto al percorso che ci ha portato a quello che è avvenuto tra la fine del 2007 e il 2008. L’idea di un mondo speculativo non ha invaso soltanto i meccanismi dei mercati finanziari, il fatto che per produrre ricchezza non fosse più necessario il lavoro, ma la speculazione di per sé poteva produrre ricchezza, era un tema che aveva permeato molto più di quello che avevamo immaginato non solo le scelte economiche dei Paesi, praticamente di tutto il mondo occidentale, ma anche gli usi e i costumi delle persone che vivono e che vivevano nel mondo occidentale. Non c’eravamo accorti per molto tempo, purtroppo, che non eravamo più, come mondo occidentale, l’ombelico del mondo, la produzione dell’innovazione, della ricerca, del benessere, della qualità della vita. Non era più così. Perché avevamo abbandonato il valore sociale del lavoro. E perché ormai il modello sociale, il modello economico, non parliamo del modello finanziario, non mettendo più al centro il lavoro aveva definito un modello sociale di comunità molto diverso da quello che avevamo costruito negli anni precedenti. E’ chiaro nella testa di ognuno che cosa ha fallito. Ha fallito il modello speculativo e ha portato nel mondo più fame, più povertà in molte case e anche più guerre o nuove guerre che si sono sommate a quelle più antiche. Cosa non è ancora chiaro è qual è il modello che noi dobbiamo costruire, perché in base a questo noi scegliamo la centralità del valore del lavoro oppure no. Il contributo che tutti i soggetti sociali, istituzionali, politici, collettivi, di rappresentanze sociali sono chiamati a tentare di dare è costruire un nuovo modello economico, sociale, finanziario che metta di nuovo al centro la dignità del lavoro. E credo che per mettere al centro la dignità del lavoro noi dobbiamo affrontare alcuni nodi che sono fondamentali, che è il rapporto fra finanza ed economia, che è il rapporto tra economia e il lavoro, che è il cambiamento dell’impresa, di ciò che si produce e del modo con cui si produce e, rispetto a questo, qual è oggi il valore della partecipazione, della partecipazione del cittadino, della cittadina, nella propria comunità, nella propria collettività, ma anche la partecipazione del lavoratore, della lavoratrice nell’impresa, nella definizione delle priorità e degli obiettivi dell’impresa. Ecco che scatta un meccanismo di responsabilità perché insieme si condivide, e questo vale nel modello sociale comunitario e oggi, ancora di più, vale nel modello della produzione. Questo significa fare scelte nel mondo occidentale, nella nostra Europa, nel nostro Paese, scelte politiche, scelte fiscali, scelte di legislazione sul lavoro, ma anche scelte sulle priorità che il Paese si deve dare. In questi ultimi venti anni, non è vero che si è data priorità al lavoro, basta vedere il risultato. Non si è data priorità al lavoro quando, ad esempio, di finanziaria in finanziaria si sono tagliate, invece che rafforzarle, quelle che sono le leve fondamentali per creare lavoro, un elemento permanente nella qualità della vita delle persone. Allora, aver tagliato continuamente, negli ultimi venti anni, fondi alla formazione, fondi all’innovazione, fondi alla ricerca ha significato non immaginare che il lavoro di qualità e quindi la vita di qualità delle persone, in un Paese, fosse fortemente collegato alla qualità dei processi di lavoro e alla qualità dei prodotti del lavoro. Noi stiamo rischiando di perdere la sfida con l’innovazione rispetto a non aver messo al centro la qualità del lavoro come elemento strategico per la qualità della vita, e il lavoro troppo spesso viene vissuto nel Paese come elemento che spacca la comunità invece che unire, il lavoro che manca, la differenza tra chi ha il lavoro più sicuro, più precario e chi non lo ha per niente, il lavoro per gli anziani e per i giovani, e se c’è il lavoro per gli anziani non c’è il lavoro per i giovani, il conflitto tra le generazioni. Ogni argomento che ha attinenza con il lavoro e con il suo valore sociale ha, almeno negli ultimi vent’anni, condotto a separazione e spaccatura e non invece a costruzione e coesione. La centralità del lavoro, l’elemento di scelta del lavoro come strumento per creare e poi ridistribuire ricchezza, la partecipazione come elemento pregnante per responsabilità, e quindi l’essere protagonisti nella responsabilità, accompagnati alla creazione di una nuova coesione sociale che si basa sulla solidarietà tra le generazioni, tra gli uomini e le donne nel Paese, è il contributo che ognuno di noi si deve sentire di dare. Dalla crisi non esce nessuno da solo e non esce da solo il Governo, i Governi regionali, l’imprenditore, i lavoratori. Non ci salva il ragionare da soli, ci salva il ragionare insieme, non per tornare come eravamo ma per creare un nuovo modello sociale economico e solidaristico, né ridisegnare tutto questo e quindi i processi produttivi e la scelta di cosa si deve produrre e di come produrre, con quale partecipazione e responsabilità. Il tema non è se oggi è più importante investire sulla crescita o sulle pensioni o sul welfare, no, è più importante capire quali sono gli obiettivi e come questi elementi, in modo armonioso, entrino a far parte di una nuova strategia, di un’alleanza complessiva per creare una condizione di sviluppo, di crescita e quindi di responsabilità nel mettere al centro il lavoro. Allora, il tema non è se sono più importanti le politiche attive o le politiche passive: sono importanti le politiche per il lavoro, che significa creare le condizioni della crescita, unico strumento per creare nuovi posti di lavoro, ma creando, attraverso anche le politiche attive e le politiche passive, quel sostegno al reddito per un lavoratore e una lavoratrice, un padre e una madre di famiglia che rimangono senza lavoro e allo stesso modo l’accompagnamento a trovare un nuovo lavoro. Tenere insieme il Paese significa questo, facendo scelte importanti. Settembre sarà un mese particolare, ci sono tanti tavoli aperti, significativi e importanti nel confronto, per i nuovi contrattuali: 8 milioni di lavoratori, 12 se guardiamo sino a dicembre, in attesa di contratto; per rivedere la Fornero, perché creare posti di lavoro significa anche consentire ai nonni e alle nonne di andare in pensione con magari qualche nipote, qualche figlio che trova lavoro; per le regole e l’attivazione delle politiche attive, perché se guardiamo ancora troppo in là avremo poco da attivare. Capisco i tempi, i decreti attuativi, ma si può accelerare con il contributo e la responsabilità di tutti, per fare accordi sui nuovi modelli contrattuali? Cosa vuol dire mettere al centro la produttività del nostro Paese? È una questione di sistema o di singola impresa? Io credo di entrambe, un Paese che non investe e non recupera velocemente sulla banda larga, sulle infrastrutture, non è un Paese competitivo sulla qualità. E cosa significa fare alzare di competitività le imprese? Siamo fanalino d’Europa nell’Europa: solo far lavorare di più le persone o motivarle, renderle responsabili e partecipative dentro l’impresa? O investire in innovazione, in informazione, in ricerca, in stabilizzazione del lavoro? Perché così rendo i miei prodotti e i miei processi più competitivi. In un tessuto sociale di comunità dove, ad esempio, il tema delle politiche attive e della sussidiarietà, pubblica o privata, lo trasferiamo e lo iniziamo a sperimentare, in qualche Regione questo già viene fatto, nel welfare tra welfare aziendale e welfare pubblico sul territorio. Come facciamo a dialogare e insieme a creare condizioni migliorative per la qualità della vita dei giovani, dei meno giovani, degli anziani, nel nostro Paese? Fare sindacato oggi, e parlo come lo fa la CISL, credo che significhi innanzitutto questo: fare ogni sforzo per tenere insieme il Paese e per farlo ripartire tutto assieme. Se c’è una cosa drammatica che la crisi ha insegnato a tutti è che il non stare insieme, il dividere, non ci fa uscire dalla crisi migliori di come ci siamo entrati. Nella competizione globale, il nostro Paese e l’Europa, solo con un salto di qualità forte, ideale, possono essere competitivi in termini di qualità con il resto del mondo. Credo che il ruolo del sindacato oggi sia innanzitutto questo: dare ogni sforzo per tenere insieme, per far crescere nella qualità e nella dignità delle persone con tutto quello che abbiamo davanti. Concludo solo con un messaggio: stanotte, ancora una vola, il Paese ha dovuto convivere con una tragedia naturale, terribile, ma qui siamo di nuovo arrivati terribilmente impreparati. Pensiamo che riprendere il tema del lavoro, della sua dignità e centralità sociale, sia parente non stretto ma strettissimo di come salvaguardiamo il territorio, di come salvaguardiamo la qualità nel territorio e di come questo elemento diventa creazione di lavoro di qualità, di vita in comunità, in qualità e quindi di salvaguardia per il nostro Paese, per gli uomini e le donne che ci vivono. Dico questo non perché ritengo che abbiamo bisogno di speculazioni e confronti sul tema, ma credo che abbiamo bisogno di rimboccarci le maniche e, dopo un primo momento di aiuto e di sostegno solidale, anche di ritrovare quegli elementi del nostro Paese che servono davvero a creare qualità: la salvaguardia e il rispetto del territorio, la sicurezza, elementi straordinari da cui ripartire per creare un’Italia migliore.
DARIO ODIFREDDI:
Grazie ad Annamaria Furlan. Siamo stati nei tempi e quindi io chiederei un’ultima battuta, ma veramente un minuto e mezzo a testa, questa volta, ai nostri relatori. Inizierei con Colli-Lanzi che ha detto il ruolo dell’intermediario nel lavoro: un giovane che va a GiGroup, che cosa incontra? Che opportunità è? 90 secondi da adesso.
STEFANO COLLI-LANZI:
90 secondi, può trovare diverse situazioni. Può essere interessante cogliere questo aspetto: all’interno dell’agenzia del lavoro, oggi, ci sono almeno due realtà: una realtà che si occupa di ricerca e selezione di lavoro temporaneo, che lavora con focalizzazione più sull’azienda, e una realtà invece dedicata alle politiche attive, diciamo la società di outplacement, che poi è più di i-nplacement che di outplacement, in realtà, che invece è focalizzata sulla persona. Quando sottolineiamo la necessità di investire sulle politiche attive, non lo diciamo in termini di ostativo nei confronti delle politiche passive ma come un fattore fondamentale di arricchimento del mercato del lavoro. Un mercato del lavoro che ha come intermediari solo chi si occupa dell’interesse delle imprese, quindi attrae persone sull’impresa e non si fa carico di spingere le persone verso il lavoro, è un mercato del lavoro debole; quindi, a seconda delle due situazioni, si trovano risposte differenti. Un’unica notazione, quando lavoriamo sulle imprese, vi sembrerà strano ma il punto più decisivo, per cui possiamo adoperarci per i giovani, è attrarli, contattarli e reperirli in questo magma disperso, i migliori attrarli sulle opportunità più sfidanti, su cui è anche più difficile trovare risposte proprio perché è necessario fare interventi attraverso la formazione e l’addestramento di adeguamento delle competenze nei confronti delle necessita. E per i meno vivi, proprio per il fatto di tenerli agganciati al mercato del lavoro, non lasciare che si perdano, questo a mio parere è uno dei punti fondamentali del nostro lavoro.
DARIO ODIFREDDI:
Grazie. Elena Donazzan, al Meeting è facile parlare di sussidiarietà, è una parola che piace a tutti. Giorgio Vittadini è stato uno dei suoi inventori, ci fa un esempio di che cosa vuol dire concretamente sussidiarietà nel tuo dialogo e nel tuo coinvolgimento con le parti?
ELENA DONAZZAN:
Baratto i 90 secondi per un esempio: Furlan, economia versus finanza, tre storie diverse di fare economia, la banca etica sostiene un’azienda, la strategia industriale fallisce, workers by out, i lavoratori che rimangono dentro e adesso cercano tra quelli che non ci avevano creduto e dicono: “No, ma io preferisco le politiche passive”. Secondo, fondo di solidarietà al Veneto, un fondo fatto da imprese e due sindacati, CISL e UIL, giusto? Bene! Oggi dà un rendimento pubblico, puoi vedere sul fondo pensione quanto e perché, sono solo 6000 le aziende in Veneto, siamo la Regione che arriva per prima ma ne abbiamo poche. Terzo, Fondazione bancaria Cariparo, accordo territoriali sul territorio di competenza con unione delle scuole di formazione professionale e con il mondo del sindacato, 1000 persone sopra i 50 anni, con la priorità se sono padri o madri di famiglia, avranno un’opportunità di lavoro. Esiste una finanza buona che fa economia.
DARIO ODIFREDDI:
Grazie, Elena Donazzan. A Salvatore Pirrone, rapidamente, il programma Garanzia Giovani, pur con tutti i limiti, è stato un programma importante. La domanda è: questo programma continuerà? Risposta secca e, se è sì, come? Seconda domanda: il Ministero spesso tratta con le Regioni, una trattativa lunghissima su ogni misura da adottare, sulle misure sul lavoro come sulle misure per la formazione. Ti sembra che stia cambiando il clima, che ci sia veramente una consapevolezza di dover lavorare insieme? 90 secondi anche per te.
SALVATORE PIRRONE:
Su Garanzia Giovani, il programma sicuramente deve continuare: per le Pubbliche Amministrazioni, come per qualsiasi organizzazione, è difficile imparare a fare una cosa, ci abbiamo messo due anni per imparare ad usare una strumentazione, per fornire una croce dei servizi ai giovani. Disperdere questo patrimonio sarebbe folle, c’è bisogno di stabilità nelle politiche così come nella gestione dell’amministrazione, quindi è assolutamente essenziale garantire continuità. Lo faremo, in primo luogo, utilizzando uno strumento dato dalla flessibilità del bilancio comunitario, che garantisce all’Italia 1,6 miliardi di euro in più sui fondi strutturali: noi confidiamo che almeno 500 milioni di questi 1,6 miliardi vengano dirottati verso Garanzia Giovani. Comunque, il Governo si sta adoperando per cercare di ottenere un nuovo finanziamento per Garanzia Giovani in attesa che questi fondi si rendano disponibili. L’accordo con le Regioni è di continuare a finanziare il programma nell’ambito dei programmi operativi regionali, però si tratta di pochi mesi. Sulla questione del rapporto Stato-Regioni, devo dire che Garanzia Giovani è servito molto, abbiamo cominciato con forti diffidenze l’uno verso l’altra, abbiamo costruito una cosa molto complicata, tutti insieme. Il referendum sta creando molte difficoltà nel mantenere questo rapporto di collaborazione e spero che, una volta chiusa questa pagina, si recuperi un rapporto di piena collaborazione.
DARIO ODIFREDDI:
Grazie. Ad Annamaria Furlan, tantissimi temi, torno puntualmente su uno: ad un certo punto hai detto che ci vuole una nuova partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici nell’impresa. Puoi magari approfondire un attimo e anche farci capire se si percepisce da parte dell’impresa la necessità di ristabilire delle modalità di rapporto nuove?
ANNAMARIA FURLAN:
Sì, altri Paesi europei, penso ad esempio alla Germania, sono usciti prima e meglio di noi dalla crisi per tanti motivi, perché sono dotati di infrastrutture importanti, per una situazione di bilancio, di dato di partenza economico diverso, ma anche perché le imprese, avendo modelli partecipativi, hanno saputo, nonostante la crisi, essere più competitive e più presenti sul mercato della competizione globale. Allora, mettere il Paese in condizioni di avere una produttività di sistema e una produttività più alta delle nostre imprese, significa abbandonare un modello verticistico che spesso ancora oggi abbiamo e che è completamente diverso da quello che invece la digitalizzazione chiede alle imprese quando finalmente iniziano ad innovarsi: e cioè, valorizzazione delle competenze in un gioco di squadra e anche possibilità di flessibilità che è non la precarietà nel lavoro ma attraverso l’innovazione, soprattutto la formazione, dotare la lavoratrice e il lavoratore di quelle competenze che lo rendono più flessibile nel ruolo dentro l’impresa. Allora, lo dico in modo un po’ provocatorio, ma a quest’ora si può anche fare: sento tanto discutere di maxi e super ammortamenti nell’acquisto di beni strumentali delle imprese, benissimo, non potremmo prendere lo stesso provvedimento anche per le imprese che tanto investono in formazione, in innovazione e in ricerca? Perché di questo noi avremmo bisogno come Paese. Un’impresa che sceglie la partecipazione è un’impresa che sceglie un modello di condivisione e di corresponsabilizzazione. Ci sono tanti modelli, credo che ne potremmo scegliere diversi ma il modello che mette al centro la qualità del lavoro è quello che vede il lavoratore e la lavoratrice protagonista del cambiamento, anche nel pubblico, perché se c’è un settore che ha bisogno assoluto di innovazione e di ammodernamento nel nostro Paese è la Pubblica Amministrazione. Ed è ovvio che tutto questo diventa molto più facile, soprattutto molto più efficace, se si fa attraverso la partecipazione alle scelte dei lavoratori, delle lavoratrici e delle comunità, a partire da quelle territoriali. La scelta della qualità del lavoro diventa nel pubblico scelta di qualità del servizio e quindi coinvolge chi opera e chi lavora nella Pubblica Amministrazione come chi vive in una comunità locale. Quindi, partecipazione come scelta economica del Paese ma anche come scelta di nuovo Welfare e di nuova Pubblica Amministrazione.
DARIO ODIFREDDI:
Grazie. Mi permetto brevissimamente di chiudere con un ringraziamento ai nostri ospiti, non solo per l’intervento di oggi ma per il lavoro che c’è durante tutto l’anno di confronto e di paragone, per questo lavoro che al Meeting continua. Ricordo che da questo stesso tavolo, lo scorso anno, con il Ministro Poletti, in un dialogo sul tema del lavoro, lui iniziò dicendo: “Non dimentichiamoci che non possiamo affrontare questo tema se non partiamo dal fatto che è una responsabilità di tutti, ma non solo della politica, del sindacato, dell’istruzione, di tutti, cioè di ciascuno di noi, cioè ciascuno di noi si deve mettere in gioco”. E oggi diceva Annamaria Furlan: “dalla crisi non esce nessuno da solo”. Questo è un ringraziamento ma anche un invito, un impegno di ciascuno di noi perché, Annamaria Furlan diceva, “qual è il modello economico, sociale e finanziario che dobbiamo costruire?”. Dobbiamo dire con sincerità che non lo sappiamo. Per tanti anni, abbiamo avuto, con tutti i difetti, un’economia di mercato che ha funzionato, ha diminuito la povertà, ha ridotto le diseguaglianze. Bisognava correggere un’economia, un modello che funzionava e che oggi non funziona più: le diseguaglianze crescono, siamo interrogati e non abbiamo una risposta, per cui non si può arrivare a nessuna possibilità, nessuna soluzione se non in un lavoro molto sincero, comune, aperto alle domande. Io ringrazio ancora tutti, do solo l’ultimo avviso, ricordo che prosegue la campagna di fundraising del Meeting di Rimini, come molti di voi sanno, un’iniziativa che si regge sul lavoro volontario e sul fatto che ciascuno di noi ritiene che questa cosa abbia un valore, economico, sociale e culturale, perché dal momento che non fosse più così non avrebbe motivo di esistere. Ci sono nei vari padiglioni numerose postazioni dov’è possibile partecipare e donare a questa campagna di fundraising. Si raccomanda, siamo in Italia, di farlo unicamente nelle apposite postazioni perché ogni tanto c’è qualcuno che va a fare donazioni e dice: “ma io ho donato”, ma in realtà non c’entrava nulla. Buon pranzo a tutti, grazie per essere intervenuti.