IN UN SOL CORPO. SAN BENEDETTO, UNA TRADIZIONE VIVENTE
Che la presentazione di una mostra si svolga descrivendo i suoi contenuti tecnici è un fatto del tutto normale; ma se invece nel parlarne si racconta una vita, allora il fatto diventa eccezionale. Questo è quanto accaduto alla presentazione cui hanno partecipato Marco Bona Castellotti, Docente di Storia dell’Arte Moderna all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, Sergio Massalongo e Claudio Del Ponte, rispettivamente Priore e Maestro dei Novizi del Monastero SS. Pietro e Paolo (loc. Cascinazza) e Giancarlo Cesana del Consiglio Nazionale di Comunione e Liberazione.
La mostra, ha esordito Bona Castelletti, è il frutto dell’intenso lavoro svolto dai Monaci della Cascinazza di Buccinasco, in provincia di Milano. È un lavoro comunionale che a qualsiasi visitatore fa comprendere che in realtà non si tratta di un puro esercizio intellettuale, ma il racconto di un’esperienza vivente. Il percorso della mostra del resto, divisa in quattro sezioni, ha proseguito Bona Castellotti è la testimonianza che l’opera iniziata da San Benedetto ci raggiunge ora attraverso la testimonianza di questi monaci, che rispondono a Cristo per tutti. Cosa vuol dire questa cosa, ha chiesto Bona Castellotti, passando la parola a Massalongo? Ogni vocazione – ha risposto quest’ultimo – è data per l’edificazione del corpo di Cristo, e la vita monastica è un segno evidente del fatto di essere suoi. La mia vocazione è nata quando avevo quindici anni e mi chiedevo se sarei mai riuscito a compiere la mia vita. Capivo che il problema fondamentale non era quello di sposarsi o meno, ma quello di non sbagliare la vita nel suo scopo. Mi dedicai con impegno a tantissime attività, da quella sportiva all’impegno nella CGIL: quanto più andavo al fondo, tanto più scoprivo tutto il mio limite. Nel 1972 per sfuggire ai festeggiamenti del carnevale, mi rifugiai nel duomo, dove sentivo una grande pace, e focalizzai l’attenzione sul Crocifisso: se senza di Te non posso far nulla, chiesi, dimmi almeno dove sei? La cosa incredibile è che due ore dopo incontrai una persona del movimento di Comunione e Liberazione: segno che Dio risponde fedelmente e con tempestività. Quando fui invitato ad andare nel luogo in cui si riunivano, ebbi per la prima volta l’impressione di essere veramente atteso. Mi accorsi, nel modo con cui vivevano, che condividevano tutto, dallo studio al lavoro, e fu allora che concepii l’idea del monastero. Il monastero è per me il luogo della misericordia, dove vivendo il particolare ti si spalanca il tutto. Un luogo dove il giudizio segna la strada, che deve essere amata. Io avevo un giudizio, ma non amavo nessuno: così si può vivere anche nel monastero, ma se non si ama lo scopo, che è la gloria di Cristo, tutto si distrugge. Questo vale anche per il matrimonio e per chi si impegna per la verginità. Si può dire infatti che quello che vale per il monastero è vero anche per la verginità: il possesso con un distacco dentro. Non è un limite neanche la “stabilitas loci”, perché il monastero è il punto massimo della mia definizione, grazie anche al volto delle persone che vivono al mio fianco.
Del Ponte invece ha descritto le quattro sezioni cui si divide la mostra, che pur diverse nelle loro articolazioni, tendono tutte ad evidenziare un unico contenuto: che a partire dalla risposta al Salmo 33 (Sì, lo voglio) il Signore ti dice già “Eccomi”, segno della vita “in un sol corpo”, cioè la comunità come comunione. È proprio quell’“in un sol corpo” il cuore della questione, perché Dio, diventando uno di noi, si è fatto compagnia all’uomo, e questa coscienza fa concepire l’io come un noi, attraverso la familiarità con Cristo presente e un contesto adeguato che faccia uscire alla luce questo giudizio. La cultura moderna ha cancellato questa coscienza: il monastero resta il punto di resistenza dove l’io viene recuperato.
Concludendo l’incontro, Giancarlo Cesana ha affermato come questi monaci siano per tutti un esempio, anche se nel mondo moderno, spaventato dalla vita perché c’è la morte, chi va nella direzione opposta sembra un fuggiasco. Noi viviamo in un mondo costruito da loro – ha proseguito – perché loro hanno ritrovato l’uomo. Il monastero è una promessa compiuta, perché è come vivere una strada come una casa ed una casa come una strada: qui ci sono uomini che vivono sulla soglia dell’eternità. Il monastero è il paradigma di come stiamo sul lavoro, dove non si ama l’altro se non si ama Dio. Occorre amare l’altro come vogliamo essere amati noi, cioè per il nostro desiderio. La verginità, come il matrimonio, resterebbe un’idea senza questi monaci, perché loro incarnano questo desiderio, in modo tale da vivere sulla soglia dell’eternità.
G.F.I.
Rimini, 26 agosto 2003