’68 E OLTRE. ALL’ORIGINE DEL CAMBIAMENTO D’EPOCA: SOCIETÀ, DIRITTI E LAVORO

Partecipano: Alessandro Barbano, Giornalista e Scrittore; Nicola Di Leo, Giudice del Tribunale di Milano; Luca Pesenti, Ricercatore di Sociologia all’Università Cattolica di Milano. Introduce Francesco Seghezzi, Direttore Fondazione Adapt.

’68 E OLTRE. ALL’ORIGINE DEL CAMBIAMENTO D’EPOCA: SOCIETÀ, DIRITTI E LAVORO

Ore: 19.00 Arena della Storia A5
‘68 E OLTRE. ALL’ORIGINE DEL CAMBIAMENTO D’EPOCA: SOCIETÀ, DIRITTI E LAVORO

Partecipano: Alessandro Barbano, Giornalista e Scrittore; Nicola Di Leo, Giudice del Tribunale di Milano; Luca Pesenti, Ricercatore di Sociologia all’Università Cattolica di Milano. Introduce Francesco Seghezzi, Direttore Fondazione Adapt.

FRANCESCO SEGHEZZI:
Buonasera a tutti. Benvenuti a questo incontro della serie dedicata al tema della mostra qui alla mia sinistra. Questo è un incontro che arriva alla fine di una settimana che per noi che abbiamo spiegato la mostra è stata una settimana di lavoro, una settimana di incontri, una settimana di esperienze. Dopo un anno di lavoro impiegato per costruire questa mostra, è come se fosse stata una occasione di verifica con tutte le persone che sono venute a vederla, persone che hanno vissuto il ‘68 direttamente, persone che in qualche modo ci hanno detto di averne sentito tutte le conseguenze. Persone invece più giovani che, come tanti dei ragazzi che l’hanno preparata, poco sapevano di che cos’era accaduto, dei fatti, degli impatti, pur essendone comunque in qualche modo dentro.
Ecco, questo incontro arriva alla fine della settimana e vuole provare a riflettere sulle conseguenze di tutto quello che è stato il ‘68 e di cui parliamo nella mostra. Nella parte finale della mostra noi individuiamo il ‘68 come uno dei momenti da cui è scaturito il cambiamento d’epoca di cui papa Francesco tanto parla e tanto ha parlato negli ultimi mesi e negli anni del suo pontificato. E noi vogliamo cercare di leggere questo cambiamento d’epoca dal punto di vista dei diritti, dal punto di vista della società, dal punto di vista del lavoro. Già il titolo fa capire la complessità di un tipo di analisi di questo genere. Infatti questo è un incontro difficile. Non nel senso che sarà difficile, perché i nostri ospiti saranno bravissimi a rispondere alle domande. Ma difficile nel senso che ha un’ambizione, quella di provare appunto a capire, a comprendere che cosa è successo e soprattutto quali sono le conseguenze oggi. Perché tutto quello che è accaduto durante la settimana è stato un grande interrogarsi proprio su questo: da chi ci diceva che la mostra non dà un giudizio finale, non dice e non mette una pietra sopra al ‘68 dicendo «ci ha portato alla deriva»; dall’altro chi ci diceva «il giudizio è ambiguo, voi invece dovete essere più chiari nel dire che il ‘68 ha portato dei grandissimi cambiamenti che hanno cambiato la società e che hanno migliorato la vita di tutti, di cui tutti beneficiamo senza saperlo». In qualche modo diciamo che ci sono stati grandi dibattiti, ma è stata, credo, la cosa più interessante di tutta la mostra. Ecco, questo vuole essere un pezzo di questa settimana. Non è che abbiamo fatto una settimana a discutere e oggi vogliamo mettere il punto, e vogliamo chiudere. Vuole essere un altro pezzo, incontrando persone che secondo noi hanno qualcosa da dirci. Quindi siamo qua con Alessandro Barbano che è un giornalista e scrittore alla mia sinistra, con Nicola Di Leo che è un giudice del Tribunale di Milano, con Luca Pesenti che è ricercatore di sociologia all’Università Cattolica. Tre persone diverse, tre interlocutori diversi che possono aiutarci, a partire da quello che fanno, dai loro studi, dalle loro esperienze quotidiane di lavoro – che in qualche modo, da diversi punti di vista vivono queste conseguenze – a entrare un po’ più nel dettaglio e a provare ad avanzare qualche analisi che non sia un’analisi rievocativa o in qualche modo nostalgica, ma che sia un’analisi sull’oggi. E vorrei uscire da questo incontro capendo un po’ di più qual è il rapporto tra tutto quello che è stato cinquant’anni fa e la società in cui oggi io sono dentro, volente o nolente. Per cui l’incontro lo organizziamo così: facciamo due giri di domande, la prima chiedendo una risposta un po’ più breve, sette, otto minuti, e la seconda un pochino più approfondita, e poi, se riusciamo, spazio per le domande. Vediamo in base ai tempi. Io partirei da Barbano, che ha scritto recentemente un libro, Troppi diritti, sul nostro tema appunto. A lui chiederei proprio, a partire da quello che il ‘68 è stato, dagli impatti che ha avuto sul tema del rapporto tra i diritti e la società, tra i diritti individuali e i diritti sociali -cos’è accaduto in quel momento storico, come si è riqualificato questo rapporto.

ALESSANDRO BARBANO:
Io dichiaro preliminarmente la mia manifesta incompetenza, perché io il ‘68 non l’ho fatto, come penso ciascuno che si trova qui. E mi è difficile dare un giudizio che abbia in qualche modo una prospettiva storica su un fenomeno così controverso, che viene raccontato in maniera così diversa. Quindi io provo a rappresentarmi, diciamo, in termini di percezione intellettuale, quello che è rimasto. E tant’è vero che credo che il motivo per cui noi discutiamo, oggi, del ‘68, non sia per quello che ha rappresentato in quel momento storico, ma per quello che, probabilmente – o non probabilmente, a seconda dei punti di vista – ha seminato e ha scaricato sulle generazioni successive. E allora, in questo senso, io una qualità del ‘68 la sento e penso che sia il tema dei diritti. Se c’è un’eredità che possiamo acquisire certamente è quella della cosiddetta “evaporazione del padre”. Uso questa metafora usata da Massimo Recalcati, che è un pensatore contemporaneo, peraltro di matrice lacaniana, è uno psicanalista lacaniano. E in effetti questa frattura che si apre fra la legge e il desiderio o, se lo vogliamo leggere freudianamente, io penso che il ‘68 sia stato in qualche modo la fine del conflitto di Edipo, cioè la fine della soluzione del conflitto di Edipo, che come sapete si risolve nella capacità del bambino di riconoscersi nell’autorità del padre, identificandosi nella norma, quindi facendo suo, introiettando il contenuto normativo dell’educazione. Io credo che nel ‘68 si siano prodotte – e qui cito un altro pensatore che è molto contiguo al Meeting e alla cultura cristiana, che è Mauro Magatti e il suo libro Libertà immaginaria – a livello di massa, a livello sociale, le conseguenze di sviluppi del pensiero coltivati dall’élite intellettuale un secolo prima. I cascami del nichilismo sono approdati e sono diventati un fenomeno di massa. E quindi, che cosa ha prodotto questa frattura della normatività paterna, e quindi del principio di autorità? Abbiamo iniziato a immaginare, a coltivare, a promuovere una società fortemente orizzontale. I sessantottini si battevano contro l’autorità del barone nella sua capacità di selezionare la classe dirigente in una prospettiva di irresponsabilità, perché il barone finiva spesso per promuovere una sua assistente, con la quale aveva una relazione, o piuttosto il figlio dell’amico, il parente e il figlio della classe dirigente. E quindi abbiamo immaginato, attraverso la rivoluzione sessantottina, che eliminando l’autorità nel suo contenuto verticale, all’interno dei processi sociali, si sarebbe prodotto una orizzontalità nella quale la selezione della classe dirigente, il trasferimento della responsabilità generazionale, avrebbe risposto a principi di egualitarismo. Ecco, sotto questo profilo, io credo che questo lascito sia stato un lascito funesto per la democrazia italiana. Perché ha portato a una stagione di egualitarismo nella quale, purtroppo, la democrazia si è convinta che la giustizia sociale consistesse in un raggiungimento di un egualitarismo formale, quantitativo, rinunciando invece a coltivare una selezione qualitativa, fondata sui valori di una comunità. E questo ha prodotto, nei pensieri politici e civili che hanno poi rappresentato le forze politiche che hanno governato l’Italia negli ultimi cinquant’anni, la crisi del sistema che ha messo in Italia, per esempio, il merito sotto i tacchi. L’incapacità di selezionare la classe dirigente e di imporre il merito come condizione e presupposto – perché l’autorità del barone, che non voglio ovviamente in una chiave passatista qui riabilitare, tutt’altro – però paradossalmente presupponeva un’assunzione di responsabilità nella scelta, ancorché capotica, ancorché evidentemente non controllata. La sostituzione e l’eliminazione dell’autorità è stata declinata in forme diverse, che per esempio a sinistra hanno coinciso con l’idea di proceduralizzare la democrazia italiana, cioè di sostituire tutta la discrezionalità e la capacità di assumere responsabilità nel selezionare la qualità della democrazia con meccanismi tecnocratici. Pensate a quello che è oggi, per esempio, la selezione dei concorsi universitari, o l’accesso ai test delle facoltà a numero chiuso, o moltissime altre procedure, dove la burocrazia ha sostituito la discrezionalità, sul principio che qualunque elemento di discrezionalità poteva essere pericoloso perché chiamava in causa una responsabilità non controllata. Questo che cosa ha prodotto? Ha prodotto un esito paradossale, per cui da una parte non siamo riusciti a produrre merito – perché senza assunzione di responsabilità non c’è merito -, dall’altra non abbiamo neanche risolto il rischio dell’inquinamento che si produceva, perché la maggior parte delle procedure concorsuali di questo paese sono tutte infiltrate da processi di contaminazione, in quanto l’inquinamento familistico, nepotistico, e tutti i vizi della democrazia italiana che si volevano eliminare sono rimasti, e hanno infiltrato anche la trasformazione della responsabilità umana fondata sulla capacità di riconoscere la relazione, in un dato tecnico che non si è rivelato immune, appunto, a queste contaminazioni. Quindi il mio giudizio rispetto a questo processo civile è certamente negativo. Mi chiedo ancora che rapporto c’è, per esempio, tra la cosiddetta evaporazione del padre – che significa l’idea e la tentazione di sterilizzare il potere, di non riconoscere la relazione dialettica con l’autorità e quindi con il potere che l’autorità incarna – e la fine dei corpi intermedi, di cui il Meeting di Rimini rappresenta una ormai superstite e preziosa eccezione. La democrazia disintermediata, che oggi è l’utopia menzognera dell’ultima demagogia populista del tempo, l’idea che si possa prescindere dalla delega, dalla intermediazione, dalla fiducia, e dal principio di autorità, somiglia molto alla conquista della voce della piazza che nel ‘68 come sappiamo imponeva una dinamica assembleare in alternativa alla decisione e al peso delle autorità, che venivano messe sotto accusa. Ecco, io credo che questo processo, in questo senso, sia molto contiguo a quello che è accaduto oggi nella realtà virtuale: uno degli slogan sessantottini, l’idea di “scendere in piazza”, la dimensione della piazza come dimensione della democrazia orizzontale che decide in assenza di delega, coincide molto con l’utopia di una democrazia orizzontale internettiana nella quale oggi qualcuno pensa di poter intravvedere il futuro dei sistemi regolatori comunitari, parlando di “fine del parlamento”, di “morte del parlamento”, di superamento della delega. Penso che l’una e l’altra siano figlie di una stessa tentazione rivoluzionaria, come sempre smentita dalla storia: perché dietro l’utopia di sterilizzare il potere c’è sempre la menzogna di un potere tecnocratico di pochi che governano sui molti, mentre, per riferirmi al messaggio che rappresenta un po’ lo slogan di questa iniziativa preziosa, “le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. Ecco, le forze che muovono la storia non sono le rivoluzioni, ma grandi, grandissimi cambiamenti sociali conseguono a piccoli cambiamenti dei meccanismi regolatori – che è la coscienza dell’evoluzione della democrazia, della società, con uno spirito riformista, e non con uno spirito massimalista e rivoluzionario. Quindi il mio giudizio sul pensiero del ‘68, e su quello che è giunto a noi, è il giudizio di una regressiva postura intellettuale che si è trascinata poi in un paese destinato a invecchiare male, diventando il modello di rappresentazione e di modo di vivere la realtà di, purtroppo, una massa sempre più consistente di persone che ha finito per coltivare quelli che oggi si chiamano diritti, ma sono sempre più pretese, in uno spazio regressivo che non tiene conto che qualunque diritto ha un prezzo, e che va, ovviamente, condiviso con un dovere. Grazie.

FRANCESCO SEGHEZZI:
Bene. A Di Leo vorrei chiedere, per andare più nello specifico dal punto di vista degli impatti giuridici che il ‘68 ha avuto, come il ‘68 si è posto dal punto di vista giuridico, soprattutto in rapporto alla legge e al giudice.

NICOLA DI LEO:
Grazie. L’abbiamo appena sentito: il ‘68 nasce da un impeto anche ideale, mette in crisi l’autorità, ma voleva un mondo più giusto, voleva eliminare il formalismo, l’autoritarismo, il classismo. E si tratta in fondo delle domande del cuore che abbiamo tutti noi: quelle domande di maggior giustizia, di maggior verità. Ma come il ‘68 prova a rispondere? Con un’impostazione ideologica, che faceva forza sulle idee di Marx, e dal lato antropologico proponeva un uomo senza limiti, un uomo al centro di tutto, un uomo indipendente, e con questa impostazione si provava a entrare in ogni rapporto, in ogni questione, con una violenza ultima, perché si voleva realizzarla ad ogni costo, secondo lo slogan della “immaginazione al potere”, che era stato coniato nel Maggio francese. Questo ha comportato una destrutturazione in tutti i rapporti, in quelli di famiglia, in quelli del lavoro, in quelli dell’Università e della scuola. Ed anche nel mondo del diritto. Perché, evidentemente, nel mondo del diritto quella domanda di giustizia si poneva ai massimi livelli, e nella legge c’era l’idea che questa fosse “una fotografia”, una fotografia dei rapporti, delle relazioni di forza del tempo, di quei rapporti tra oppressore e oppresso che si volevano eliminare. E in questa visione, chi era l’oppressore? Era lo Stato stesso, che poneva le leggi, che servivano solo per mantenere un formalismo, un classismo, e per questo o andavano cambiate o, se non fosse stato possibile, non se ne doveva tenere più di tanto conto. Ed è per questo che, dopo il ‘68, assistiamo a una forte innovazione legislativa: abbiamo lo Statuto dei lavoratori, la riforma del diritto di famiglia, la legge sul divorzio, la legge Basaglia; ma abbiamo anche importanti movimenti che si pongono o frontalmente contro il diritto – pensate alle Brigate Rosse – oppure all’interno del diritto, ma con analoga funzione destrutturante. Perché nel ‘72, a Catania, si riunisce un importante convegno dal titolo “L’uso alternativo del diritto”, che voleva proporre l’analisi marxista nel mondo giuridico, e proprio per consentire che il giudice partecipasse a un progresso sociale ipotizzato e desiderato, si voleva un magistrato fortemente svincolato dalla norma di legge. Ancora, entra in crisi l’autorità, in questo caso l’autorità della legge. Si poneva la proposta di un giudice “politico”, di una giurisprudenza “creativa” – un giudice politico si poneva evidentemente in forte contrasto con la mentalità del tempo, che nel diritto era il positivismo giuridico. Per farci capire: si tratta di un giudice solo “bocca della legge”, altro che giudice politico; un giudice senza autonomia, che doveva solo applicare la norma al caso concreto, nulla di più. E in più, evidentemente, un giudice politico era in forte contrasto con la separazione dei poteri: si poteva confondere col legislatore – un principio tutelato da un’altra rivoluzione, derivato dalla rivoluzione illuminista. Ma i sostenitori dell’uso alternativo del diritto, del giudice politico, dicevano che non importava, che occorreva superare il formalismo, che occorrevano nuovi diritti per le classi più marginali. E in questa visione il diritto assumeva una veste salvifica, per rispondere alla grande domanda di giustizia sociale. E se si fosse chiesto da dove derivavano questi nuovi poteri per il magistrato, si diceva: dall’entrata in vigore della costituzione, che aveva modificato i precedenti assetti, ponendo in discussione tutto. Allora, nel ‘68, abbiamo una prima grande domanda: cos’è che poteva rispondere meglio alla giustizia? Il positivismo giuridico, col suo formalismo, con le sue certezze normative? O piuttosto l’uso alternativo del diritto, che sembrava porre tutto in discussione, ma nel desiderio di un mondo migliore? Prima di rispondere mi sia lasciato dire che le idee dell’uso alternativo del diritto trovarono anche piede in buona parte della magistratura che, richiamando l’art. 3 della Costituzione, propose tesi innovative a favore dei ceti più marginali. E questo può non sorprendere, se si pensa che già qualche anno prima del ‘68, in un Congresso Nazionale dell’Anm, tenutosi a Gardone nel settembre 1965, nelle mozioni finali del Convegno trovava posto il rifiuto di ogni interpretazione formalistica. E poi è da raccontare tutta l’esperienza dei pretori d’assalto, che nel diritto del lavoro proposero nuove interpretazioni, interpretazioni ardite a favore dei lavoratori con nuovi diritti, e anche nel diritto ambientale e nel diritto urbanistico. Però è anche da dire che il ‘68 e l’uso alternativo del diritto trovarono anche forti dissensi nel mondo del diritto, perché sia in dottrina che in giurisprudenza si disse: «Altro che giudice politico, il ruolo del giudice è tecnico, le norme e il codice sono i suoi abituali strumenti di lavoro». Ma svincolare il giudice dal rispetto della norma di legge, equivale a creare un piccolo despota che dà ragione a chi ha torto e viceversa. Può fare questo, ha questo potere, equivale a svincolarlo dall’unico limite, dall’unico argine del suo potere di intervento che è dato dal proprio del rispetto della norma di legge. In più, non è in grado di assicurare un’esigenza importantissima nel diritto che è quella della prevedibilità della decisione, della certezza del diritto, perché è evidente che se a un giudice, io consento di decidere non secondo la norma di legge ma secondo un libero sentire, chi assicura poi che il giudice della porta accanto a propria volta, secondo il suo libero sentire, in un caso simile, svincolato dalla legge, non decida in modo diametralmente opposto? In questo modo le parti dei processi, evidentemente, non sortirebbero una maggior giustizia, ma una grande ingiustizia derivante dalla disparità di trattamento, dalla diversa decisione, dall’imprevedibilità del diritto. E allora si viene a capire che un giudice politico non è un giudice più giusto ma è un giudice atecnico, un giudice senza limiti, un giudice che non è in grado di assicurare la certezza del diritto, l’uguaglianza tendenziale, almeno, tra decisioni in casi simili. Allora aveva ragione il formalismo e il positivismo giuridico, che era stato attaccato per un formalismo, per una distanza, soprattutto, rispetto alla realtà concreta. La risposta circa il concreto rapporto tra giudice e norma, l’ha provata a dare uno dei più importanti professori della fine del secolo scorso, Luigi Mengoni, quando ha detto che il giudice deve porsi sì in una posizione di ricerca ma non nelle proprie convinzioni personali con sacrificio della norma di legge, quanto piuttosto in uno stretto rapporto tra norma e caso concreto, in cui il caso concreto aiuta nell’interpretazione della norma, aiuta a leggerla con tutti i suoi interessi, con tutto il suo contesto. In questa stretta correlazione tra caso concreto e norma la decisione sarà più aderente alla realtà, senza sacrificare però la norma che continua a rimanere l’ambito massimo di estensione, il limite di intervento del potere del magistrato, il quale rimane un ruolo tecnico e si distingue fortemente, bisogna sottolinearlo oggi più che mai, dal ruolo del legislatore. Si può dire, quindi, che il ‘68 abbia provato a introdurre un giudice politico in una visione di evoluzione sociale in cui ha posto il diritto fortemente al centro di questo progresso sociale. Ma il tentativo di un giudice politico non è convincente.

FRANCESCO SEGHEZZI:
Chi ha visto la mostra ha visto chiaramente che tutta la sezione iniziale non è sull’anno ‘68, ma parte dalla seconda metà del Novecento fino alla fine degli anni Cinquanta e soprattutto parla degli anni Sessanta e in qualche modo c’è un legame stretto tra quelli che erano i desideri e le aspettative, le promesse degli anni Sessanta, fatte a tutta la società e soprattutto ai ragazzi che stavano crescendo in quegli anni, e le risposte a queste promesse. Questo disallineamento tra quello che questi ragazzi chiedevano e quello che effettivamente era il modello sociale presente, può essere all’origine di tutto quello che è accaduto e che scoppia poi nel ‘68 ma che parte già prima. A Pesenti volevo chiedere di approfondire, dal punto di vista sociologico, questo tipo dinamica.

LUCA PESENTI:
Io prendo subito posizione dicendo che, avendo partecipato immeritatamente alla costruzione di questa bella mostra, dando il mio contributo a chi in realtà la mostra l’ha fatta veramente, i colleghi Bocci, Busani, Magni, avendo partecipato a questo lavoro ed essendomi interrogato su una stagione che conoscevo molto poco se non per le ricostruzioni mitiche o distruttive che nel corso del tempo sono state fatte, io appunto prendo posizione e devo dire che confrontandomi sui motivi che hanno determinato il ‘68, chiedendomi innanzitutto come sono solito fare perché le cose accadono e perché accadono nel modo con cui storicamente si presentano, a me questi sessantottini sono risultati immediatamente simpatici, se li guardo dal punto di vista del “perché”. Certo poi degli esiti discuteremo, ma come punto di partenza ho trovato un’immediata simpatia, per cui oggi mi trovo un po’ a fare l’avvocato difensore, paradossalmente, di questa domanda dei sessantottini i cui esiti non mi sono esattamente simpatici da un certo punto di vista, così come poi farò l’avvocato difensore, un pochino, anche del cosiddetto populismo, perché anche lì c’è da capire quali sono le origini della domanda che sta emergendo in queste forme disarticolate, che certamente non mi convincono e non mi piacciono, ma che hanno un origine, e poi cercheremo di capire e di spiegare perché secondo me anche lì l’origine sta nella temperie del ‘68. Rimaniamo al ‘68. Mi ha molto impressionato, con l’aiuto degli amici storici con cui abbiamo lavorato alla mostra, ricostruire quello che è accaduto negli anni Sessanta.
Gli anni Sessanta sono stati gli anni di una grandissima promessa o forse di una grandissima illusione, certamente gli anni di un grandissimo desiderio, incanalato nello sviluppo, negli albori di quella che diventerà la società dei consumi. Mi ha impressionato, io sono un sociologo e tendo a lavorare Innanzitutto sui dati e quindi sulla ricostruzione delle serie storiche, una serie di dati. Il prodotto interno lordo pro capite del 1960 era 5900 dollari. Otto anni dopo era diventato 9100 dollari. Le autovetture circolanti nel 1961 erano due milioni e mezzo. Dieci anni dopo erano 11 milioni. Potremmo continuare con questi dati che mi hanno, come detto, davvero impressionato. Di contro, ci sono altri dati che però mi hanno impressionato al contrario. Negli anni Sessanta e ancora fino al 1970, la quantità di reddito che le famiglie italiane dovevano mettere per l’acquisto di beni alimentari, che per chi studia i temi della povertà è un dato chiave perché dice quanto reddito sei costretto a mettere sui consumi fondamentali che ti permettono di stare in vita, e quindi in fondo quando tu sei legato a un rischio di indigenza, beh ancora alla fine degli anni Sessanta le famiglie italiane dovevano mettere quasi il quaranta per cento del loro reddito in cibo, in alimentari. Lo sviluppo consumista vero e proprio, cioè lo spostamento sempre di più verso consumi che vanno non sull’ alimentare ma su tutto il resto, accade soprattutto negli anni Settanta e arriva nel pieno negli anni Ottanta, quando si arriva ai livelli attuali, e si spende non oltre il venti per cento per mangiare, tutto il resto per tutto il resto. Ancora un altro dato. Gli anni Sessanta sono gli anni in cui, nonostante lo sviluppo del Pil, nonostante lo sviluppo dell’economia, la ricostruzione dei fatti storici fatta dall’Istat ci dice che negli anni Sessanta si perde un milione di posti di lavoro che passano da venti milioni trecentomila a diciannove milioni e trecentomila. E chi perde soprattutto il lavoro negli anni Sessanta? Le donne, che sono quelle che subiscono maggiormente la riduzione dei posti di lavoro. Attenzione! Gli anni Sessanta sono gli anni dei Babyboomers, sono gli anni non di una contrazione della popolazione ma di uno sviluppo, ancora fino al 1964 i tassi di fertilità sono in aumento, il massimo dei figli per donna che abbiamo avuto in Italia lo si ottiene nel 1964, due, sei figli per donna ed è da lì che comincia la grande decrescita che porta all’inverno demografico dei nostri giorni. Perché cito questi dati? Proprio per provare a spiegare, nella loro contraddittorietà, per quale motivo possiamo dire che gli anni Sessanta sono stati gli anni della grande promessa, ma forse anche della grande illusione. Sono gli anni dell’esplosione dell’istruzione, sono gli anni in cui mai come negli anni Sessanta aumentano gli iscritti all’Università. Allora, una società più istruita, con individui che restano sul percorso occupazionale più tempo, che investono di più sull’istruzione, che si trovano immersi in un periodo di grandi promesse, la mostra ha delle immagini straordinarie della promessa di felicità che la pubblicità comincia a fare in quegli anni con la televisione, quegli anni lì, in cui tutti dicevano «è fatta!», in cui Le Monde scriveva che «la Francia è triste perché non c’è più niente da fare, perché la generazione dei padri dei sessantottini le consegna un mondo compiuto, il migliore dei mondi possibili», sembrava non ci fosse più nulla da desiderare. Cosa desiderare? Le tre emme: matrimonio, mestiere, macchina. Fuori da qui perché desiderare altro? E invece, è qui che mi stanno particolarmente simpatici questi sessantottini, i sessantottini dicono: noi desideriamo di più, non ci basta quello che ci state consegnando. Rimanendo al mondo del lavoro, è chiaro che i sessantottini sono quelli che studiano più di tutti, entrano nel mercato del lavoro e si ritrovano la stessa fabbrica dei loro genitori, si ritrovano le stesse mansioni dei loro genitori. Oggi abbiamo molto specializzato e raffinato le nostre analisi, il problema del mismatch, il problema dell’over education, loro sono i primi che lo sperimentano. Quello che hanno studiato non gli serve per lavorare, il livello che hanno raggiunto, la laurea, non gli serve per lavorare di più e meglio. E da qui, in qualche modo, comincia la grande esplosione desiderante che poi diventa rivoluzionaria. È una domanda, secondo me, assolutamente comprensibile, dì qualcosa di più di ciò che i loro genitori gli stavano consegnando. È chiaro che poi tutto quello che inizia da lì e da lì in avanti ha bisogno, e noi nella mostra lo diciamo, credo, di leggere i chiaroscuri, ma io mi voglio fermare qui. È chiaro che il tema dell’ evaporazione del padre a cui facevi cenno tu è il tema chiave. Nel 1969 Lacan scrive «è il tempo dell’ evaporazione del padre, il padre viene simbolicamente ucciso ma il padre viene anche dissolto dall’avvento Innanzitutto della società di consumi e poi viene dissolto dalla ribellione dei sessantottini che dicono: «Quello che ci avete consegnato non ci basta, lo sguardo basso che voi ci consegnate, di una società che richiede soltanto quello che Marcuse definì l’uomo a una dimensione, non è sufficiente, noi vogliamo di più». Certo, poi dopo è cominciata quasi subito un’altra storia. Nel catalogo io cito degli autori che ho scoperto facendo questa mostra, due francesi di sinistra che si chiamano Ève Chiapello et Luc Boltanski, che scrivono un libro che secondo me è un capolavoro della sociologia contemporanea, Le nouvel esprit du capitalisme, e dedicano duecento delle seicento ponderose pagine alla destrutturazione del mito del ‘68, dimostrando come il ‘68 in fondo consegni al nuovo spirito del capitalismo se stesso con le mani incatenate. Il nuovo spirito del capitalismo comincia, dicono, cominciando a provare a rispondere a quella domanda che arriva innanzitutto dal mercato del lavoro. Già negli anni Settanta comincia a esserci un nuovo tipo di lavoro che tenta di rispondere a quella domanda di autenticità. Ho sentito che qualcuno uscendo alla mostra ha detto: voi siete fissati con la domanda di autenticità! È un tema grande che io trovo, ad esempio, nelle riflessioni di Charles Taylor, filosofo americano a me molto caro, che ha saputo riconoscere questo tema come un tema chiave e secondo me lo è assolutamente. I sessantottini vogliono un mondo più autentico, vogliono un lavoro più autentico, hanno studiato per poter riconoscere i propri talenti nel lavoro, si trovano la vecchia catena di montaggio, si trovano il vecchio modo di lavorare. Il capitalismo cominciò a rispondere così: maggiore flessibilità, maggior riconoscimento della creatività personale. Però gli scioperi non solo non diminuiscono ma aumentano, perché nel frattempo la saldatura tra il movimento studentesco e il momento operaio è accaduta, movimento operaio che contesta il fatto che con il boom economico c’è un milione di posti di lavoro in meno, che nel boom economico le condizioni di vita delle famiglie più umili non sono migliorate ancora, che tutta la promessa di liberazione dall’indigenza non ha ancora trovato soluzione. Questa è la risposta ma non funziona. Allora arriverà la seconda risposta, la vediamo dopo.

FRANCESCO SEGHEZZI:
Come avete sentito già in questo primo giro di risposte, abbiamo respirato molto delle contraddizioni e delle luci ed ombre contemporanee. Nel cominciare il secondo giro, nel fare la domanda a Barbano, riprendo una delle parti conclusive dell’intervento di Pesenti. Concordo che nel fare la mostra siamo tutti un po’ fissati con il concetto di autenticità, concordo e lo rivendico positivamente, perché abbiamo visto nella autenticità espressa dai giovani del ‘68, un’autenticità e un desiderio che non era istintività, era un’autenticità profonda, di una dimensione spirituale direi, nel senso di esistenziale e che si completava con un desiderio e una volontà, e anche un esercizio di analisi dell’esistente, un’analisi che se necessitava di complessità ai tempi, figuriamoci oggi. Nel corso degli anni tante cose sono accadute. “Il vogliamo tutto” dei sessantottini alla fine era un vogliamo tutto subito e non un vogliamo tutto in un arco temporale di trent’ anni, però mi sembra che in fondo questa autenticità si sia un po’ dissolta.

ALESSANDRO BARBANO:
Nel ‘68, come nel 1517, quando Lutero affigge le sue tesi davanti alla chiesa di Wittenberg, che cosa era accaduto? Erano accadute una serie di cose evidentemente. Nel 1517 c’era una chiesa sorda alle ragioni del cambiamento, anche allora. Tanto è vero che anche l’esito successivo del Concilio di Trento apre poi la strada ad una stagione che verrà chiamata Controriforma; e c’era una grande accelerazione della tecnica perché Gutenberg nel 1455 aveva inventato la Bibbia. Lutero stampa la Bibbia in centomila copie e va dentro una chiesa e spiega ai fedeli che per parlare con Dio non è più necessario avere il prete. Abbiamo lo smartphone dell’età moderna, la Bibbia. Se ci pensate questa è la prima forma di disintermediazione che si produce, di frattura della delega; il prete era il corpo intermedio nel rapporto fra il fedele e la verità. E Lutero dimostra che l’accesso alle Sacre Scritture coincide con la possibilità di un cittadino di decidere della terapia vaccinale del proprio figlio, accedendo direttamente a internet e studiando una serie di testi, interpretandoli in maniera del tutto decontestualizzata da una qualunque mediazione. Che cosa voglio dire? Voglio dire che tutte le epifanie della tecnica (Gutenberg) producono evidentemente delle crisi, perché la crisi è espressione stessa del benessere e quando poi ci sono dei tappi che la cultura corrente pone, evidentemente questi tappi fanno da detonatore. Nel ‘68 – lo spiega anche molto bene sempre Magatti nel suo bellissimo libro Libertà immaginaria – che cosa si è prodotto? L’ho detto l’altro giorno, ma lo ripeto, sperando che al dibattito dell’altro giorno non ci fossero le stesse persone che ci sono stasera e in tal caso mi scuso se ripeto. Magatti dice: «Dopo la seconda guerra mondiale, il capitalismo per produrre ricchezza ha bisogno di società ordinate; dopo i disastri dei totalitarismi e quindi le grandi turbolenze sociali che si erano prodotte c’è bisogno di nuove organizzazioni sociali. Le istituzioni repubblicane nella forma della democrazia che si impone in Europa, come condizione stabile, concorrono a stabilizzare le società e quindi a fare questo patto con il capitalismo. In quale modo? Attraverso istituzioni repubblicane molto irreggimentate, dotate da una morale comune molto forte in grado anche di, in qualche modo, rappresentare una disciplina sociale. Questo patto funziona, anche perché poi attraverso il welfare, le democrazie ridistribuiscono la ricchezza che il capitalismo produce nei primi due decenni del boom economico italiano e comunque della grande crescita economica europea». E si rompe quando? Si rompe per le stesse condizioni per cui si è prodotto, perché da una parte il benessere determina un affrancamento dei bisogni e dall’altra invece i processi culturali di stabilizzazione sociale rappresentano un ostacolo a quella voglia di autenticità che il benessere in qualche modo innesca sotto forma di un istinto libertario che riporta la soggettività individuale in emersione. Questo si è prodotto nel 1517, secondo me, nel ‘68 e in qualche modo si produce adesso. Ha ragione Pesenti nel dire: «Io assolvo i sessantottini e condanno i pensieri politici che non capirono e non governarono evidentemente queste crisi». Penso alla torsione della Democrazia Cristiana da una stagione, diciamo, pedagogica che, secondo me, segna i primi due decenni della sua storia, una stagione che diventa una stagione di pura gestione consociativa del potere che segna gli anni dal 1970 in poi, dalla metà degli anni Settanta in poi. Penso alla difficoltà del Partito Comunista, per esempio, di fare tesoro della crisi anche geopolitica globale per mettere in discussione alcune verità ideologiche piene di contraddizioni, per esempio quelle che emergevano dai fatti di Ungheria e dai fatti di Praga, dove il Partito Comunista non seppe fare autocritica, prendere le distanze da quello che la storia dimostrava rispetto all’evidenza della violenza che il regime sovietico e i regimi comunisti portavano dentro di sé. Perché non lo fece? Perché era troppo importante difendere l’utopia della rivoluzione proletaria del socialismo realizzato e quindi non ebbe la forza e la capacità di essere elemento maieutico della società e quindi questa stabilizzazione sociale che il capitalismo aveva richiesto, divenne una crosta, una crosta che come tutte le croste destinata a rompersi. E questo sicuramente fu l’errore che si produsse. Dopo di che gli esiti sono quelli che hai detto tu. È chiaro che il capitalismo (lo dice anche Magatti) improvvisamente si accorge di non avere più bisogno di una società ordinata, ma si accorge che per produrre ricchezza ha bisogno di una società disordinata, perché l’atomizzazione sociale porta più profitto, perché la spesa della famiglia produce meno profitto della monoporzione venduta al supermercato. E quindi il capitalismo cosa fa? Il capitalismo sposa in qualche modo con un matrimonio assolutamente paradossale, il movimento anarcoide, libertario, bohemienne sessantottino, si crea una eterogenesi dei fini, cioè si crea un effetto diverso rispetto a quello che quantomeno il ‘68 nella sua ansia libertaria e rivoluzionaria si proponeva, e finisce per declinare la libertà dei consumi, tutta la carica di soggettività e di protagonismo individuale diventa consumismo, come Pasolini anticipa. E cosa fa il capitalismo in quel momento? Inventa il divorzio. Il divorzio è una grande conquista sociale, è un grande rimedio, è una forma di partecipazione. Possiamo guardarla laicamente con questa prospettiva non confessionale. Però il divorzio, come tutti i diritti, ha un prezzo. Non ci sono diritti che non hanno un prezzo. Magari il prezzo lo pagano le generazioni a venire, in termini ecologici, in termini previdenziali, ma i diritti hanno un prezzo. Anche i diritti civili, apparentemente i diritti personalissimi, quelli che sembrano ancorati a una dimensione della persona in quanto persona, hanno un prezzo. Perché? Perché il divorzio è una conquista, un rimedio, possiamo guardarlo in mille modi, ma l’estetica del divorzio, cioè l’idea del divorzio come occasione di una libertà nella relazione che porta a una frantumazione sociale, evidentemente l’estetica del diritto diventa un elemento di frattura, di disintegrazione del presidio famiglia, del ruolo di coesione sociale che la famiglia svolge. Allora, tutti i diritti presuppongono dei doveri. Quando i diritti non si rivolgono più contro un’autorità, che non c’è più perché l’abbiamo abbattuta in democrazia, i diritti devono essere controbilanciati dai doveri e questa relazione tra i diritti e i doveri si deve svolgere dentro lo stesso campo di gioco. Senonché i diritti nella cultura occidentale sono slittati in quella che io chiamo (non io, ma tanti chiamano) una “prospettiva estetica”, cioè la prospettiva nella quale le possibilità della tecnica aumentano il perimetro, lo spazio del possibile, e quindi trasformano ciò che fino a ieri era impossibile in qualcosa che diventa possibile. I diritti coprono questo spazio, lo legittimano e quindi trasformano in qualcosa che è giusto (c’è un diritto!) qualcosa che è semplicemente possibile per il solo fatto che è possibile. Questo produce uno slittamento dalla dimensione dell’etica (che giudica le azioni umane sulla base dei valori) verso una dimensione estetica, in cui tutto ciò che è possibile diventa giusto e iniziamo a considerare bisogni e diritti mere possibilità della tecnica. Io ho raccontato in qualche dibattito cosa mi è accaduto per esempio, nella mia esperienza di direttore del Mattino. Mi è accaduto un giorno, durante il dibattito sulla legge sui diritti civili (ve lo ricordate?), di ricevere la telefonata di una valente editorialista di cultura progressista e anche una donna femminista che aveva condotto battaglie importanti, che mi ha detto: «Guarda direttore, io ci ho pensato, vorrei scrivere un pezzo sull’utero in affitto. Io sono a favore dell’utero in affitto perché in fondo è un diritto. C’è un contratto. La donna perché non dovrebbe poter vendere il suo corpo per rendere felice una coppia infertile e nello stesso tempo guadagnare qualcosa per migliorare la sua condizione? È tutelata da un contratto!». E io le ho detto quel giorno: «Ma tu sei sicura che questo è un diritto? Che la condizione di una afroamericana che partorisce cinque-sei volte in una clinica, in condizione di subalternità contrattuale assoluta, di igiene e di pericolo per la salute, per guadagnare 20.000 dollari con cui mantenere gli altri figli che ha a casa, sei sicura che questo sia il conseguimento di un diritto e non invece uno spazio del possibile che la tecnica apre con la procreazione assistita e che tu con la tua suggestione trasformi in un diritto?». Questo slittamento si è prodotto, secondo me, dentro la cultura occidentale, perché il pensiero politico e civile, liberale e riformista, non ha investito sull’estetica dei doveri, non ha insistito neanche su un’etica dei doveri, ma meno che mai su un’estetica dei doveri, cioè non è riuscito a proporre lo schema e il modello non voglio dire di una missione, ma di un impegno civile come il senso della felicità. Nessuna cultura ha investito nella responsabilità sociale della famiglia, nel ruolo connesso alla promozione del modello familiare, se non la cultura confessionale, tant’è vero che la difesa della vita per l’aborto e la difesa del matrimonio per il divorzio sono diventati esclusivo appannaggio del magistero confessionale. Io credo per esempio che la difesa della vita sia un elemento di assoluta centralità nella laicità, anche nella laicità. Il diritto ha investito nelle forme del diritto creativo, come ha raccontato benissimo il nostro magistrato e quindi anche qui perpetuando l’idea che questi diritti potessero crescere oltre il limite, evidentemente, del rapporto dialettico con i doveri e con il prezzo degli stessi diritti. E si è prodotto quello slittamento che è figlio dei nostri giorni. Anche i giovani che hanno consegnato l’Italia al populismo il 4 marzo sono simpatici, sono animati da una sincera ansia riformatrice, se così si può dire, quantomeno redentrice. È evidente, però, che anche lì si sono prodotti degli errori, perché noi abbiamo concepito per esempio l’idea della comunicazione internettiana come qualcosa di liberatorio, che avrebbe aumentato la conoscenza, avrebbe ridotto gli spazi, avrebbe consentito la partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni. Poi oggi scopriamo che questo diritto, questa possibilità che la tecnica apre e che il dirittismo occupa, ha un lato oscuro, ha il lato oscuro del furto dei contenuti, per cui non esiste diritto d’autore, per cui si precarizza il lavoro, per cui il mercato orizzontale, dove milioni di cittadini smanettando dalla mattina a sera simulano una dimensione che somigliano al lavoro, ma non è lavoro, perché non ha la dignità del lavoro, e garantisce soltanto l’unico profitto verticale in capo al monopolista. Dove si viola la privacy e dove un cittadino che viene in conflitto con una grande centrale internettiana è costretto a fare causa a Palo Alto, sede legale della centrale internettiana; dove ancora si condiziona l’esito delle elezioni (perché questo è accaduto) e dove più di tutto (lo metto infine, ma è centrale questo) si produce una fabbrica di indignazione, cioè il trash diventa la cifra dell’opinione pubblica nazionale e le emozioni cancellano il logos della ragione nella comunicazione sulla rete, dove avviene tutto ciò co0sa rivela? Evidentemente l’ansia anarcoide, libertaria, soggettivistica dei nuovi cibernauti è una cosa simpatica, le possibilità della tecnica ci sono, c’è pure chi specula ma abbiamo commesso un errore nel non considerare il potenziale di rischio che le tecnologie e l’espansione dei diritti hanno con sé. Questo è il grande errore che si è prodotto e la disintermediazione e gli effetti politici che stanno minando fortemente le basi della democrazia rappresentativa sono l’esito che è sotto gli occhi di tutti. Mi fermo qui, ma non vorrei apparire catastrofico. Mi corre l’obbligo di dire che sono fortemente ottimista e fortemente persuaso che come è accaduto nella storia sempre, queste epifanie della tecniche verranno prima o poi riassorbite dalla cultura. È chiaro più prima che poi, a seconda del tempo in cui alla cultura si riconosce il suo primato, la sua forza e la sua dignità. Io credo che questa sia la sfida e che questa iniziativa del Meeting sia una delle poche che capiscono di averla colta.

FRANCESCO SEGHEZZI:
Grazie. A Di Leo volevo chiedere di proseguire il ragionamento avviato in precedenza, per capire quali sono gli impatti sull’oggi che questo tipo di cultura giuridica che ha illustrato prima, ha prodotto.
NICOLA DI LEO:
Sì, l’ha già anticipato Barbano, la giurisprudenza creativa ha determinato un moltiplicarsi di diritti enorme. Siamo partiti dai pretori d’assalto degli anni Settanta, arriviamo oggi ai nuovi diritti civili che si definiscono con un termine suggestivo che rende bene il fenomeno, i diritti – desiderio, perché ogni desiderio in qualche modo può diventare diritto oppure, detto in altri termini, i diritti sono tanti quanto i desideri dell’uomo. Questa cosa è stata determinata non solo appoggiandosi sulla Costituzione, ma altresì sull’apertura del nostro ordinamento al sistema europeo che ha introdotto una modalità per il giudice di giungere alla decisione particolarmente favorevole al fenomeno, ragionando, si dice, per diritti. Il giudice seleziona nell’ambito della coscienza sociale (non tanto da una norma), un diritto come prevalente e solo dopo, a posteriori, lo conferma con una motivazione utile per supportare, per giustificare la propria scelta, questa volta sì, collegata alle norme di legge. E in questa dinamica evidentemente ha un ruolo molto importante il sentimento, perché ve ne sarete accorti, si pongono sempre di più all’attenzione della magistratura casi emotivamente rilevanti, di solito accompagnati dall’attenzione dei media, in cui il giudice si trova di fronte all’urgenza di giungere alla decisione definendo un nuovo diritto per rispondere all’istanza sociale, anche se dovesse sacrificare un’analisi perfettamente tecnica. In questa visione il diritto è posto come risposta salvifica alla domanda di giustizia sociale e questi diritti sono tra l’altro particolarmente accattivanti, particolarmente affascinanti, perché non creerebbero pregiudizio per nessuno, sarebbero solo vantaggiosi per il suo titolare. Ma l’abbiamo appena sentito da Alessandro Barbano: non esiste diritto senza dovere. È sacrificata in questa logica la realtà concreta per cui ogni diritto presuppone immediatamente l’individuazione di un dovere, di un soggetto passivo tenuto a subire o a fare qualcosa proprio perché si è individuato un nuovo diritto. Ma non è solo la mancata descrizione delle posizioni passive che questa logica viene a pregiudicare, ma è la stessa libertà individuale. Come bene osserva Alessandro Barbano nel suo testo, si è un po’ smarrito nel mondo liberale d’oggi il concetto che il contenuto della libertà individuale è dato dal rispetto di un limite, il rispetto della posizione degli altri. Il tema era caro anche a Benedetto XVI, quando diceva: «La libertà individuale è libertà condivisa, si tratta di libertà che si limitano reciprocamente: il mio diritto è giustizia proprio perché rispetta il tuo». E questo fa ben capire come sia necessario un ordine, una sistematica, non certo giudici che, ognuno scoordinato dall’altro, riconoscano ognuno un proprio diritto. Questo non è compatibile, serve un ordine, un sistema. Si capisce in questo modo come il diritto assuma una specifica funzione, quella di costituire il perimetro, l’ambito, l’argine all’interno del quale la libertà umana può muoversi. È l’area del lecito: al di fuori di questo perimetro c’è l’illecito, ma all’interno di questo perimetro c’è il perimetro dell’umanità, della libertà umana. E con questo importante punto di arrivo si può provare a verificare l’onda lunga del pensiero del ‘68 nei giorni nostri. Perché abbiamo visto che il ‘68 ha affidato tanto del mutamento sociale al diritto, ha provato un’esperienza nel campo giuridico proponendo, prima dal lato antropologico un uomo senza limiti, ma seguendo dal lato giuridico un giudice senza limiti, un giudice politico e nuovi diritti senza limiti. Ma questo non è convincente e allora quale potrebbe essere una risposta alternativa? Forse un suggerimento possiamo trovarlo nel titolo del Meeting che pone l’attenzione su un campo extragiuridico, in un uomo felice, in un uomo che ha le forze nella sua felicità per il cambiamento della società e il cambiamento della storia. Un uomo felice quindi da una parte e questo fa venire in mente come ancora nel campo giuridico oggi si insista invece su un qualcosa di diverso, che sono i diritti infelici, i diritti che vengono apertamente chiamati così nel campo importante delle malattie gravi, del diritto a morire. Quindi, abbiamo da una parte il titolo del Meeting con un campo extragiuridico e un uomo felice, dall’altro ancora il campo giuridico con i diritti infelici. E la proposta del Meeting forse è ben più che una semplice provocazione, perché, si è appena detto, il diritto in fondo è quel perimetro all’interno del quale la libertà umana può muoversi per rispondere alle più grandi tematiche dell’uomo. Ma da lì poi a dire che il diritto costituisca l’unica ed esclusiva riposta per le questioni umane, da lì ce ne passa! E allora forse è stato un po’ frainteso negli ultimi tempi il ruolo del diritto e per verificare la possibilità del suggerimento del titolo del Meeting, della realtà completa, si può, nel campo della malattia, proprio quello in cui sono emersi i diritti umani, richiamare esperienze della realtà come quella di Cicely Saunders, di cui corre quest’anno il centenario della sua nascita. Infermiera inglese nel secolo scorso, Cicely Saunders ha inventato le cure palliative, gli hospice, capendo che l’uomo, il malato non deve essere trattato tanto giuridicamente, quanto piuttosto integralmente, nel suo dolore totale, che è dolore non solo fisico, non solo psichico, ma anche sociale (pensate all’esclusione della malattia che si determina nei rapporti sociali), dolore spirituale (pensate alle grandi domande di senso che la malattia propone). E capendo così la vita, ha proposto un metodo di assistenza di cui oggi tutti riconosciamo la grande importanza, contribuendo certamente all’evoluzione sociale. E se si pensa invece alle persone felici, è nota al Meeting certamente Rose Busingye, quella donna che, lo sappiamo, incontra don Giussani che le dice «Tu vali più dell’universo intero». Una frase così enorme, che può sembrare solo poetica, com’è stata invece efficace nella vita di Rose, che è andata in Uganda, si è occupata delle donne malate di Aids che dicevano: «Non vogliamo prendere le medicine perché vogliamo morire» e lei ha capito che doveva star con loro e dir loro che la loro vita valeva più della loro malattia, della baraccopoli, della discriminazione. Con questi due esempi si può allora ben capire come certamente la risposta giuridica non vada trascurata, perché serve per delineare quel perimetro all’interno del quale la libertà umana può liberamente muoversi per rispondere ai problemi più grandi dell’uomo, ma dopo di ciò non è irragionevole lasciare il campo a quell’umanità, a quella solidarietà. D’altronde il principio di solidarietà è uno dei più importanti della nostra Costituzione e la sua attuazione richiede normalmente o frequentemente relazioni umane non facilmente giuridicizzabili. Non si può imporre di voler bene a un ammalato, non si può imporre a un ammalato di prendere le medicine. Allora forse capiamo che dal ‘68 ereditiamo un’eccessiva tendenza a ricercare soluzioni nel campo giuridico, con il rischio di trascurare quelle risposte del campo extragiuridico che possono essere interessanti, a non porle a tema nei dibattiti, nelle proposte educative e culturali, nelle proposte legislative. Infatti, se in una relazione umana significativa trovo una così importante risorsa, perché non dovrei porla a tema, almeno a tema, come presupposto nelle proposte di legge, nei dibattiti o nelle stesse aule di udienza? Per me, ad esempio, è stato veramente importante quando ho capito che nell’aula di udienza non entrava solo un caso giuridico, ma ben di più, delle persone umane che eccedevano il tema giuridico e questo ha consentito delle possibilità conciliative, cioè di accordo tra le parti, fino a quel momento inimmaginabili. Nei tempi moderni direi allora che parliamo ancora tanto di nuovi diritti, ma forse c’è un’eccessiva retorica su questo tema. Nel senso che si pone un po’ troppo il diritto come orizzonte ultimo delle problematiche umane, col rischio però di dimenticarsi di quelle possibilità umane, di quella solidarietà, estremamente efficaci. La felicità c’entra con le ragioni del cuore, c’entra con l’ideale, c’entra con quel poter dire a un altro «tu vale più dell’universo intero»; c’entra con il nostro radunarci qua, c’entra con tutto questo. E allora ci si può chiedere davvero, se più che di nuovi diritti infelici, con una loro ultima retorica, nei tempi d’oggi non ci sia più bisogno di persone vere, di persone felici, capaci di cambiare realmente la storia. Se l’era già chiesto, nel ‘78, pochi anni dopo al ‘68, Alexsandr Solzenicyn quando, parlando dell’occidente, parlando all’occidente, lui premio Nobel, scrittore russo, esiliato dalla Russia, veniva a dire che un mondo ingabbiato dai rapporti giuridici assume una mediocrità spirituale incapace di produrre quei più importanti slanci umani di cui abbiamo estremamente bisogno.

FRANCESCO SEGHEZZI:
Anche a Pesenti chiederei di andare avanti nel ragionamento che stava facendo prima.

LUCA PESENTI:
Torno sulla questione dell’evaporazione del padre. Nota bene: il padre contro cui si ribellavano i sessantottini era per molti versi un padre insopportabile. Quindi questo lo chiariamo subito. Nessuno si azzardi a richiedere il ritorno del padre autoritario contro il quale i sessantottini si sono scagliati. Ma la rottura di quel modello di padre che è un modello simbolico, che è un modello della legge appunto, che porta ciò che diceva prima Alessandro Barbato, cioè ad una frattura tra legge e desiderio, e toglie l’argine al desiderio facendolo decollare nel modo che ci ha appena detto anche Nicola Di Leo, ebbene ha un esito duplice. Da un lato ha l’esito della società liquida: se tolgo gli argini il liquido si sparge ovunque. E la società liquida è una società che in realtà appare sempre di più come una società segnata da un altro termine chiave che risuona anche nella mostra e a me particolarmente caro anche da letture giovanili di uno scrittore americano che si chiama Christopher Lash, che, nel 1979, scriveva un libro per me capitale che si chiama La cultura del narcisismo. Il concetto di narcisismo è un concetto chiave: la grande promessa di cui ho parlato prima, viene rapidamente incanalata sulla sponda non tanto delle grandi richieste dei diritti sociali, di cui l’operaismo fu l’evidenza più chiara e che si spense negli anni Settanta sostanzialmente. Il capitalismo risponde anche ad un’altra critica, che è la critica appunto dell’uomo desiderante, dell’uomo che comincia ad avanzare una pluralità di domande legate alla propria autenticità. A questa domanda la risposta è appunto la società dei consumi. Ma in una società dei consumi di tipo narcisistico, non essendoci più un argine di legge, il desiderio esonda e piano piano già nel 1979 si parla di cultura del narcisismo da parte di un americano che anticipa quello che sarebbe accaduto anche da noi. La libertà del narcisismo è una libertà irresponsabile, non direzionata ad altro se non alla massimizzazione del proprio utile individuale, il bene maggiore, e la richiesta maggiore è quella «tutto deve funzionare per aumentare il mio benessere individuale». In fondo è una psicologizzazione della società. L’unica cosa che conta è il mio benessere individuale. Sul piano esistenziale ciò porterà anche all’etica delle porte girevoli: ogni scelta deve essere in qualche modo rivedibile, ogni scelta anche la più impegnativa sul piano esistenziale deve essere reversibile. Queste sono cose abbastanza normali da dire rispetto ai tratti di fondo. Ma il passo in là che io faccio, lo faccio anche grazie ad alcune letture che ho fatto recentemente, molto godibili, di uno storico con il gusto della politologia, che è Giovanni Orsina e di un sociologo con il gusto del dato in chiave antiideologica che è Luca Ricolfi. Tutto ciò ha delle conseguenze sulle concezioni della democrazia e sulle relazioni tra la politica il popolo. Forse proprio tu, su Il Foglio, scrivevi di “consensismo”, di “consensite”. C’è una domanda crescente che cade sulla politica innanzitutto, ma questa domanda crescente arriva nella fase terminale dei trent’anni gloriosi del sistema di welfare. I trent’anni gloriosi, noi siamo soliti dire che finiscono intorno alla metà degli anni Settanta. Dalla metà dei Settanta in poi è l’inizio della crisi del sistema di welfare, cioè l’inizio della crisi della grande promessa di compimento del benessere collettivo e per tutti, che è stato quello dell’universalismo incarnato nel welfare. Da lì in avanti iniziano in problemi, perché da un lato la politica è costretta ad inseguire questa crescita della domanda sociale, diritti sociali, le donne, l’ecologia, mettiamone quanti ne vogliamo, tutto ciò che è accaduto in quegli anni, e dall’altra parte la politica non è assolutamente in grado di dare risposte. Sempre di più la politica si accorge di non essere capace di fare. Giovanni Orsina, ieri, su Il Foglio, reagendo alla proposta del Il Foglio, ci dice che l’epicentro del populismo di oggi è “mani pulite”. Io credo che in realtà “mani pulite” sia stato un sintomo di una malattia che era ancora precedente. Ed era la malattia di una politica incapace di gestire in proprio questi problemi, incapace di dare risposte in proprio a quelle domande sociali, e che, facendosi ancora del male, comincerà a fare una battaglia contro le forme di identità culturale e sociale presenti nell’arena politica, contro l’identità cattolica e l’identità socialista, che verranno e sono state ormai definitivamente epurate dall’agone politico, cioè le uniche che potevano in qualche modo intercettare quei bisogni e quell’ansia della popolazione. Con i passi successivi che cosa fa la politica: è obbligata a seguire il consenso dell’individuo narcisista ma non è in grado di rispondergli. L’operazione successiva è: consegnare la risposta o consegnare l’impossibilità di quella risposta, ad organismi tecnici terzi. La copertura delle forme tecnocratiche dell’Europa, ma anche la copertura del rimando alla magistratura della normazione sui diritti, è l’esempio di questi ultimi anni. Che cos’è se non la resa incondizionata della politica alle strutture tecniche burocratiche che non sono politiche, che non sono elettive, che non sono democratiche? In qualche modo la politica ha scavato profondamente il terreno sotto di sé, mettendo in crisi se stessa e la democrazia. Allora da questo punto di vista, e concludo, in questo scontro tutto moderno tra rivoluzione dei popoli, ribellione delle masse (Ortega y Gasset), e secessione delle élites (ancora Christopher Lash), tra la rivoluzione giacobina della fine del Settecento e Saint Simon che poco dopo, nel 1803, propone che il governo dell’umanità sia affidato a scienziati liberamente eletti, dentro questa dinamica si srotola la storia del Novecento che passa attraverso il ‘68 anche come un tentativo di nuova ribellione delle masse che chiedono più democrazia, più partecipazione, più sviluppo delle istanze sociali, umane, creative dell’uomo. Dall’altra parte, però, la consegna ad élites tecnico specialistiche della risposta a questi bisogni. Mani pulite è solo un pezzo di questa storia. La domanda che emerge dai nuovi populismi io, da sociologo, voglio capirla. Certo, la forma che assume questa domanda è una forma molto problematica ed è una forma sicuramente che porta profili di grande preoccupazione da un certo punto di vista. Ma mi sembra che il dibattito oggi sia tutto di dire «sono arrivati i nuovi barbari». I nuovi barbari non vanno buttati fuori ma vanno romanizzati, ha detto proprio oggi Orsina su Il Foglio. Sono molto d’accordo, non dobbiamo continuare a dire che sono barbari e che ci fanno così tanto schifo, ma dobbiamo partire dalle origini di quella domanda che è venuta su. Io spesso dico per quale motivo c’è la domanda del reddito di cittadinanza, che è una domanda contro l’uomo e non a favore dell’uomo, perché inchioda l’uomo a una condizione non umana di essere liberato delle proprie necessità, di mettersi in moto. Ebbene nel corso del tempo la politica ha pensato bene, anche con alcuni legge elettorali, di tirarsi via dalla vita concreta degli uomini e delle donne di questo Paese, consegnando gli uomini e le donne di questo Paese ai propri problemi verso i quali non trovavano più risposta. Anche qui, non vogliamo fare passatismo, non dobbiamo farlo, ma la storia dei grandi partiti popolari in Italia che cosa è stata? Una storia anche pedagogica. Ma questa pedagogia era possibile perché le sezioni dei partiti erano alla Magliana, erano al Quadraro a Roma, erano a Centocelle, erano a Quarto Oggiaro a Milano, era possibile perché c’erano persone che stavano vicino agli uomini e alle donne li accompagnavano nei loro bisogni. Dobbiamo continuamente ritornare lì. Noi abbiamo bisogno di tornare a leggere che cosa sta capitando nelle periferie, prima di dire con orrore «le periferie votano Movimento cinque stelle e Lega». Lì è successo qualcosa, lì bisogna tornare a guardare che cosa sta succedendo per capire, per capire come fare a costruire innanzitutto un popolo, senza censurare la domanda che oggi ha assunto una forma certamente problematica, ma se questa forma è nata, è perché prima è successo qualcosa che ne ha determinato la fissazione in questa dimensione elettorale.

FRANCESCO SEGHEZZI:
Ringrazio i nostri ospiti per averci aiutato a entrare nell’oggi. Ricordo soltanto a tutti che il Meeting è gratuito come tutti sapete. Il fatto che è gratuito e continua ad essere gratuito, dipende anche dalle donazioni che si fanno. Là in fondo vedete un punto per fare qualche donazione, c’è un cuore che si sta muovendo, quindi muovete anche il vostro cuore, donate qualcosa al Meeting, così da poterci rivedere l’anno prossimo.

(trascrizione non rivista dai relatori)

Data

24 Agosto 2018

Ora

19:00

Edizione

2018
Categoria
Arene