Uniti davanti al Mistero. Cosa Nagai può comunicare all’uomo di oggi

Redazione Web

Rimini, 21 agosto – «Midori è una figura che mi ha letteralmente sconvolto, una sorta di Violaine giapponese: dopo secoli senza sacerdoti ancora bastava il battesimo a generare una persona così certa nel Cristianesimo. Nagai  è un uomo con una ragione così aperta da farsela ribaltare da una cosa che succede e farsi risvegliare dal materialismo del suo tempo fino a volerla riverificare. Questo  spiega perché neanche l’evento più tragico come la bomba atomica ha potuto spegnere in lui la positività e la speranza che ha permesso al suo popolo di ricostruire. È evidente nella vicenda di entrambi una presenza amica con cui camminare. La mostra ci chiede di farci provocare dal Mistero». Così Paola Marenco di Associazione Medicina e Persona ha introdotto la mostra allestita nel Padiglione C3 sul radiologo giapponese e accolto gli ascoltatori presenti, talmente tanti che l’Arena Meeting Salute C3 non riesce a contenerli.

Paul Glynn, autore del libro Pace su Nagasaki, ha raccontato cosa lo ha portato alla stesura della sua opera: «Ho incontrato Nagai nel 1955, ma solo vent’anni  dopo ho avuto l’idea. Il 1968 ha presentato un uomo senza Dio, e io volevo presentare un uomo intero. Da lui ho imparato l’importanza della riconciliazione. In lui la tradizione del suo popolo e la fede cristiana non erano in competizione, ma si arricchivano a vicenda». Nagai può insegnare anche oggi: «L’Occidente, l’uomo moderno, dà troppa importanza alla testa. La testa può essere un buon posto per iniziare una preghiera, ma non per finirla, serve il cuore».

Anche Wakako Saito, docente di Lingua e Cultura Italiana, Religione e Dignità dell’uomo all’Università Aichigakuin di Anagoya, Giappone, evidenzia la stessa necessità, dopo aver illustrato alcuni aspetti della tradizione e religione buddista giapponese: «Dopo la guerra abbiamo perso il valore del senso religioso e dimenticato la nostra identità, cioè abbiamo perso la sensibilità sull’uomo, facendo del fattore economico il centro di tutti gli interessi. Credo che i giovani di tutto il mondo abbiano lo stesso problema e che l’educazione sia la chiave. I giovani hanno sete del Mistero, ma non lo sanno». La docente è stata segnata dall’incontro con don Giussani: «Avendo avuto la grazia di incontrarlo sento oggi una grande responsabilità: è importante proporre questa amicizia ai giovani religiosi e non. La mostra e l’incontro di oggi sono grandi opportunità anche per noi giapponesi. Costituiamo un’unica unità con tutto il Cosmo. Il confronto con voi cattolici mi aiuta a capire ancor di più la mia identità buddista».

Il colloquio religioso e culturale iniziato ai tempi di Francesco Saverio continua ad arricchire entrambi gli interlocutori in gioco, come ha testimoniato Luciano Mazzocchi, missionario saveriano in Giappone, promotore del dialogo Vangelo e Zen, cappellano per la comunità giapponese di Milano: «La fede non è l’appartenenza a una religione, ma essere divini in Dio, che è oltre il limite che ci poniamo, il limite delle cose perfette. Noi occidentali trasciniamo nella fede ancora i nostri ragionamenti, i nostri interessi, crediamo ancora per raggiungere un traguardo, che chiamiamo Paradiso, ma è ancora una nostra idea. Io in quel Paradiso, un Paradiso che so, non voglio entrare; voglio buttarmi nell’Infinito, dove nessuno è dimenticato. La fede è nuova, la fede è creativa, non si poggia sulla ragione. Per questo ha molti punti di contatto con la meditazione zen».

Ma come è stato possibile l’arrivo e un tale radicamento della religione cristiana in una terra con una tradizione così particolare e forte  grazie a dei missionari che a malapena conoscevano la lingua ed erano così diversi dalla popolazione? «I primi missionari», continua Mazzocchi, «hanno comunicato ai giapponesi non con le parole che erano già di per sé incomprensibili, ma col silenzio, con l’incapacità di dire ai giapponesi la loro fede con la parola. E i giapponesi l’hanno raccolta in quella fatica silenziosa, che si manifestava quando capivano che i missionari non erano riusciti a dire quello che intendevano davvero dire. Ma in quella fatica e in quel rapporto familiare, attraverso quel silenzio hanno capito ciò che si capisce solo col silenzio. Ma non un silenzio comune, un silenzio perché si è detto tutto quello che si può dire. L’uomo arriva al limite delle cose perfette e si accorge che queste cose non lo esaudiscono, ma lo dischiudono a una dimensione in cui si entra non ragionando, ma tacendo».

(C.R.)

 

 

Responsabile Comunicazione Eugenio Andreatta tel. 329 9540695 eugenio.andreatta@meetingrimini.org

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