’68 E OLTRE. GIUSTIZIA E LIBERTÀ SEMBRAVANO A PORTATA DI MANO

Partecipano: Fausto Bertinotti, Presidente Emerito della Camera dei Deputati; Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli. Introduce Andrea Simoncini, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Firenze.

’68 E OLTRE. GIUSTIZIA E LIBERTÀ SEMBRAVANO A PORTATA DI MANO

Ore: 12.30 Arena della Storia A5
‘68 E OLTRE. GIUSTIZIA E LIBERTÀ SEMBRAVANO A PORTATA DI MANO

Partecipano: Fausto Bertinotti, Presidente Emerito della Camera dei Deputati; Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli. Introduce Andrea Simoncini, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Firenze.

CANTO: “BLOWIN’ IN THE WIND” DI BOB DYLAN

ANDREA SIMONCINI:
Buongiorno.

FAUSTO BERTINOTTI:
Grazie anche voi!

ANDREA SIMONCINI:
È un motivo storico, fa parte della storia il motivo per cui abbiamo cominciato così: il ‘68 non comincia in Europa, non comincia in Italia, il ‘68 comincia negli Stati Uniti e comincia come un grande movimento contro l’ingiustizia nelle scuole, nelle Università, contro la disparità bianchi / neri, incomincia con la grande marcia di protesta del reverendo King, con Angela Davis, in Università e poi con la guerra nel Vietnam, più avanti. Un grande moto contro l’ingiustizia e così, come abbiamo cantato, questa risposta che soffia nel vento arriva in Europa. Allora, quando arriva in Europa questa grande ventata di domanda di giustizia, incontra una realtà un po’ diversa. In Usa è molto più rimasta, avete presente la generazione hippie, è molto più rimasta a livello popolare, quasi inespressa. In Europa, incontra un mondo che politicamente, filosoficamente, antropologicamente si stava consolidando, e allora oggi noi vogliamo capire questo vento cosa ha portato in Europa, cosa ha portato qui da noi e per farlo l’idea è di un dialogo tra due che nel 1968 avevano vent’anni. Ora avevano vent’anni, diciamo erano collocati su tutta la gamma, non voglio approfondire, perché ci sono le signore.

EMILIA GUARNIERI:
Avevamo vent’anni.

ANDREA SIMONCINI:
Alcuni erano all’inizio, dei 20 anni, alcuni erano più lontani dai 20 anni, però. E allora vi dico come è venuta l’idea di fare questo incontro. I due testimoni sono Emilia Guarnieri presidente del Meeting e Fausto Bertinotti presidente della Camera e direi ormai sinteticamente si può dire grande amico, forse è la presentazione più sintetica e più efficace. Allora dicevo, come è venuta l’idea di questo dialogo tra due testimoni per raccontarci cosa per loro ha voluto dire questa stagione e cosa vuol dire oggi? È nata così: eravamo andati a trovare Fausto e Lella, molto ospitali, a casa, non dico la zona per evitare…, insomma eravamo andati a trovarli e cominciamo a discutere di questo periodo che loro hanno vissuto e mentre cominciamo a discutere, la cosa che mi ha colpito è questa, che mentre noi eravamo lì a discutere a pranzo, e io stavo dicendo «potrebbe essere bello fare una chiacchierata sul ‘68», loro due hanno cominciato a canticchiare una canzone, “Oltre il ponte”. Io non la conoscevo, e sono rimasto attonito, il testo è di Italo Calvino, è una canzone più antica, del ‘58, che spiega come il vento dell’America arriva in Europa, arriva in Italia e incontra una storia politica, istituzionale, l’antifascismo, la guerra di liberazione, il movimento studentesco, la sinistra, il marxismo, incontra una storia ideologica. Io vorrei cominciare proprio con questa canzone e con questa idea: «Vedevamo dall’altra riva la vita, tutto il bene del mondo oltre il ponte». Voi nel ‘68, intanto, dove eravate, cosa facevate? Per capire, per chiarirci e in secondo luogo, qual era questa speranza che c’era “oltre il ponte”? Comincia la presidente.

EMILIA GUARNIERI:
Grazie Andrea di questa cosa bella, grazie Fausto di questa idea un po’ emozionante che ci è venuta. Io facevo l’Università, quarto anno di lettere moderne, Bologna, venivo dalla storia di GS, avevo fatto l’esperienza di GS al liceo, ero tutt’ora dentro questa esperienza di universitari che erano stati di GS, non ancora di Cl perché Cl non c’era, ero fidanzata, con quello che poi è diventato mio marito. Questa cosa è arrivata, questo fuoco è arrivato e si è incontrato con i nostri vent’anni, con i miei vent’anni, con l’impeto del cambiamento che avevo dentro, e me lo avevano messo dentro i vent’anni, il temperamento probabilmente, ma me lo aveva messo dentro anche la storia che avevamo fatto insieme, la storia di GS, perché comunque avevamo combattuto al liceo, quando ancora del ‘68 non si parlava, contro il formalismo della scuola, contro l’autoritarismo, con la domanda del che cosa c’entra con me. Questi erano gli anni del liceo.
Quando è arrivato questo fuoco, questo fuoco in me si è acceso subito, in me in genere i fuochi che hanno qualche accento, che hanno a che fare con la verità, con la libertà, mi accendono con una certa facilità. In genere mi si accende prima l’affetto che la comprensione e il ragionamento, e il desiderio è esploso, il desiderio che il mondo cambiasse. C’erano le ingiustizie sociali, tutto il contesto di cui tu Andrea hai parlato, c’erano gli ingiustizie sociali, c’era la guerra del Vietnam, c’era l’America, c’era la scuola che era distante dalla vita, c’era il fascino del nuovo, il vecchio erano i partiti, tutti, tutti erano vecchi. Io mi ricordo che in Università come guardavamo quelli del partito comunista, ma gli stessi compagni del ‘68 guardavano quelli del partito comunista come la cosa più terribile che ci potesse essere, perché erano il vecchio, la Fgci era il vecchio, era l’istituzione, ma anche il sindacato era così, tutto era vecchio. E tutto il nuovo lo avevamo davanti, come diceva la canzone di prima e la stessa famiglia borghese da cui io venivo era in qualche modo il vecchio. Io sono andata via da casa mia, insomma sono partita per andare al primo anno di Università con la pelliccina bianca, quella che andava di moda, di persiano, che mia mamma mi aveva comprato, io venivo da una famiglia borghese, ero abituata ai salotti, ai tea, sono tornata a casa con i jeans! Quanto ha pianto la mia mamma su questo. Perché era così, il nuovo era questo. E che cosa, l’ultimissima cosa, che cosa mi aspettavo, me lo sono chiesto, che cosa mi aspettavo? Io non avevo perso la fede, ma io andavo a letto la sera e davanti avevo il manifesto di Che Guevara, e la sera quando andavo a letto mi chiedevo: «Io che cosa sto aspettando? Io mi aspetto veramente la liberazione da questo manifesto di Che Guevara che ho davanti?». Non lo so, non credo che avessi fatto tutto questo processo, non so cosa mi aspettavo, però mi aspettavo sicuramente qualcosa di nuovo che accadesse e su questo almeno inizialmente ho investito.

ANDREA SIMONCINI:
Grazie. Fausto, tu dov’eri, cosa pensi di questo?

FAUSTO BERTINOTTI:
Beh, intanto io avevo un po’ di anni in più nel ‘68, stavo a Novara e facevo il sindacalista per un sindacato affascinante, si chiamava Fiot, Federazione Italiana Operati Tessili. Italiana era importante, perché tutte le altre sigle avevano cambiato i nomi, con al posto di italiana, impiegati. Noi abbiamo tenuto duro, solo operai. Stavamo in questa realtà, però prima di parlarvi di questo ‘68, che peraltro nell’annuncio, badate, è molto simile a quello che raccontava adesso Emilia, nell’annuncio, per cui vi vorrei chiedere il permesso di tornare a dieci anni prima, perché io trovo che sia molto importante. Dieci anni prima Italo Calvino scrive Oltre il ponte che voi avete sentito e che Liberovici mette in musica. Perché vorrei tornare su questo, perché ovviamente il ‘68 è l’imprevisto, qui è di casa, vero? È imprevisto, ma è anche eccezione, il tempo in cui la speranza si consolida e tutto sembra possibile. È il tempo dell’eccezione. Il tempo ordinario è quello che noi viviamo anche adesso, con tutte le sue miserie e con tutta la fatica di credere che la storia possa ricominciare con il linguaggio della liberazione e dell’uguaglianza. Per questo vorrei tornare a questo ‘58 di Oltre il ponte. Perché il ‘68 nasce da questa testimonianza. Oltre il ponte è una testimonianza, una testimonianza minoritaria. L’Italia del ‘58 si era richiusa, si parlava di resistenza tradita e a parlarne era un grande uomo che aveva contribuito a scrivere la Costituzione come Piero Calamandrei, era dunque il tempo in cui le speranze si erano affievolite. Voi avete sentito il testo? Il testo è proprio un passaggio di testimoni, il testo non ha nessuna dimensione ideologica, neppure politica nel senso tradizionale del termine. Le due cose che fa quello che parla, sono raccontare e testimoniare la speranza che non muore, perché il tempo avrebbe indotto a vedere morta la speranza, sepolta. Chi è quello che parla? Quello che parla è un partigiano e racconta «la mia vita all’età della ragazza a cui si rivolge», lo faccio perché qui di ragazzi e di ragazze con i «colori d’aurora e le guance di pesca» ce ne sono molti. Allora questo racconto è bene che arrivi a loro, è un racconto e una speranza, «la speranza era nostra compagna» dice, e qual era questa speranza? «La speranza è che oltre il fuoco», il tempo era quello del fuoco, «comincia l’amore», la speranza era cioè di un mondo in cui tornasse a vincere l’amore e quel mondo doveva essere giusto, libero e lieto. Non dice socialismo, comunismo, dice giusto, libero e lieto, un umanesimo integrale che torna contro la barbarie del tempo che loro avevano combattuto, purtroppo dovendo prendere le armi in mano. E attenzione, per poter combattere quella battaglia dovevano pagare qualche prezzo anche di coscienza, caricando una dimensione utopica, «tutto il male avevamo di fronte». Voi lo sapete bene, che non può mai essere vero, un po’ di male ce lo hai anche tu dentro di te, non è solo fuori di te, non è solo di fronte, ma averlo di fronte voleva dirlo immaginare Auschwitz, voleva dire immaginare la crudeltà del mondo, in questo senso era di fronte. Era un’esagerazione ideologica ma che conteneva un nucleo di verità potente e siccome Calvino è Calvino, non aggiunge a questo il suo errore, non dice «eravamo il bene», ma dice «il bene lo avevamo nel cuore». Dice anche «noi non eravamo santi», quindi lo sa, lui che stende tutto il male di fronte sa che il bene puoi averlo solo nel cuore, che non sei santo, ma combattendo la giusta battaglia hai oggi la possibilità di testimoniare a questa ragazza cosa dice e cosa chiede. Badate, la disillusione la vedete anche in quel «hanno figli che non sanno la storia di ieri». La ragazza a cui si rivolge, lui sa che la sua storia non la conosce, l’ha persa. Un altro cantautore, qualche anno dopo, cantando dei morti di Reggio Emilia, dirà con un’invettiva «di chi si è già scordato di Duccio Galimberti», tanto che indusse Lella e me, quando avemmo un figlio, a chiamarlo Duccio, per riparare al torto in qualche modo. Bene, quei ragazzi e quelle ragazze non sanno, e lui cosa vorrebbe? Che rifacessero la loro storia? No, che le «nostre speranze di allora rivivessero in quel che tu speri o ragazza color dell’aurora». Quando la notte si fa buia, devi aspettarti che l’alba si possa avvicinare. Come non lo sai, con un imprevisto, ma tu intanto devi testimoniare. Quando ti rivolgi alla sentinella per chiedere a che punto è della notte, non ti scoraggerai se ti dirà che è ancora notte. Perché la tua speranza continuerà ad accompagnarti e l’unica cosa che tu vorresti è che la ragazza dai colori dell’aurora potesse continuare ad avere la tua stessa speranza, non la tua stessa vita, né la tua stessa politica, la tua stessa speranza.

ANDREA SIMONCINI:
È dunque un grande paradosso. Secondo passo: Contessa di Paolo Pietrangeli (1966) può essere considerata uno degli inni del ‘68.

CANTO: “CONTESSA” DI PAOLO PIETRANGELI

Dunque questo è l’amore. La cosa più impressionante di questa canzone – ho fatto sentire questa canzone a mia figlia, che non l’aveva mai sentita, la prima osservazione che mi ha fatto è: «ma è di una violenza inaudita». «Scendete giù in piazza, picchiate». Provate a immaginare se oggi uno pensasse una canzone del genere, sarebbe in galera per istigazione. «Scendete giù in piazza», «picchiate con quello», «affossate il sistema», «se questo è il prezzo, vogliamo la guerra». Quel mondo, questo desiderio, questo «mondo di amore oltre il ponte» è anche un mondo in cui si respira una violenza incredibile. Quelli sono anni in cui incomincia. Attenzione mi sembra che questa canzone metta bene in evidenza, come dire, le due violenze che s’incrociavano: c’è una violenza del potere nei confronti di chi domanda, c’è la potenza di chi sfrutta, la potenza dell’abitudine, la potenza del vecchio che teme il nuovo, c’è questa violenza. Ma c’è anche la violenza di chi vuole abbattere, c’è la violenza di chi non accetta di discutere, c’è la violenza di chi ritiene che tutto ciò che si oppone vada eliminato. Come avete vissuto queste violenze? Invertiamo, Fausto!

FAUSTO BERTINOTTI:
È un discorso, questo, riguardo al quale vi chiedo comprensione, perché per me è un discorso difficile. È innegabile quello che adesso diceva Andrea, è innegabile. Noi, Lella ed io, avevamo un amico altoborghese che avevamo cominciato a frequentare e una volta andammo in una festa popolare in cui venne cantata Contessa e lui ci venne incontro orripilato e ci disse «ma io non credevo che voi ci voleste uccidere». Ecco, per dire che la violenza ovviamente qui svetta. Voglio subito aggiungere che chi ha scritto questa canzone è una delle persone più miti che io abbia conosciuto in vita mia, qui qualcuno è in grado di testimoniarlo, vero? Tuttavia il contesto è quello. Qui ci sono, se mi permetti Andrea, non due, ma tre violenze. C’è una violenza iscritta nella società civile, c’è la violenza di una cultura borghese che pensa che ognuno deve essere condannato a vivere l’intera sua vita nella classe in cui è nato. Lo scandalo è che c’è il figlio dell’operaio che può diventare dottore. Quello che chiamiamo adesso l’ascensore sociale viene considerato un’offesa ai valori costituiti della società ed è una violenza prodroma di altre violenze. La seconda è la violenza di stato, scusate il termine, di classe. Io vorrei ricordare qui che l’ultimo bracciante ucciso dalla polizia, in una manifestazione per i diritti dei lavoratori, è del ‘68. Fino al ‘68 in Italia la polizia può sparare impunemente sui lavoratori che manifestano per la difesa o la conquista dei loro diritti. Ed è appunto una violenza di stato. E c’è la violenza di questo movimento, in questo movimento, non “di” questo movimento. E intanto vorrei dire una cosa: non abbiamo il tempo per discutere, però vorrei indurvi a credere che questa violenza deprecabile non è generatrice del terrorismo, non lo è. Il terrorismo è un’altra storia, tutt’altra storia, è una violenza che nasce da una costruzione ideologica di un nucleo di persone che si sente portatore di un destino da realizzare con qualunque mezzo. È ciò che oggi conosciamo con espressioni non di altre religioni, ma di altre manifestazioni religiose, è una forma di fondamentalismo che ascrive a sé la possibilità di decidere ciò che è bene e ciò che è male, e di realizzarlo con qualunque mezzo, quindi compresa la violenza, anzi soprattutto con la violenza. Qui no. Guardate, ci sono cose che fanno un po’ sorridere. Questa violenza non è quella della pistola. Avete notato che non c’è un’arma, è: «Compagni dai campi e dalle officine prendete la falce, portate il martello, scendete giù in piazza, picchiate con quello», «affondate il sistema». È del tutto evidente un’evocazione metaforica, intendiamoci bene, non lo sto difendendo, di un odio di classe che si produce con una forma distruttiva contro le ingiustizie e contro le violenze delle armi. Il ‘68 è questo? No. Questa canzone nasce a Roma, nasce dopo Valle Giulia, nasce, diciamo, in quel contesto, non dopo, ma in quel contesto. Io vorrei proporvi la tesi secondo cui il ‘68 è uno e mille. Dicevi Andrea, prima, che viene dagli Stati Uniti d’America, ma quello italiano non è quello francese e quello francese non è quello tedesco e in Italia il ‘68 torinese non è quello di Roma, né quello di Trento. Il mio ‘68 non è declinabile senza il ‘69, ‘68-’69, l’Italia è questo. Non è il ‘68 semplicemente dall’onda meravigliosa che viene liberatoriamente dagli Stati Uniti d’America, è una reinterpretazione con la storia completa di questo paese. Come ha detto benissimo un filosofo francese, Edgar Morin, la rivolta studentesca richiama in causa l’operaismo. Il protagonista in Italia è una staffetta dell’operaio di massa, dello studente di massa, cioè per la prima volta i figli dei lavoratori che vanno all’Università e di un operaio comune di serie. Quella costruzione costruisce in Italia l’unica vera istituzione politica figlia del ‘68-’69: il sindacato dei delegati e dei consigli. Una costruzione senza precedenti e senza eredi, purtroppo, ma che tende a realizzare una nuova forma di democrazia. Oggi litighiamo su democrazia diretta e democrazia rappresentativa in assenza di tutte e due, purtroppo, in assenza di tutte e due. Allora nasceva una nuova forma di democrazia che si chiamava “consigliare” per cambiare il mondo. Allora, per dire della mia storia, quando cantavo Contessa, non la cantavo perché stonato come sono non l’ho mai cantata, ma insomma quando i miei amici la cantavano, francamente non mi impressionava. Qualche anno dopo, anche discutendone con il suo autore, dico: «Certo, è una concentrazione di violenza verbale inaudita, veramente inaudita». Ma è così iperbolica questa violenza verbale che infatti, tranne frange minoritarie, non è stata la traccia del ‘68-’69 in Italia. Quel ‘68-’69 è erede di don Milani, e per un’altra parte è erede di Di Vittorio, cioè è erede delle grandi tradizioni delle culture politiche italiane, oggi abbattute, che entrano, come tu dicevi, a fare massa critica insieme a quel ‘68-’69. Per cui la speranza si traduce nella conquista dello statuto dei lavoratori, nel diritto alla pensione, si traduce nella conquista del servizio sanitario nazionale, si traduce nell’abbattimento dei muri che impedivano ai malati di mente di essere cittadini. Il ‘68-’69 in Italia non è solo un sogno, è un processo che dura dieci anni e sulla cui sconfitta, anche per responsabilità interne naturalmente, è stata costruita la grande rivincita che ci porta all’Italia incivile dei nostri giorni. Il ‘68-’69 oggi è stato rovesciato, la speranza della generazione di allora si traduce nel furto di speranza che questo capitalismo finanziario produce sulle nuove generazioni, cercando di rubare loro il futuro ma, come si vede qui, certamente non ci riuscirà. E allora come ne «la ragazza dai colori dell’aurora» torna il problema della testimonianza, cioè di non perdere la memoria. E speriamo di ritrovare con la memoria anche la possibilità di praticarla. Grazie.

EMILIA GUARNIERI:
Qui le storie differiscono un po’, ovviamente. L’utopia affascinante che mi aveva portato a mettere su un manifesto di Che Guevara in camera, che mi aveva portato a condividere tutta l’esperienza di quei primi mesi, di quel primo anno del ‘68, hanno una battuta di arresto e di riflessione per me. La mattina del 6 giugno del ‘68, la mattina del 6 giugno del ‘68 vuol dire che a Los Angeles era la tarda serata, o qualcosa del genere, nella tarda serata fra il 5 e il 6 giugno c’è l’attentato a Bob Kennedy. L’attentato a Bob Kennedy rimbalza in Italia ovviamente nella mattina del 6 giugno e c’era l’assemblea – Bob Kennedy che poi nel giro di poche ore morirà – eravamo a Lettere in via Zamboni, assemblea di Lettere. Arriva, non faccio il nome, ma arriva uno dei leader, uno di quelli che allora era il leader del ‘68 a Bologna, prende il microfono nel corso dell’assemblea, dà la notizia dell’attentato a Bob Kennedy, brivido, anche perché poi Lettere voleva dire un’assemblea molto al femminile. Brivido di dolore, brivido di paura anche. Lui riprende il microfono in mano e dice: «Che sentimento state esprimendo? Io sono molto contento, perché con l’attentato a Bob Kennedy è stato colpito uno dei leader del capitalismo internazionale». E io lì ho avuto un attimo di non corrispondenza, lì ho percepito che questo non mi corrispondeva. Ho percepito che questo passaggio ideologico non mi corrispondeva, con tutta l’ingenuità dei miei vent’anni, nella mia assoluta impreparazione politica, però ho percepito che c’era un punto che non mi corrispondeva più. Questo mi fa anche capire perché io, questa canzone Contessa, che conosco anch’io, ho sempre fatto fatica a cantarla; preferivo le canzoni anarchiche, preferivo le canzoni che inneggiavano al comandante Che Guevara, preferivo gli Inti-illimani, perché? Per una banalissima ingenuità, lo confesso, ma perché così la violenza era spostata lontano, distante. Ma se la violenza era così vicina, come quella di Contessa, questa iniziava a crearmi qualche domanda. E sicuramente quella mattina del 6 giugno è stato un punto di non ritorno: non nel senso che in quel momento abbia capito chissà che o sia andata chissà dove, però è stata una domanda seria, in cui ho iniziato ad incontrare non tanto la violenza ma anche l’ideologia. Mi son resa conto dell’ideologia, perché quello che lui aveva detto, il capitalismo internazionale, era chiaramente là, come dire, era chiaramente l’interpretazione ideologica di quel desiderio di cambiamento che stavamo vivendo.

ANDREA SIMONCINI:
Bello. Bello perché drammatico, perché comincia ad emergere la paradossalità di quel tempo. Forse la chiave che ha dato Fausto è quella giusta, cioè il rischio è cercare un Sessantotto, una interpretazione unitaria che spieghi tutto. Probabilmente quel vento, se da un lato muoveva conquiste importanti, obiettive, oggettive, nel legame col mondo del lavoro, dall’altro, dentro l’Università giustificava chi era contento per un omicidio. Noi vogliamo mantenere questa pluralità di sguardi. Per interpretare un tempo paradossale occorre un genio. Cioè, occorre un genio profetico. Difficile che un analista di banca o un avvocato, per dire, anche se ce ne sono di illustri, bravissimi, è difficile che una persona abituata a norme e schemi sappia interpretare la rottura di…, i geni sì. Allora, questo terzo passaggio lo vorrei introdurre attraverso una canzone che è frutto di un genio, che è quello di Giorgio Gaber e Alessandro Luporini, che secondo me ci fa fare un passo verso un altro ‘68, che c’è dentro questi che abbiamo cominciato a guardare. i.

CANTO: “COM’È BELLA LA CITTA” DI GIORGIO GABER.

Perché, dicevo, il genio? Perché questa canzone, nella sua redazione originale, dice sempre la stessa cosa. Per tre volte ripete la stessa cosa che dice: «Ma che stai a fare in campagna, vieni in città! Se vuoi cambiare vita, vieni qui!». E il tono con cui questa cosa si ripete suscita sempre di più in chi ascolta il dubbio che poi non sia così bello, avete presente? È sempre più angosciante. Questa canzone è del ‘69: il ‘68-’69, mentre da un lato è questa domanda di novità, questo cambiamento forte che produce un cambiamento, una rottura sociale, alcuni grandi passi avanti dal punto di vista dei diritti, dall’altra parte, dentro le Università, crea questo tono di violenza. È anche il grande tripudio, comincia ad assestarsi un certo pensiero comune: la città, lavorare, produrre, una certa mentalità. A quel tempo si diceva: borghesi. Lì c’è un altro genio che fa il pari. I geni sono profetici, al momento non sono capiti: «Quando vedo intorno a me i giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i nuovi modelli imposti dal capitalismo, rischiando così una forma di disumanità, una forma atroce di afasia, una brutale assenza di capacità critica, una faziosa passività, ricordo che queste erano appunto le forme tipiche delle SS». Questo è Pasolini, eh! ‘72. Chi è in grado di capire che questa ventata di speranza stava già costruendo un nuovo establishment, stava portando con sé, paradossalmente, la vittoria di chi voleva sconfiggere? E allora, di fronte a questo ‘68, voi che esperienza avete vissuto?

EMILIA GUARNIERI:
Che cosa ha vinto nella vita? Che cosa ha vinto nella vita dopo questa fase che abbiamo descritto? Nella mia vita, negli anni del ‘69, diciamo così, ‘69-’70, io ho chiaro che cosa ha vinto: nella mia vita ha vinto, direi, il sapore della vita, ha vinto il profumo della tavola, ha vinto il profumo… lo dico con molta umiltà ma anche con molta emozione però, perché sono grata che abbiano vinto queste cose. Ha vinto il profumo del pane sulla tavola, ha vinto il desiderio delle cose buone; non il riflusso borghese, io non mi sento una che è rifluita nel borghese, ero una semplice ragazza che si stava laureando, immaginatevi, in filologia romanza, quindi proprio siamo al piatto piatto, no? Una laurea in Lettere moderne, neanche in Lettere classiche, in Lettere moderne, quindi proprio il piatto piatto. Io sono molto felice della mia laurea in Lettere moderne, che mi ha portato ad insegnare per quarantacinque anni, e credo sia stata una delle esperienze più belle della mia vita, quindi molto orgogliosa. Però nella mia vita ha vinto questo. Sì, proprio ieri sera mentre pensavo… ha vinto il sapore, ha vinto il profumo e il sapore del pane buono sulla tavola, cioè ha vinto la semplicità e il ben della vita, ha vinto l’amore con mio marito, ha vinto l’esperienza di amicizia cristiana che ho cominciato a ritrovare con sempre più entusiasmo con gli amici, ha vinto il rapporto con don Giussani, hanno vinto queste cose nella vita. E del ‘68? Del ‘68 è rimasto tutto il desiderio, tutto l’impeto che io ricordo con grande affetto. Io oggi non riesco a sentir parlare del ‘68 senza che ci sia dentro la parola “desiderio”. Perché io l’ho vissuto e non sento questo desiderio, questa passione, questo impeto che ho vissuto, come contraddittorio con il resto. Anzi, penso che sia stato un punto in cui anche in quel momento aveva vinto la passione per le cose buone, anche se le cose buone poi sono diventate la violenza e quello che abbiamo detto. Nella mia vita ha vinto questo e del ‘68 è rimasto, forse, questo accento del bisogno della presenza, perché io credo che questa eredità poi ce la siamo portata dietro. «La présence rien que de la présence», non vorrei dire un’eresia ma quando abbiamo iniziato a fare il Meeting, «La présence, rien que de la présence» io me la sono ritrovata dentro. Perché comunque la presenza è il bisogno di esserci per l’umanità che si è e anche il Meeting nasce, è nato e continua a nascere da questa passione ad esserci per la verità e per l’esperienza di libertà che si vive. Per un attimo questa è stata l’utopia del ‘68.

FAUSTO BERTINOTTI:
Questa cosa di Emilia è molto bella, forse potrei, anche se diversamente, davvero associarmi. Però vorrei prima dire una cosa sul tema precedentemente trattato perché non vorrei lasciare in sospeso questa questione della violenza. Io ho pensato, nel tempo in cui parlavamo, pur essendo contrarissimo a tutte le forme di violenza sulle persone, che ci fosse in qualche modo una violenza compatibile, cioè una violenza che non arrivando agli estremi devastanti di distruzione della persona, fosse però, contro un potere occhiuto e violento, necessaria per compiere l’opera di redenzione delle masse, di liberazione delle masse. Per cui c’era in qualche modo una possibilità di capire. Ricordo la passione con cui guardammo al Fronte di Liberazione Nazionale algerino, e addirittura leggere i testi come quelli di Frantz Fanon, con le prefazioni di Sartre, sull’uccisione del colono come liberazione. Bene, nella mia lunga vita sono approdato invece alla conclusione che non c’è violenza ammissibile e che anzi, l’unica possibile risorsa per coloro che devono liberarsi dall’oppressione, sia la lotta non violenta, la scelta radicale della non violenza come prassi liberatoria; e non per una ragione semplicemente di generosità, che pure sarebbe buona, ma per una ragione di egoismo maturo, direbbe il filosofo, per il fatto che devi sapere che se tu produci il cambiamento con la violenza, con la violenza ti divorerà, divorerà te, avrai legittimato un potere a poterla usare contro di te, come è accaduto tante volte nella storia. La non violenza è un anticorpo che tu introduci rispetto al potere, anche quando lo stai contestando, per poter in qualche modo immaginare un altro mondo possibile. Voi avete sentito queste cose di Gaber e quella di Pasolini. Pasolini ha questa forza profetica strepitosa, dice delle cose terribili perché anche lui, se lo indagassimo come abbiamo indagato “Contessa”, non potremmo non vederne l’elemento di violenza terribile che contiene; la violenza è anche nelle parole, non solo nelle pallottole. “SS”, dice, una cosa terribile! Però noi, dal suo tono profetico, siamo aiutati a capire. Che cosa ci sta dicendo? Ci sta dicendo che nelle mille anime del ‘68, c’è un’anima che pensa che bisogna cambiare il mondo. Chiamiamola “rivoluzionaria”, cioè, che pensa che libertà ed eguaglianza stanno insieme, «simul stabunt, simul cadent», senza l’uguaglianza, la libertà non c’è. C’è un’altra tendenza che pensa invece che va assolutizzata la libertà. Questa seconda tendenza era presentissima nel ‘68 e nel ‘69, anche in molti dei suoi leader e a questa seconda tendenza, quando cade l’idea di cambiare il mondo, diventa possibile connettersi col nuovo vento liberista che accompagna la nuova stagione. Cioè, in qualche misura è sbagliato dire che il ‘68 aiuta il cambiamento della vittoria delle forze liberali e liberiste contro quelle sociali. Ma è vero che una componente in essa è così esistita. Che cosa però fa sì che questo mondo sia il rovescio di quello? Che la componente della trasformazione ha perso. Adesso non stiamo qui ad indagare perché ha perso, però ha perso. Qui Gaber ha ragione da vendere: la nostra generazione ha perso. Perciò, se smettiamo di dare consigli, facciamo solo un’opera di bene, visto l’esito della nostra battaglia. È giusto, è giusto, però vale per tutti quelli della mia generazione, eh! E che cosa resta, Emilia? Resta quello da cui ho cominciato, resta la testimonianza della «ragazza con le guance di pesca», resta la speranza, resta il sindacato, non quella istituzione lì, non questi dirigenti sindacali o quegli altri, neanche questa organizzazione, ma il sindacato come idea di condivisione, il sindacato come luogo in cui ti metti insieme, in cui costruisci la casa che è la casa del popolo, che è la casa del tuo popolo, con cui costruisci il futuro. Mi resta cioè l’idea di essere “compagno”, cioè di condividere il pane con tante donne e uomini che pensano che un altro mondo sia sempre possibile.

ANDREA SIMONCINI:
Siamo arrivati, anche per motivi di tempo ovviamente, al punto cruciale, al punto direi provvisoriamente conclusivo di questo dialogo. Perché su questa visione della città di Gaber è emersa la questione che mi pare costituisca un po’ il filo di questo grande rilievo che il Meeting ha dato al ‘68. Che cosa resta? E abbiamo sentito da entrambi che qualcosa di quella stagione c’è ancora, anche se ha due fisionomie che mi piacerebbe approfondire. Allora, per chiarire quest’ultimo passaggio, volevo leggervi un articolo di un importante giornalista italiano tragicamente scomparso, Walter Tobagi, nel 1972. Tobagi scrive: «La prima comparsa che sorprese gli ignari dei mille risvolti degli atenei milanesi, capitò proprio all’Università statale, nel pomeriggio del 16 febbraio, durante l’assemblea organizzata dal “comitatone”, il comitato che raccoglie il Cnu, cioè il sindacato più forte dei professori milanesi. I ragazzi di Comunione e Liberazione arrivarono a mezzogiorno – osserva Tobagi – con i panini infilati nella borsa dei libri, presero posto sui sedili vellutati dell’aula magna, e cominciarono a cantare inni. Il più bello avvenne quando il coro intonò la strofa: «Forza compagni, rovesciamo tutto e costruiamo un mondo meno brutto». I fans del movimento studentesco, che erano rimasti un po’ stupiti, e un po’ ridacchiosi di fronte a questa scena, cominciarono tutti ad applaudire. Ma l’applauso si trasformò in una fischiata quando il coro arrivò all’ultima strofa: «Ora tu dimmi come può sperare un uomo che ha in mano tutto ma non ha il perdono».

CANTO: “LA BALLATA DEL POTERE” DI CLAUDIO CHIEFFO
ANDREA SIMONCINI:
Anche questa canzone è del ‘68: la scrive Claudio Chieffo.
Ecco, l’imprevisto di questa canzone è il punto sul quale vi chiederei un’ultima testimonianza. La parola “perdono”. In qualsiasi dinamica di affermazione di sé, di crescita del soggetto singolo, sociale, che ruolo gioco questa parola? Fausto.

FAUSTO BERTINOTTI:
Qui c’è davvero una questione enorme. Il problema intanto lo comincerei da qui: un uomo «che ha in mano tutto» – arrivo subito al perdono -, possiamo davvero parlare così? E se invece quest’uomo non avesse in mano quasi niente? Se non avesse in mano quasi niente nel progresso? Siamo sicuri che noi, di fronte alla crescita dell’Intelligenza artificiale, della robotizzazione, di una presunzione tecnico-scientifica siamo indirizzati verso il futuro? E siamo sicuri che questa tecnoscienza dentro un capitalismo finanziario che considera l’uomo una merce e che, così come la macchina, tende a costruire un cambiamento antropologico per fare dell’uomo una protesi della macchina, dentro una mercificazione per cui quello che conta è soltanto la competizione e la diffusione della merce, la mercificazione, siamo sicuri che possiamo parlare di un uomo così onnipotente? E non è forse vero che invece questo progresso ci rende sempre più nudi? Se quel ponte che cade ci parla di qualcosa, tra le mille cose che si dicono, non ci parla anche della presunzione della tecnica che quando si afferma pensa di essere invincibile, e poi si accorge – magari dieci anni dopo – di essere fragilissima? Ma se ne accorge dopo, e di fronte alla tragedia. Quindi quest’uomo non è una creatura debole oggi di fronte a questa minaccia che incombe su di lui? Io penso di sì. E a combinare questa minaccia non c’è anche il fatto che noi siamo di fronte a rapporti sociali che mettono in discussione la civiltà e la possibilità di considerare l’altro da te come parte di te, come uomo? Io non riesco a non vergognarmi anche per la responsabilità piccola, ma personale che porto come ognuno di noi in un paese in cui uno come me, solo di un altro colore, può, può essere ucciso mentre raccoglie il pomodoro al costo di tre lire all’ora. È possibile? Questo è il mondo che si affaccia. Emilia, tu hai stra-ragione, ma davvero stra-ragione a parlare delle mille cose meravigliose che viviamo in questo mondo, ma non possiamo grazie a questo non vedere la tragedia che incombe su questa umanità. E combattere contro questa tragedia è necessario, quale che siano le tragedie indotte dalle rivoluzioni passate: perciò non possiamo acquietarci allo stato delle cose esistenti. Non possiamo, non possiamo. Solo, resi edotti dal passato, come approdiamo alla non-violenza così io, persino io – dico “persino” perché vengo da un’altra storia – considero il perdono una istanza liberatoria per vivere il mondo e il futuro, una istanza imprescindibile per me, per me che ho pensato a questa costruzione di un mondo nuovo, della liberazione attraverso la trasformazione della società. Penso assolutamente così, di fronte alla verifica dei fatti, ma persino – se me lo lasciate dire – alla, per me, intollerabile temperie culturale del tempo in cui viviamo, in cui chiunque ti può essere indicato come nemico e la sopraffazione di quel nemico diventa la tua Weltanschauung: l’immigrato deve morire, perché tu debba sopravvivere. Allora in questo mondo che ti richiede la lotta, io credo che il perdono sia una parte essenziale della ricostruzione dello sguardo sull’altro e dello sguardo ricevuto dall’altro. Non cito un filosofo, cito per concludere e salutare uno scrittore, Izzo, quello famoso della trilogia – l’ho riletta in questi giorni di vacanza, questo libro straordinario che annunciava la tragedia dell’Europa che stava incombendo dalla Francia, e dalla Francia, da Marsiglia si vedeva bene – il quale, tanti anni fa, dice una cosa che a me ha molto colpito: «La bellezza – ed è necessario per te accedere alla bellezza – è soltanto riponibile nello sguardo dell’altro». È solo quello che ti ama che ti fa bello. E allora, se è lo sguardo di quello che ti ama che ti fa bello, il perdono è parte essenziale della costruzione di questo sguardo. Grazie davvero.

EMILIA GUARNIERI:
Nel mezzo di questo momento, di questa mattina mi chiedevo: ma che cosa stiamo facendo qui? Fausto e io stiamo dicendo cose abbastanza diverse, non ideologicamente: diverse come esperienza, diverse come storia, anche come analisi probabilmente, come tu giustamente sottolineavi adesso, eppure, io pensavo in me, eppure in questo momento ognuno dei due darebbe la vita per l’altro. Eppure in questo momento quello che prevale in me – ne sono certa anche in lui – è una stima e un’amicizia incredibili.
E allora mi chiedevo: ma che cosa stiamo facendo qui? Che cos’è questa cosa? Che cosa sta succedendo? E quest’ultima canzone, e questa parola “perdono” mi hanno risposto. È stata la risposta a questa domanda. È stata la risposta adesso a questa domanda, cioè la parola che risponde a queste domande. Perché il perdono non è togliere qualcosa: hai sbagliato, ti perdono, cioè tolgo l’errore che hai fatto, lo cancello, non ci penso più. Il perdono è l’affermazione di qualcosa che c’è: è l’affermazione di una… cioè, cristianamente, il perdono è l’affermazione di Uno che c’è. Il perdono è l’affermazione di qualcosa che c’è, cioè è l’affermazione di un positivo. Non è il toglimento del negativo. E allora io ho capito che questa parola è quella che risponde alle mie domande, perché io il perdono, io il perdono l’ho proprio sperimentato così, anche nel contesto di questi anni: il ‘68 -’69… Io ho sperimentato da parte di don Giussani uno sguardo positivo su di me. Non il perdono perché ero andata dietro le bandiere rosse e avevo fatto le manifestazioni, quello non credo che sia mai interessato a nessuno, ma quello che è interessato è che qualcuno ha guardato nuovamente a me in positivo, per quello che io sono, valorizzando me, valorizzando il mio desiderio, valorizzando tutto di me. Ecco, io così ho sperimentato il perdono e così io oggi sperimento il perdono: come una Presenza, non come una assenza. Come l’affermazione di ciò che c’è, non come il toglimento di ciò che c’è di male nella vita. E allora ho capito che questa parola “perdono” è anche quello che spiega il nostro essere qui oggi, quindi ti ringrazio molto Andrea, di questo.

ANDREA SIMONCINI:
Mi pare che sia stato davvero un dialogo interessante, interessante nel senso pieno della parola. Due posizioni, come abbiamo visto adesso, due vite, due testimonianze non identiche, non uguali, non due cloni, due differenze anche profonde. Ma poter dire oggi la parola perdono, dà la capacità di vedere ciò che è positivo sul quale è possibile dialogare, camminare insieme, riconoscersi. A me sembra un punto davvero vertiginoso, e mi colpisce che questa intuizione la esprima in una maniera bellissima, l’autore da cui siam partiti, Calvino. Ne Le città invisibili, Marco Polo, girando il mondo, guardando tutte le città torna dal grande Khan che gli dice: «Guardate tutto è inutile, perché alla fine di tutta questa bellezza, di tutta questa grandezza, non rimane altro che l’inferno, non c’è altro che la delusione, non c’è altro che… quel che avevamo visto non c’è». Risponde Marco Polo: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, se ce n’è uno è quello che è già qui». Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo, riesce facile a molti, accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo, (attenzione!) è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento (educazione diremmo noi). Cercare e saper riconoscere chi e cosa in mezzo all’inferno non è inferno e farlo durare, dargli spazio. Io penso che questo sia, tradotto in visione della vita, il perdono. Dare spazio a ciò che non è inferno. Io vi ringrazio ancora per questa presenza. Se volete applaudire, applaudite pure.

EMILIA GUARNIERI
Eh! Se no rimaniamo lì così!

ANDREA SIMONCINI:
Voglio ringraziare i nostri tre grandi amici che hanno consentito questo incontro: Carlo Pastori, Walter Muto e Federico Viviani. E vi ricordo anche che Carlo e Walter questa sera alle 21,30 al teatro Novelli faranno uno spettacolo, loro che sono portatori sani di bellezza. Io penso che questo sia un ottimo titolo. Ringrazio tutti quelli che hanno partecipato e ricordo che Meeting non esiste perché qualcuno o qualcun’ altro o un particolare soggetto, come dire, lo finanzi. Il Meeting esiste perché ognuno contribuisce a farlo, allora vi prego davvero, fino all’ultimo giorno, di prendere in considerazione “Dona ora”. “Dona ora” è la possibilità di sottoscrivere e di cominciare a diventare non solo donatori di tempo come siete voi che siete qua, ma di continuare a donare tempo e anche qualcosa che sia per la costruzione di quello che abbiamo fatto insieme. Grazie mille a Guarnieri, grazie a Fausto Bertinotti.

(trascrizione non rivista dai relatori)

Data

24 Agosto 2018

Ora

12:30

Edizione

2018
Categoria
Arene