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150 ANNI DI SUSSIDIARIETÀ
150 anni di sussidiarietà
21/08/2011 ore 17.00_x000D_ Incontro in collaborazione con l’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà. Partecipa Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica Italiana. Intervengono Enrico Letta, Vicesegretario del Partito Democratico; Maurizio Lupi, Vicepresidente della Camera dei Deputati; Giorgio Vittadini Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente della Fondazione Meeting per l’Amicizia fra i Popoli.
Incontro in collaborazione con l’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà. Partecipa Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica Italiana. Intervengono Enrico Letta, Vicesegretario del Partito Democratico; Maurizio Lupi, Vicepresidente della Camera dei Deputati; Giorgio Vittadini Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente della Fondazione Meeting per l’Amicizia fra i Popoli.
EMILIA GUARNIERI:
Diamo inizio all’incontro che il Meeting ha realizzato in collaborazione con l’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà dal titolo “150 anni di Sussidiarietà”, con la partecipazione, e questo lo dico con grande gioia, con la partecipazione del Presidente Giorgio Napolitano – questo per il Meeting è un evento assolutamente storico – e con gli interventi di Giorgio Vittadini, Enrico Letta e Maurizio Lupi.
Egregio Signor Presidente, con grande gioia, lo ribadisco, le porgo il benvenuto e il ringraziamento di tutti gli amici organizzatori, la gratitudine di tutti noi, di tutti i presenti, di tutto il popolo del Meeting. Siamo onorati di accogliere oggi chi rappresenta, e non solo simbolicamente per l’alta carica che ricopre, chi rappresenta l’unità di questo nostro popolo italiano, il suo bisogno di coesione, di positività e di libertà. In questi trentadue anni, cercando di collaborare attraverso l’opera del Meeting all’amicizia tra gli uomini e i popoli, siamo divenuti sempre più consapevoli che solo in un contesto culturale, sociale e politico di autentica libertà è possibile per ognuno l’espressione operosa e costruttiva di sé, dei propri desideri, della propria cultura e della propria tradizione. Da quel grande innamorato della libertà che è don Giussani, tanti di noi qui presenti hanno imparato che la libertà di movenze immaginative e operative è una questione di vita o di morte per una civiltà e lo è pure per la democrazia. Non possiamo, quindi, Signor Presidente, non ringraziarla per il richiamo continuo che sentiamo nelle sue parole ad una unità nazionale, capace di riconoscere e valorizzare, come lei stesso ha detto, pluralità, diversità, solidarietà e sussidiarietà. È proprio questo amore alla pluralità delle culture e alla irripetibile diversità di ogni uomo che, anche nell’esperienza del Meeting, ci ha reso appassionati compagni di tutti coloro che abbiamo incontrato, in una rete di rapporti, come diceva recentemente il Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, don Julián Carrón, in cui ciascuno aiuta l’altro a essere sempre più se stesso. Prende oggi avvio, Signor Presidente, il Meeting dedicato al tema della certezza, in un contesto culturale, sociale, politico ed economico segnato da incertezze profonde, ma soprattutto, e questo è ciò che maggiormente ci inquieta, gravato da quella ideologia relativista che vorrebbe negare agli uomini il diritto alla certezza, affermando che la ragione non sarebbe in grado di raggiungere certezze relativamente alla conoscenza della realtà. Quello che credo tutti ci aspettiamo dall’esperienza di questi giorni è di incontrare persone sinceramente in cammino verso la certezza, leali nei confronti del proprio desiderio, impegnati con il proprio lavoro, appassionati al destino proprio e degli altri, capaci di testimoniare ogni scintilla di positività e di verità che abbia toccato la propria vita. Una umanità così fatta, per altro, Signor Presidente, è anche ciò che ognuno di noi tenta di vivere ogni giorno nei luoghi del proprio quotidiano, famiglia, lavoro, società, politica. Oggi siamo in tanti qui ad accoglierla e ad ascoltarla, tanti, diversi per storia, cultura, religione, appartenenza, così come è nella tradizione del Meeting, e ognuno potrebbe esprimere l’accento e la tonalità umana della propria esperienza. Quelli di noi che sono stati affascinati e attratti dall’incontro cristiano possono documentare che questa appartenenza ha la sua ragione unicamente nel fatto che in tale incontro sperimentiamo un risveglio e un compimento di quella esigenza umana di bellezza, di giustizia, di positività che ci rende compagni di strada di tutti gli uomini. Consapevoli della gravità dei bisogni che tutti oggi siamo chiamati ad affrontare, anche nella situazione del nostro Paese, desideriamo contribuire al bene del nostro popolo italiano attraverso ciò che siamo, non in nome di una difesa identitaria, ma consapevoli di rappresentare una risorsa umana per il nostro Paese, proprio in forza di quel ruolo sociale e pubblico della Chiesa Cattolica, cui lei, Signor Presidente, faceva riferimento nel suo memorabile discorso alle Camere del 17 marzo. E ora vorrei terminare, esprimendole, anche con un dono, la gratitudine e l’emozione sincera di tutti noi per l’onore che ci ha voluto riservare con la sua presenza. Desideriamo, Signor Presidente, farle omaggio di un libro e di un dipinto, entrambi a noi molto cari: il libro è Il senso religioso di don Giussani, il dipinto è un’opera del pittore americano William Congdon. Ci sono sembrati espressivi di ciò che siamo, ci sono sembrati una cosa bella, espressiva di ciò che siamo e dello sguardo con cui cerchiamo di stare di fronte al reale, tesi ad abbracciare il segno della realtà per coglierne il mistero.
Il Presidente ha appena visitato, prima di entrare qui in salone, la mostra “I 150 anni di Sussidiarietà. Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo”. Dal lavoro intorno a questa mostra, nata dal desiderio di collocarci, anche come Meeting, nel contesto della memoria dei 150 anni dell’Unità di Italia, è scaturito l’invito che abbiamo rivolto al Presidente e che ci ha consentito di poterlo avere oggi tra noi. La mostra è stata realizzata dalla Fondazione per la Sussidiarietà e ha ricevuto la concessione del logo ufficiale delle celebrazioni per il Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. Il Professor Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, ci introduce ora al contenuto della mostra.
GIORGIO VITTADINI:
Signor Presidente, nel ringraziarla ancora per la sua presenza, la domanda che mi faccio e che faccio per tutti è: perché una mostra del genere, in un momento di crisi in cui sembra che il tema sia altro, il tema siano le questioni finanziarie, i tagli, la condizione internazionale? Cosa può aiutarci? La risposta l’hanno trovata i duecento studenti universitari della Cattolica, della Statale, di altre università, coadiuvati da molti docenti, che hanno scoperto qualcosa che non conoscevano prima, cioè che la nostra storia unitaria ha molto da insegnarci, anche in questo momento. Il primo insegnamento impressionante è che non è la prima crisi per l’Italia, l’Italia ne ha passate di tutti i colori, ma la cosa impressionante è stata la capacità di reagire alle crisi, la capacità di reagire e di cambiare positivamente. Nella articolazione della mostra abbiamo visto innanzitutto come, negli anni difficili del post-unità, pian piano il movimento cattolico, il movimento operaio e realtà laiche abbiano contribuito alla costruzione del Paese, dal basso, non solo con realtà importantissime di ordine assistenziale, ma che pian piano in termini educativi, in termini produttivi sono nate casse rurali, banche popolari, casse di risparmio, istituti che mettevano insieme l’utile e le necessità del mercato con la solidarietà. Sono nate leghe, sono nati i primi sindacati, sono nati istituti di mutuo soccorso, è nata una realtà economica diffusissima, e questo pian piano ha portato a una partecipazione alla vita del Paese, superando il Non expedit. Abbiam visto per esempio come don Sturzo sia partito dalle municipalità, a Caltagirone abbia poi contagiato tanti, e allora si capisce come pian piano siano nate non solo queste realtà ma una collaborazione totale, nel periodo giolittiano, alla vita del Paese, con la nascita dei partiti popolari, il Partito Popolare e il Partito Socialista. Per cui nella seconda parte della mostra, che evidenzia un passaggio durissimo, quello dopo la Prima Guerra Mondiale, con le distruzioni, seicentomila morti, la febbre spagnola, la vittoria mutilata, abbiamo visto come questi partiti popolari, nonostante l’avvento della dittatura fascista, che prese il largo dalla violenza della guerra e rese la loro vita difficile con le leggi fascistissime, siano cresciuti a garanzia di un substrato popolare pluralista, che ha impedito la realizzazione del progetto fascista di creare l’uomo fascista, l’uomo razzista, l’uomo legato allo stato. Proprio in questo periodo nasce l’Università Cattolica, proprio in questo periodo la Quadragesimo anno sancisce la sussidiarietà, proprio in questo periodo molti dei nostri politici devono emigrare, ma danno vita, pensiamo a Gramsci e ad altri, a ciò che determinerà la nascita della democrazia. La mostra continua con il passaggio dopo la Seconda Guerra Mondiale: non sarebbe stata possibile la Resistenza senza questa permanenza di carattere popolare, non sarebbe stato possibile l’aiuto agli ebrei, che la mostra documenta in molte realtà di base. È per questo che la terza parte della mostra, che ha a che fare con la Costituzione, è comprensibile: in momenti di gravissima e fortissima contrapposizione ideologica nasce un compromesso virtuoso, una Costituzione non hobbesiana, non dall’alto, ma come compromesso virtuoso tra realtà socialiste, comuniste, cattoliche, liberali. Una Costituzione che ancora adesso, lo mostriamo nella nostra mostra, dà vita a principi che permettono una vita democratica. Fu una cosa strana, perché tutto sembrava dividere a livello internazionale: erano gli anni della Guerra Fredda, erano gli anni delle elezioni del ’48. Allora si capisce, non è incomprensibile come, dopo solo tredici anni dalla distruzione bellica, nasca il boom economico, perché anche in un momento in cui le divisioni erano molto più forti che nell’Italia di oggi, si afferma una convergenza al progresso, alla costruzione, alla utilizzazione delle alleanze come il piano Marshall, ma anche alla nascita di una piccola e media impresa diffusa, che permette all’Italia di risalire posizioni e posizioni, di portare il benessere. E’ un’alleanza interessante anche col mondo dell’impresa pubblica, pensiamo all’IRI, all’ENI, alla nascita della Autostrada del Sole, ad un mondo bancario che collabora. Il boom economico, che ci fa diventare una delle potenze industriali più importanti, è proprio ancora frutto di questa collaborazione tra realtà popolari. Cosa ci insegna allora questa storia? Nell’ultima parte della mostra mostriamo la crisi, il passaggio da allora ad adesso, da quegli anni ad adesso. Perché l’Italia ha avuto questa forza di cambiare quando era in crisi? Nella nostra ricostruzione ci sono due aspetti fondamentali: il primo riguarda questa idea di uomo convergente fra le diverse realtà popolari, un uomo dotato di desiderio, parafrasando Il senso religioso di don Giussani, un desiderio di verità, di giustizia, di bellezza, di costruzione non dipendente dalle circostanze esterne, ma grande. Un desiderio umano che non è solo dei poeti, dei letterati, ma anche di gente che ha fatto l’impresa, che ha fatto i sacrifici, che è andata emigrando; un desiderio che non si riduce, perché il nostro cuore è sempre più grande e quindi ha capacità di realismo, di usare tutte le condizioni, di non avere pregiudizi. L’Italia cambia. La nascita dell’ENI è interessantissima: doveva essere chiusa, e per l’intelligenza del fondatore, Enrico Mattei, che convince pian piano gli altri, diventiamo un Paese che si può permettere, senza avere materie prime, di essere uno dei grandi, una grande impresa produttrice. Questa apertura alla possibilità, sempre parafrasando don Giussani, è un modo di conoscere per avvenimento, senza pregiudizi, senza ridursi alla pragmatismo, ma senza neanche avere ideologie, capace di cambiare, un modo di conoscere, un modo di tenere il desiderio vivo, che evidentemente è stato possibile solo perché lo si è educato, lo si è educato a non ridursi, a non essere, come dire, fagocitato dal potere, a ripartire sempre. Perché il grande rischio che noi vediamo, invece, è proprio la riduzione di questo desiderio, il fatto che uno non creda più nel suo cuore. Recentemente don Julián Carrón, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, ha detto: “la ricostruzione dell’umano e della società avviene quando si incontra un io che facendo l’opera non riduca il bisogno, non riduca la risposta al bisogno. Nel modo con cui noi rispondiamo al bisogno, nel modo con cui noi generiamo un’opera, si vede qual è la percezione del Mistero”.
Le nostre realtà popolari ci permettono di non ridurre il desiderio e allora può capitare quello che suggerisce il titolo del Meeting, questa certezza, la certezza che è sintetizzata in quest’altra frase che don Giussani disse a un ragazzo durante il ’68 in Cattolica, che gli osservava: “vede che sta cambiando tutto, bisogna seguire questo flusso”; e lui: “Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo”. Questo guardare il nostro cuore, qualunque sia la posizione ideale che lo educhi, questo ripartire, questo avere fiducia, coraggio, certezza. Molti giornalisti ci chiedono: “ma come fate a parlare di certezza in un momento di crisi?” La certezza non nasce dalle circostanze, la certezza nasce da questo uomo che è più grande e allora è possibile convivere tra diversi, amare la diversità, amare il pluralismo, costruire, anche quando si è molto diversi. Questo Meeting ne è la documentazione, sia per chi è presente di italiano, sia per l’apertura internazionale, ci sono musulmani, ebrei, ci sono anglicani, ci sono asiatici, ci sono persone di tutti i pensieri. La certezza non divide, la certezza apre ed è questo l’auspicio con cui noi vogliamo continuare ad ascoltarla, vogliamo soprattutto collaborare al suo continuo appello all’unità del nostro Paese, ad una unità costruttiva che è fondamentale e che è nel connotato della nostra storia.
EMILIA GUARNIERI:
Ed è proprio questa storia passata e presente di sussidiarietà in azione, di cui il Professor Vittadini ci ha raccontato e di cui la mostra racconta, è proprio questa storia che ha creato il nesso con gli amici dell’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà, insieme ai quali abbiamo rivolto l’invito al Presidente a partecipare a questa nostra giornata inaugurale. Do quindi ora la parola ad Enrico Letta, dell’Intergruppo per la Sussidiarietà e Vicesegretario del Partito Democratico.
ENRICO LETTA:
Signor Presidente, questa è una giornata importante, perché tutti coloro che sono qui, e io voglio provare ad essere megafono di quello che pensano, sono qui perché accomunati da un’idea, da un appello, dall’idea che l’Italia ce la farà, che noi Italiani ce la faremo, che riusciremo a battere le difficoltà nelle quali il nostro Paese, la nostra Europa si sta trovando in questo periodo. L’Italia ce la farà se ognuno di noi farà la sua parte, l’Italia ce la farà, Signor Presidente, a partire dai valori di quel messaggio che lei il 17 marzo ha voluto consegnare al Paese. L’Italia ce la farà se seguirà la strada della coesione nazionale, quell’invito che il Presidente della Repubblica ha rivolto alle Camere, al Paese, a partire da un impegno, l’impegno a che quei valori si concretizzino giorno per giorno. La sussidiarietà è uno di questi valori, un valore così importante da aver voluto, da parte di molti parlamentari, intitolare a questo valore parte del nostro impegno quotidiano, contro tutto e contro tutti, in un tempo in cui fare cose insieme è diventata la cosa più difficile. Noi abbiamo testardamente continuato a cercare l’unità e oggi che questo suo appello alla coesione nazionale trova così tanto consenso, crediamo che questo impegno comune, che in Parlamento molti di noi hanno messo per andare avanti a partire da questo tema e dire che l’Italia ce la farà, a partire dalla sussidiarietà con l’aspirazione innanzitutto, sia molto importante. Una nuova repubblica vuol dire una repubblica basata sul riconoscimento reciproco tra le grandi forze politiche, sulla fine della guerra civile che in politica il nostro Paese ha attraversato in tutti questi anni. Riconoscimento reciproco, perché sappiamo che ognuno di noi è parte di un intero, questo intero è la nostra comunità, e solo insieme ce la faremo, non una parte contro l’altra. Quando questi anni abbiamo cercato di remare, ma una parte del Paese e della sua classe dirigente remava in una direzione e l’altra parte remava esattamente nella direzione opposta, la barca è stata ferma e non è un caso che siamo l’unico Paese al mondo che ha oggi lo stesso livello di reddito, di crescita che aveva nell’anno 2000. Sono stati anni in cui siamo stati fermi, per colpa di questo remare ognuno in una direzione diversa. L’autorevolezza, l’efficacia di una politica è quella che, attraverso comportamenti individuali esemplari, riesca a creare progetti in cui ci si unisca per e non ci si unisca contro, unirsi per, per uscire dalla crisi, per cercare di costruire insieme le nuova repubblica. C’è bisogno di una nuova generazione. Voglio riprendere quell’appello che nel 2008, a Cagliari, rivolse Papa Benedetto XVI, che oggi salutiamo da qui, a Madrid, in un’altra grande assemblea di giovani, l’appello che diceva: “C’è bisogno in Italia di una nuova generazione di politici cattolici”. E anche noi pensiamo e diciamo che c’è bisogno oggi in Italia di una nuova generazione, solo una nuova generazione farà uscire l’Italia da una crisi e creerà le condizioni per questa nuova repubblica. Una nuova repubblica che ha bisogno di una nuova Europa, una Europa che riprenda dalle origini la sua forza, le origini dell’Europa di De Gasperi, di Adenauer, le origini del mito dell’Europa. Quando si è firmato l’ultimo trattato, a Roma, c’è stata quella celebrazione così importante: si è preso come simbolo un vaso, un vaso greco, di Assteas, il ceramista di Paestum ed è il vaso del ratto di Europa, ratto di Europa che ci fa ricordare una cosa fondamentale, che Europa, questa principessa fenicia, veniva dal Libano, era un extra-comunitaria, come oggi potremmo dire. L’Europa nasce così, nasce globale per definizione, inclusiva e forte, ma l’Europa oggi ha bisogno di un rilancio, ha bisogno di passare definitivamente agli stati uniti d’Europa, ha bisogno di avere quella politica economica unica, quel presidente eletto dai cittadini europei tutti, ha bisogno di sentire quell’orgoglio che noi italiani abbiamo sentito quando nelle settimane scorse un grande italiano è diventato presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, momento di grande orgoglio nazionale, un momento che segna ancora una volta il ruolo fondamentale dell’Italia per la costruzione di questa nuova Europa.
E infine noi vogliamo battere la crisi con un nuovo spirito di ricostruzione nazionale, quella ricostruzione alla quale faceva riferimento Giorgio Vittadini prima, la ricostruzione del dopoguerra, il boom economico; battere la crisi con una nuova ricostruzione nazionale vuol dire ripartire dai giovani, furono i giovani di allora che fecero ripartire l’Italia, ripartire da quei valori di laboriosità, di sobrietà, di correttezza; l’Italia e gli italiani che pagano le tasse, l’Italia e gli italiani che seguono le regole, a partire da quel valore così bello e così forte rilanciato dall’enciclica Caritas in Veritate: la ricchezza si crea con il lavoro. Pensate quanto è rivoluzionaria questa frase e quanto è diversa rispetto a ciò che ci ha portato alla crisi. La ricchezza che crea la ricchezza e il lavoro che scompare, no, è il lavoro che crea ricchezza e questo dobbiamo ricordarcene quando faremo la riforma del fisco e la dovremo fare, perché dovremo fare una riforma del fisco che parta dalla centralità di questo valore. E’ il lavoro che crea ricchezza, e riprendo un’analisi secondo me molto interessante, che ha fatto uno studioso giovane della Cattolica, il professor Rosina, che per indicare il problema italiano ha fatto un grafico e ha messo insieme due dinamiche che qualunque studioso di statistica o di economia mai metterebbe insieme: il numero di figli per donna e il debito pubblico del Paese. Queste due dinamiche sono due dinamiche che a un certo punto, verso la fine degli anni Sessanta, hanno cominciato a prendere un trend che è stato il trend del disastro del nostro Paese. Se oggi ci troviamo in queste condizioni, è perché a un certo punto, all’improvviso, il tasso di natalità del nostro Paese si è dimezzato e in quello stesso periodo il debito pubblico del nostro Paese si è raddoppiato. Due scelte che hanno voluto dire un Paese che non guardava più al futuro, un Paese che cercava di vivere bene il presente, faceva debiti per il futuro e non faceva più figli. Quest’egoismo l’Italia se lo è portato dietro per tanti anni e oggi ne paghiamo tutti le conseguenze. Noi, Signor Presidente, siamo qui perché siamo convinti che l’Italia ce la farà, ce la farà se vorrà affrontare questi suoi problemi, se li vorrà affrontare con una nuova generazione, se li vorrà affrontare seguendo i suoi insegnamenti e la strada che lei ci ha tracciato. Solamente con la strada che lei ha tracciato, l’Italia ce la farà e noi siamo convinti, a partire da questa straordinaria giornata, che l’Italia ce la farà davvero.
EMILIA GUARNIERI:
Grazie. Interviene ora, anch’egli in rappresentanza dell’Intergruppo per la Sussidiarietà, Maurizio Lupi, Vicepresidente della Camera dei Deputati.
MAURIZIO LUPI:
Signor Presidente, grazie veramente di cuore per essere qui al Meeting di Rimini, per aver accettato l’invito del Meeting ma anche l’invito rivoltole dagli amici dell’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà. Ci sono tanti colleghi parlamentari che sono qui oggi al Meeting per ascoltarla e per salutarla. Abbiamo visitato con lei la mostra dei 150 anni di storia dell’Unità d’Italia e se c’è una cosa che mi ha colpito, l’ha già ricordato il Professor Vittadini, l’amico Giorgio e anche Enrico Letta, è quel filmato che abbiamo visto insieme seduti. Le immagini valgono più di cento parole o di cento pensieri, l’immagine di un’Italia che usciva dalla guerra sconfitta, di una produzione industriale ferma… Io mi sono segnato alcuni dati che vedrete tutti voi andando a visitare la mostra, meno quaranta per cento si era perso di potenziale energetico, dal ’38 al ’47 cinquanta volte i prezzi erano aumentati al consumo, un quarto della produzione industriale prebellica era quella del dopoguerra. Eppure da quella storia, da quelle immagini, proprio partendo da quella realtà, l’Italia è, come dice il filmato concludendo, diventata la settima potenza mondiale. Che cosa ci insegna, a noi innanzitutto che rappresentiamo le istituzioni, a tutti noi che abbiamo questa responsabilità di guidare il Paese, questa storia? Lei ce lo ha ricordato Signor Presidente, in maniera molto chiara e molto forte nel discorso che ha rivolto alla Camera dei Deputati e al Senato, il 17 Marzo. Mi permetto solamente e brevemente di citare un passaggio, altri passaggi sono stati riportati proprio nel percorso introduttivo della mostra: “La memoria degli eventi che condussero alla nascita dello Stato nazionale unitario e la riflessione sul lungo percorso successivamente compiuto, possono risultare preziose nella difficile fase che l’Italia sta attraversando, in un’epoca di profondo e incessante cambiamento della realtà mondiale. Possono risultare preziose per suscitare le risposte collettive di cui c’è più bisogno: orgoglio e fiducia; coscienza critica dei problemi rimasti irrisolti e delle nuove sfide da affrontare; senso della missione e dell’unità nazionale”.
Signor Presidente, lei firmando un decreto che ha visto la manovra correttiva il 13 agosto 2011, ha rivolto un ennesimo appello al Paese, alle istituzioni e al Parlamento, dicendo: “resta ferma la necessità di un confronto aperto in Parlamento e sul piano sociale, attento, con la responsabilità che l’attuale momento richiede”. Confronto, responsabilità, unità. Che cosa può rendere possibile tutto questo? E come, ed è il pensiero che volevo rappresentare, e come è possibile imparare dalla storia dei 150 anni dell’Unità d’Italia per dare una risposta seria, per far sì che questo appello, questa grande occasione non rimanga inevasa? La storia, secondo me, dei 150 anni dell’Unità d’Italia, ci ha insegnato che non basta e non è sufficiente una decisione politico-istituzionale, non basta mettersi a tavolino per inventarsi una nuova società, c’è bisogno di una mossa in più, c’è bisogno innanzitutto di uno scatto in più, dello scatto del riconoscimento, della responsabilità, di un’identità, dei valori, della libertà, della responsabilità, di ciò che ci unisce e che ci può rendere protagonisti come persone, come soggetti, come un intero Paese. Benedetto XVI, rispondendo al Suo messaggio e intervenendo anche all’ANCI, ha inviato un messaggio a tutto il Paese: Unità, pluralità, sussidiarietà e solidarietà. L’esperienza dell’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà è un piccolo segno. Un piccolo segno che però indica una strada, una strada da dove poter tutti noi iniziare, sapendo che poi come parlamentari e come istituzione, come forze politiche, saremo giudicati, non sulle intenzioni, ma sulla capacità di cambiare, dai risultati, dalle risposte concrete. Qual è il segno che in questi anni l’intergruppo ha rappresentato, un po’ nel solco del richiamo da Lei sempre posto? Che il dialogo e il lavoro comune è possibile, è possibile se lo si vuole e se si parte non dimenticando la propria identità, ma partendo dalla propria identità. Questo è il punto essenziale: l’altro, e vi garantisco che l’altro in politica troppo spesso viene visto come il male, il nemico da abbattere, l’altro è una diversità che ti arricchisce. Ad un’unica condizione: se lo scopo della nostra presenza lì nelle istituzioni è comune, e cioè servire, una parola troppo spesso dimenticata, il bene comune. Ognuno di noi è chiamato a declinare e a rappresentare questo.
Signor Presidente, concludo ringraziandola e dicendo che questo è il momento, se penso ai miei figli, se penso ai tanti giovani che incontro, è il momento in cui più delle parole, che servono, dei richiami, che servono… – Lei, una volta, in un passaggio, ha detto di avere solo la moral suasion come strumento -, serve la moral suasion, ma serve innanzitutto la mossa della libertà e della nostra responsabilità. Questo è il momento dove c’è bisogno di segni e di testimonianze. Questa settimana inizierà un momento di confronto importante per il Parlamento, dove cercheremo di capire come poter essere più equi e giusti e migliorare la manovra. Ma segni e testimonianze occorrono. Lei è un segno e una testimonianza. “E l’esistenza diventa un’immensa certezza”. Anche a me i giornalisti hanno chiesto: Come si fa ad essere certi in un momento come questo? Basta aprire gli occhi, alzare la testa, basta guardare a Madrid i due milioni di giovani, che sono una presenza, una testimonianza di certezza. Basta venire qui al Meeting e incontrare i tanti giovani che hanno collaborato e lavorato alla mostra e basta che ognuno di noi assuma la voglia, il desiderio e la responsabilità di giocare la propria libertà per servire il bene comune. Perché il nostro è un grande Paese.
EMILIA GUARNIERI:
Alla realizzazione della mostra dei 150 anni, signor Presidente, come lei sa, avendola appena visitata, hanno partecipato, insieme a un folto gruppo di docenti universitari, anche più di un centinaio di studenti di varie facoltà e atenei dell’Italia. Ora, due di questi studenti, anche in rappresentanza dei loro colleghi, intervengono per raccontare alcuni brevi tratti della loro esperienza di studio insieme, che, come sempre accade quando uno studio è serio, non è terminata, non ha chiuso tutte le questioni, ma anzi, essendo stato uno studio serio, si ripropone ora con nuove domande. Quindi intervengono i due studenti, che poi si presenteranno autonomamente, Enrico Figini ed Eleonora Bonizzato.
ENRICO FIGINI:
Buonasera signor Presidente, sono Enrico Figini, studente di Giurisprudenza dell’Università Statale di Milano. Ho collaborato alla realizzazione della mostra, in particolare alla sezione che tratta del periodo della Costituente. Il nostro obiettivo era verificare se anche durante questo delicato momento storico emergesse, nelle parole e nelle opzioni politiche dei Padri Costituenti, un’esperienza comune di popolo in grado di fondare una convivenza pacifica e far riemergere l’Italia dal massacro della Seconda guerra mondiale, oppure se si fosse trattato di uno scambio politico contingente. Con questa domanda si sono cimentati una cinquantina di studenti di giurisprudenza, storia ed economia, guidati da alcuni dottorandi, ricercatori e professori delle Facoltà di Giurisprudenza e di Storia di prestigiose Università italiane.
Ci siamo basati soprattutto sulla lettura dei verbali della Costituente, delle Commissioni e sulle Relazioni, aiutati anche da alcuni preziosi commenti di giuristi e storici dell’epoca. Più che uno studio teorico, è stata una grande occasione per incontrare uomini che in molti frangenti hanno tentato di partire dalla comune e drammatica esperienza dell’oppressione fascista e della lotta per la Liberazione per cercare di individuare delle solide basi comuni.
Un primo aspetto da rilevare è la concezione di persona e di realtà sociali portata avanti da alcuni Padri costituenti: un uomo che precede l’esistenza del potere statale, una società viva, ricca di opere che provenivano da culture differenti, indice di una direzione da intraprendere anche nella stesura della nuova Costituzione.
Un secondo aspetto che dobbiamo segnalare è la grande tensione e l’impegno verso il bene comune che hanno caratterizzato tutto il lavoro dei Padri costituenti, nelle sedute delle Commissioni, nelle dichiarazioni di voto in Plenaria e nella grande opera di mediazione politica che sicuramente è avvenuta al di fuori delle riunioni ufficiali.
Lei ritiene che un processo di questo tipo sarebbe utile per affrontare il difficile momento che sta attraversando il nostro Paese? Sarebbe possibile anche ora? E come?
ELEONORA BONIZZATO:
Buonasera signor Presidente, sono Eleonora Bonizzato e inizio il terzo anno di Lettere moderne all’Università Cattolica del sacro Cuore. All’inizio dell’anno accademico, con alcuni amici di diverse Facoltà, abbiamo deciso di lavorare alla realizzazione di questa mostra. Ci siamo divisi in alcuni gruppi di lavoro, ad ognuno dei quali sono state affidate alcune piste di ricerca.
Abbiamo iniziato questo lavoro mossi anzitutto dalla curiosità, dal desiderio di conoscere e approfondire un argomento così rilevante per la storia del nostro Paese.
E’ stato un lavoro anche molto gratificante: i professori avrebbero potuto limitarsi ad assegnarci frammenti di ricerca, per poi tirare conclusioni anche a prescindere dal nostro lavoro. Invece, hanno scommesso fin da subito sulle nostre continue domande, si sono fatti interrogare dalle nostre perplessità e dalle nostre scoperte.
Il primo guadagno che abbiamo ricavato dal lavoro di questi mesi è sicuramente l’acquisizione di un nuovo metodo di studio: abbiamo scoperto che una ricerca è realmente valida solo se non si accontenta mai del «già saputo», ma, mano a mano che si impatta con nuove fonti e nuovi dati, è sempre disposta a verificare l’ipotesi di partenza. Quante volte durante l’anno è stato necessario correggere il tiro!
Così, ci siamo abituati a tener conto delle sfumature, a non appiattire le differenze e a non forzarle in schemi frettolosi e precostituiti, a valorizzare gli aspetti positivi che abbiamo incontrato nei 150 anni della storia unitaria.
Mi sono accorta che porsi di fronte alla storia con questa disponibilità non solo fa capire di più il passato, ma diventa una reale possibilità di essere più coscienti rispetto a ciò che avviene oggi, aiuta ad essere più critici e meno permeabili da giudizi precostituiti.
Da tutto questo lavoro, abbiamo anche ricavato un significativo arricchimento del giudizio storico da cui siamo partiti: abbiamo verificato che Stato e società non solo non sono in alternativa, ma, come si vede benissimo nella storia del mondo cattolico, l’impegno sociale è stato la strada per rafforzare la coscienza di una nuova cittadinanza.
Le pongo questa domanda: in che modo, anche oggi, nel momento di crisi che sta attraversando il nostro Paese – non solo economica e politica, ma soprattutto di ideali – il riferimento al principio di sussidiarietà da lei evocato nella giornata del 17 marzo, può offrire una via d’uscita?
EMILIA GUARNIERI:
Prende ora la parola il Presidente della Repubblica.
GIORGIO NAPOLITANO:
Professoressa Guarnieri, presidente Vittadini, onorevoli Parlamentari, Autorità, cari amici, cari giovani, colgo in questo incontro, nella sua continuità con l’ispirazione originaria e la peculiare tradizione del Meeting di Rimini, l’occasione per ridare respiro storico e ideale al dibattito nazionale. Perché è un fatto che ormai da settimane, da quando l’Italia e il suo debito pubblico sono stati investiti da una dura crisi di fiducia e da pesanti scosse e rischi sui mercati finanziari, siamo immersi in un angoscioso presente, nell’ansia del giorno dopo, in un’obbligata e concitata ricerca di risposte urgenti. A simili condizionamenti, e al dovere di decisioni immediate, non si può naturalmente sfuggire. Ma non troveremo vie d’uscita soddisfacenti e durevoli senza rivolgere la mente al passato e lo sguardo al futuro. Ringrazio perciò voi che ci sollecitate a farlo.
D’altronde, anche nel celebrare il Centocinquantenario dell’Unità, abbiamo teso a tracciare un filo che congiungesse il passato storico, complesso e ricco di insegnamenti, il problematico presente e il possibile futuro dell’Italia. Ci siamo provati a tessere quel filo muovendo da quale punto di partenza? Dal sentimento che si doveva e poteva suscitare innanzitutto un moto di riappropriazione diffusa – da parte delle istituzioni e dei cittadini – delle vicende e del significato del processo unitario. Si doveva recuperare quel che da decenni si era venuto smarrendo – negli itinerari dell’educazione, della comunicazione, della discussione pubblica, della partecipazione politica – di memoria storica, di consapevolezza individuale e collettiva del nostro divenire come nazione, del nostro nascere come Stato unitario. E a dispetto di tanti scetticismi e sordità, abbiamo potuto, nel giro di un anno, vedere come ci fosse da far leva su uno straordinario patrimonio di sensibilità, interesse culturale e morale, disponibilità a esprimersi e impegnarsi, soprattutto tra i giovani. Abbiamo visto come fosse possibile suscitare quel “moto di riappropriazione” di cui parlavo: e non solo dall’alto, ma dal basso, attraverso il fiorire, nelle scuole, nelle comunità locali, nelle associazioni, di una miriade di iniziative per il Centocinquantenario. Lo sforzo è dunque riuscito, e rendo merito a tutti coloro che ci hanno creduto e vi hanno contribuito.
Ma “l’esame di coscienza collettivo” che avevamo auspicato in occasione di una così significativa ricorrenza, non poteva rimanere limitato al travaglio vissuto per conseguire l’unificazione, e alle modalità che caratterizzarono il configurarsi del nostro Stato nazionale. Esso doveva abbracciare – e ha in effetti abbracciato – il lungo percorso successivo, dal 1861 al 2011: in quale chiave farlo, e per trarne quali impulsi, lo abbiamo detto, il 17 marzo scorso, con le parole che l’on. Lupi ha voluto ricordare.
Si, con le celebrazioni del Centocinquantenario ci si è impegnati a trarre, senza ricorrere ad alcuna forzatura o enfasi retorica, ragioni di orgoglio e di fiducia da un’esperienza di storico avanzamento e progresso della società italiana, anche se tra tanti alti e bassi, tragiche deviazioni pagate a carissimo prezzo, e dure, faticose riprese. Ma perché abbiamo insistito tanto sulle prove che l’Italia unita ha superato, sulla capacità che ha dimostrato di non perdersi, di non declinare, né dopo l’emorragia e le conseguenze traumatiche di una guerra pure vinta, né dopo la vergogna di una guerra d’aggressione e l’umiliazione di una sconfitta, e quindi di fronte all’eredità del fascismo e alla sfida del ricostruire il Paese nella democrazia? Perché abbiamo sottolineato come l’Italia abbia poi saputo attraversare le tensioni della guerra fredda restando salda nelle sue fondamenta unitarie e democratiche e infine reggere con successo ad attacchi mortali allo Stato e alla convivenza civile come quello del terrorismo?
Ebbene, abbiamo insistito tanto, e con pieno fondamento, su quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato, e sulle grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo, perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto.
Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro l’Italia, con i suoi punti di forza e con le sue debolezze, con il suo carico di problemi antichi e recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine strutturale, sociale e civile. Nel messaggio di fine anno 2008, in presenza di una crisi finanziaria che dagli Stati Uniti si propagava all’Europa e minacciava l’intera economia mondiale, dissi – riecheggiando le famose parole del Presidente Roosevelt, appena eletto nel 1932 – “l’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”. Ma dinanzi a fatti così inquietanti, dinanzi a crisi gravi, bisogna parlare – e voglio ripeterlo oggi qui, rivolgendomi ai giovani – il linguaggio della verità: perché esso “non induce al pessimismo, ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza”.
Abbiamo, noi qui, in Italia, parlato in questi tre anni il linguaggio della verità? Lo abbiamo fatto abbastanza, tutti noi che abbiamo responsabilità nelle istituzioni, nella società, nelle famiglie, nei rapporti con le giovani generazioni? Stiamo attenti, dare fiducia non significa alimentare illusioni; non si da fiducia e non si suscitano le reazioni necessarie, minimizzando o sdrammatizzando i nodi critici della realtà, ma guardandovi in faccia con intelligenza e con coraggio. Il coraggio della speranza, della volontà e dell’impegno. Dell’impegno operoso e sapiente, fatto di spirito di sacrificio e di massimo slancio creativo e innovativo.
Impegno che non può venire o essere promosso solo dallo Stato, ma che sia espresso dalle persone, dalle comunità locali, dai corpi intermedi, secondo quella concezione e logica di sussidiarietà, che come ha sottolineato il Presidente Vittadini e come documenta la Mostra presentata a questo Meeting, ha fatto, di una straordinaria diffusione di attività imprenditoriali e sociali e di risposte ai bisogni comuni costruite dal basso, un motore decisivo per la ricostruzione e il cambiamento del nostro Paese.
Si può ben invocare oggi una simile mobilitazione, egualmente differenziata e condivisa, se si rende chiaro quale sia la posta in giuoco per l’Italia: in sostanza, ridare vigore e continuità allo sviluppo economico, sociale e civile, far ripartire la crescita in condizioni di stabilità finanziaria, non rischiando di perdere via via terreno in seno all’Europa e nella competizione globale, di vedere frustrate energie e potenzialità ben presenti e visibili nel Paese, di lasciare insoddisfatte esigenze e aspettative popolari e giovanili e di lasciar aggravare contraddizioni, squilibri, tensioni di fondo.
Le difficoltà sono serie, complesse, per molti aspetti non sono recenti, vengono dall’interno della nostra storia unitaria e anche, più specificamente, repubblicana. Ad esse ci riporta la crisi che stiamo vivendo in questa fase, nella quale si intrecciano questioni che a noi spettava affrontare da tempo e questioni legate a profondi mutamenti e sconvolgimenti del quadro mondiale. Ma se a tutto ciò dobbiamo guardare, anche nel momento in cui ci apprestiamo a discutere in Parlamento nuove misure d’urgenza, bisogna allora finalmente liberarsi da approcci angusti e strumentali.
Possibile che si sia esitato a riconoscere la criticità della nostra situazione e la gravità effettiva delle questioni, perché le forze di maggioranza e di governo sono state dominate dalla preoccupazione di sostenere la validità del proprio operato, anche attraverso semplificazioni propagandistiche e comparazioni consolatorie su scala europea? Possibile che da parte delle forze di opposizione, ogni criticità della condizione attuale del Paese sia stata ricondotta a omissioni e colpe del Governo, della sua guida e della coalizione su cui si regge? Lungo questa strada non si poteva andare e non si è andati molto lontano. Occorre più oggettività nelle analisi, più misura nei giudizi, più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche e le opinioni altrui. Anche nell’importante esperienza recente delle parti sociali, giunte ad esprimere una voce comune su temi scottanti, ci sono limiti da superare nel senso di proiettarsi pienamente oltre approcci legati a pur legittimi interessi settoriali. Bisogna portarsi tutti all’altezza dei problemi da sciogliere e delle scelte da operare.
Scelte non di breve termine e corto respiro, ma di medio e lungo periodo. E’ da vent’anni che è, sempre di più, rallentata la crescita della nostra economia; è da vent’anni che si è invertita la tendenza al miglioramento di alcuni fondamentali indicatori sociali; è da vent’anni che al di là di temporanee riduzioni del rapporto tra deficit e prodotto lordo, non siamo riusciti ad avviare un deciso abbattimento del nostro debito pubblico. La crescita è rallentata fino a ristagnare, la competitività della nostra economia, in un mondo globalizzato e radicalmente trasformato nei suoi equilibri, ha particolarmente sofferto del calo o ristagno della produttività.
La recente pubblicazione di una lunga accurata ricerca sull’evoluzione del benessere degli italiani dall’Unità a oggi, ci consente di apprezzare pienamente il consuntivo – superiore a ogni immaginabile previsione iniziale – del prodigioso balzo in avanti compiuto dall’economia e dalla società nazionale dopo l’Unità e in special modo grazie all’accelerazione prodottasi nel trentennio seguito alla seconda guerra mondiale. Ma se i dati reali smentiscono i detrattori dell’unificazione, è innegabile che il divario tra Nord e Sud è rimasto una tara profonda, non è mai apparso avviato a un effettivo superamento; e venendo a tempi più recenti è un fatto che da due decenni è in aumento la disuguaglianza nella distribuzione del reddito dopo una marcia secolare in senso opposto, e lo stesso può dirsi per il tasso di povertà.
Si impone perciò un’autentica svolta: per rilanciare una crescita di tutto il Paese – Nord e Sud insieme; una crescita meno diseguale, che garantisca una più giusta distribuzione del reddito; una crescita ispirata a una nuova visione e misurazione del progresso, cui si sta lavorando ormai da anni, su cui si sta riflettendo in qualificate sedi internazionali. Al di là del PIL, come misura della produzione, e senza pretendere di sostituirlo con una problematica “misura della felicità”, in quelle sedi si è richiamata l’attenzione su altri fattori: “è certamente vero che, nel determinare il benessere delle persone, gli aspetti quantitativi (a cominciare dal reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme a essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana”. E’ a tutto ciò che bisogna pensare quando ci si chiede se le giovani generazioni, quelle già presenti sulla scena della vita e quelle future, potranno – in Italia e in Europa, in un mondo così trasformato – aspirare a progredire rispetto alle generazioni dei padri come è accaduto nel passato. La risposta è che esse possono aspirare e devono tendere a progredire nella loro complessiva condizione umana. Ecco qualcosa per cui avrebbe senso che si riaccendesse il motore del “desiderio”.
Sia chiaro, la situazione attuale di carenza di possibilità di lavoro, di disoccupazione e di esclusione per quote così larghe della popolazione giovanile, impone che si parta dal concreto di politiche per il rilancio della crescita produttiva, di più forti investimenti e di più efficaci orientamenti per la formazione e la ricerca, di più valide misure per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Ma si deve puntare a una visione più complessiva e avanzata degli orizzonti di lungo termine: e chi, se non voi, può farlo?
Quell’autentica svolta che oggi s’impone passa, naturalmente, attraverso il sentiero stretto di un recupero di affidabilità dell’Italia, in primo luogo del suo debito pubblico. E qui non si tratta di obbedire al ricatto dei mercati finanziari, o alle invadenze e alle improprie pretese delle autorità europee, come dicono alcuni, forse troppi. Si tratta di fare i conti con noi stessi, finalmente e in modo sistematico e risolutivo; ho detto e ripeto che lasciare quell’abnorme fardello del debito pubblico sulle spalle delle generazioni più giovani e di quelle future significherebbe macchiarci di una vera e propria colpa storica e morale. Faccia dunque ora il Parlamento le scelte migliori, attraverso un confronto davvero aperto e serio, e le faccia con la massima equità come condizione di accettabilità e realizzabilità.
Anche al di là della manovra oggi in discussione, e guardando alla riforma fiscale che si annuncia, occorre un impegno categorico; basta con assuefazioni e debolezze nella lotta a quell’evasione di cui l’Italia ha ancora il triste primato, nonostante apprezzabili ma troppo graduali e parziali risultati. E’ una stortura, dal punto di vista economico, legale e morale, divenuta intollerabile, da colpire senza esitare a ricorrere ad alcuno dei mezzi di accertamento e di intervento possibili.
L’Italia è chiamata a recuperare affidabilità non solo sul piano dei suoi conti pubblici, sul piano della cultura della stabilità finanziaria, ma anche e nello stesso tempo sul piano della sua capacità di tornare a crescere più intensamente. E questo è anche il contributo che come grande Paese europeo siamo chiamati a dare dinanzi al rallentamento dello sviluppo mondiale, al rischio o al panico – fosse pure solo panico – di una possibile onda recessiva.
In questo quadro, è importante che l’Italia riesca ad avere più voce, in termini propositivi e assertivi, nel concerto europeo. Che da un lato appare troppo condizionato da iniziative unilaterali, di singoli governi, fuori dalle sedi collegiali e dal metodo comunitario; dall’altro troppo esitante sulla via di un’integrazione responsabile e solidale, lungo la quale concorrere anche alla ridefinizione di una governance globale, le cui regole valgano a temperare le reazioni dei mercati finanziari.
Una svolta capace di rilanciare la crescita e il ruolo dell’Italia implica riforme: dopo l’avvio, in senso federalista, della concreta attuazione del Titolo V della Carta, riforme del quadro istituzionale e dei processi decisionali, delle pubbliche amministrazioni, di assetti e di rapporti economici finora non liberalizzati, di assetti inadeguati anche del mercato del lavoro. Ma non starò certo a riproporre un elenco già noto: mi piace solo notare come in queste settimane, sospinto da alcuni impulsi generosi, si stia prospettando in una luce più positiva il tema della riforma – in funzione solo dell’interesse nazionale – e del concreto funzionamento della giustizia. Anche perché alla visione del diritto e della giustizia sancita in Costituzione ripugna la condizione attuale delle carceri e dei detenuti.
Comunque, più che ripetere un elenco di impegni o di obbiettivi, vorrei rispondere alla domanda se sia possibile realizzare, com’è indubbiamente necessario, riforme di quella natura su basi largamente condivise. E’, in sostanza, parte della stessa domanda postami in termini più generali da Eleonora Bonizzato e da Enrico Figini. Ai quali dico innanzitutto che ho molto apprezzato il metodo seminariale col quale, insieme con molti altri studenti, hanno esplorato i temi della Mostra dedicata al Centocinquantenario e in modo particolare l’esperienza della straordinaria stagione dell’Assemblea costituente, non abbastanza studiata nelle nostre scuole e Università.
E’ possibile, mi si chiede, che si riproduca quella grande tensione, quello stesso impegno verso il bene comune? La mia risposta è che può la forza delle cose, può la drammaticità delle sfide del nostro tempo, rappresentare la molla che spinga verso un grande sforzo collettivo come quello da cui scaturì la ricostruzione democratica, politica, morale e materiale del nostro Paese dopo la Liberazione dal nazifascismo. I contesti storici sono, certo, completamente diversi; la storia, nel male e nel bene, non si ripete. Ma la storia che abbiamo vissuto in 150 anni di Unità, nei suoi momenti migliori, come quando sapemmo rialzarci da tremende cadute e poi evitare fatali vicoli ciechi, racchiude il DNA della nazione. E quello non si è disperso, e non può disperdersi. I valori che voi testimoniate ce lo dicono; ce lo dicono le tante espressioni, che io accolgo in Quirinale, dell’Italia dell’impegno civile e della solidarietà, dell’associazionismo laico e cattolico, di molteplici forme di cooperazione disinteressata e generosa. E, perché si creino le condizioni di un rinnovato slancio che attraversi la società in uno spirito di operosa sussidiarietà, contiamo anche sulle risorse che scaturiscono dalla costante, fruttuosa ricerca di “giuste forme di collaborazione” – secondo le parole di Benedetto XVI – “fra la comunità civile e quella religiosa”.
Ma potrà anche l’apporto insostituibile della politica e dello Stato manifestarsi in modo da rendere possibile il superamento delle criticità e delle sfide che oggi stringono l’Italia? Ci sono momenti in cui – diciamolo pure – si può disperarne. Ma non credo a una impermeabilità della politica che possa durare ancora a lungo, sotto l’incalzare degli eventi, delle sollecitazioni che crescono all’interno e vengono dall’esterno del Paese. Il prezzo che si paga per il prevalere – nella sfera della politica – di calcoli di parte e di logiche di scontro sta diventando insostenibile. Una cosa è credere nella democrazia dell’alternanza; altra cosa è lasciarla degenerare in modo sterile e dirompente dal punto di vista del comune interesse nazionale. Ci fa riflettere anche quel che accade nel grande Paese che è stato, con le sue peculiarità istituzionali, il luogo storico di una democrazia dell’alternanza capace di far fronte alle responsabilità anche di un determinante ruolo mondiale. Negli Stati Uniti vediamo appunto come, nell’attuale critico momento, il radicalizzarsi dello spirito partigiano e della contrapposizione tra schieramenti orientati storicamente a competere ma anche a convergere, stia provocando danni assai gravi per l’America e per il mondo, in una congiuntura difficile pure per quella causa della pace, dei diritti umani, dell’amicizia tra i popoli – si pensi alla tragedia del Corno d’Africa – che è iscritta nella stessa ragion d’essere del vostro Meeting.
Qui in Italia, va perciò valorizzato ogni sforzo di disgelo e di dialogo, come quello espressosi nella nascita e nelle iniziative, cari amici Lupi e Letta, dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Ma bisogna andare molto oltre, e rapidamente. Spetta anche a voi, giovani, operare, premere in questo senso: e predisporvi a fare la vostra parte impegnandovi nell’attività politica. C’è bisogno di nuove leve e di nuovi apporti. Non fatevi condizionare da quel che si è sedimentato in meno di due decenni: chiusure, arroccamenti, faziosità, obbiettivi di potere, e anche personalismi dilaganti in seno ad ogni parte. Portate nell’impegno politico le vostre motivazioni spirituali, morali, sociali, il vostro senso del bene comune, il vostro attaccamento ai principi e valori della Costituzione e alle istituzioni repubblicane: apritevi così all’incontro con interlocutori rappresentativi di altre, diverse radici culturali. Portate, nel tempo dell’incertezza, il vostro anelito di certezza. E’ per tutto questo che rappresentate, come ha detto nel modo più semplice la professoressa Guarnieri, “una risorsa umana per il nostro Paese”. Ebbene, fatela valere ancora di più: è il mio augurio e il mio incitamento.
EMILIA GUARNIERI:
Caro signor Presidente, solo per commentare questo applauso, che credo sia veramente un immenso ringraziamento per quello che Lei ci ha detto, per questa giornata, credo di poterLe dire, a nome di tutti, che ci siamo ancora con più decisione a servire il bene di questo nostro Paese e di tutti gli uomini del mondo. Grazie ancora
(Trascrizione non rivista dai relatori)