Rimini, 20 agosto 2024 – Serpenti, alligatori, cani, boschi, auto demolite. «Sono là fuori da solo, in uno stato di sogno. Sto cercando di catturare la vista e non so dove fermarmi». Quello di Curran Hatleberg, nativo del Maryland, tra i più apprezzati fotografi americani contemporanei, è un rosario di oggetti, prospettive e situazioni che si mescolano spesso senza soluzione di continuità, la registrazione di un mondo che viene «dimenticato senza mai essere ricordato del tutto».
È possibile ammirare le fotografie tratte dal volume “River’s Dream”, firmato dall’artista statunitense e finito tra i finalisti degli Paris Photo–Aperture PhotoBook Awards, il più importante premio delle pubblicazioni di fotografia, nella mostra a cura di Luca Fiore allestita per il Meeting (Piazza Regione Marche C5).
Hatleberg è inoltre stato protagonista con Fiore e Paul Schiek, fondatore TBW Books in collegamento video, in Sala Gruppo FS C2 dell’incontro con il pubblico dal titolo “Un’immersione profonda. Creare insieme un’opera d’arte”.
Il dibattito ha offerto una riflessione approfondita sul processo creativo, evidenziando come la collaborazione sia essenziale per la realizzazione di opere d’arte significative.
Fiore ha aperto l’incontro con un ringraziamento al Meeting per aver scommesso ancora una volta sulla fotografia, un medium che raramente trova spazio fuori dai contesti specializzati.
Un’opera, questa di Hatleberg, frutto di un intero decennio di peregrinazioni nel sud degli Stati Uniti, tra Florida, Texas, Louisiana e Mississippi, e concepito come un capitolo di un unico progetto sull’America contemporanea: il tentativo di tastare il polso del paese in questi anni di turbolenta transizione.
Scatti più simili a una sinfonia che a un racconto, sottolinea il curatore, in grado di dire tanto con poco. Il frutto di un lavoro incentrato sulla domanda “Cosa ci unisce?”, mostrando appieno quale sia la capacità di mostrare, e con grande capacità espressiva, come la fotografia possa aprirsi a un dialogo tra chi le osserva e la realtà che ne è rappresentata. Un’immersione appunto nella realtà che vive del rapporto con chi guarda le immagini, senza che queste si esauriscono in sé stesse, producendo, aggiunge Hatleberg, «una finzione più reale della realtà».
Attraverso le sue storie, Hatleberg ha illustrato come la fotografia, per lui, non sia solo un mezzo di documentazione, ma un processo di scoperta e di crescita personale, reso possibile grazie alla condivisione e alla collaborazione con le persone incontrate lungo il suo cammino.
«Desideravo andare in Florida in cerca dei sentieri meno battuti. Non mi interessava la Florida delle spiagge di Miami o di Disney World, quella che finisce sui giornali. Di quello Stato non conoscevo nulla e mi incuriosiva capire che cosa capita nei luoghi normali e nella vita quotidiana».
Gli scatti di un sogno americano di un’America sempre più divisa.
Da dove nasce quindi questa scelta della fotografia come “immersione profonda”? Dal desiderio di incontrare famiglie, comunità, condividere con loro il tempo, i pasti, e perfino le atmosfere più umide: «Quei rari momenti in cui il mondo è così incredibilmente generoso. Tutto sembra intriso di riverenza».
«Mi piace pensare a me stesso come a un collaboratore e non a un vagabondo. Quando lavoro, non vado semplicemente in giro senza meta, alla ricerca di foto. Cerco intenzionalmente il contatto: connettermi con le persone, unirmi alle comunità, trovare amici e alleati, trascorrere del tempo con le famiglie. Il lavoro riguarda un interesse e una vulnerabilità reciproci e mi sforzo di rendere i miei soggetti i coautori».
Cosa significa quindi voler comunicare con la fotografia?
«Fondamentalmente, il mio lavoro riguarda la famiglia e la comprensione del significato di famiglia e comunità. Tante volte nella mia vita, mi sono perso o alla deriva, alla ricerca di connessione e amore – come facciamo tutti – e non è affatto un cliché dire che le persone con cui trascorro del tempo e che fotografo sono e sono state famiglia per me. Penso che le fotografie siano tracce di qualcosa di più profondo e significativo. Sono sempre stupito di come una grande fotografia sia sempre e solo una debole approssimazione della vivida complessità della vita. I miei soggetti sono spesso curiosi di me quanto io lo sono di loro, e cerco sempre di trasformare il nostro tempo insieme in una strada a doppio senso. La mia speranza è che anche lo spettatore senta quella generosità e che le immagini sembrino più una conversazione che un interrogatorio».
«La fotografia», dice Hatleberg, «serve per scrivere il proprio tempo. Ma cerco di svolgere il mio lavoro al di fuori della politica, per trovare unificazione e un terreno comune. C’è una mancanza di connessione nel nostro mondo oggi, una mancanza di comprensione e un’assenza di empatia. Il mio lavoro fino ad oggi è stato una risposta a queste realtà contemporanee. Le fotografie di persone possono forzare un interesse e una fiducia in vite diverse dalla nostra. Quando funziona, possiamo sentirci riflessi in qualcun altro, creando empatia e cancellando l’indifferenza. Conoscere qualcuno, lavorare con lui, ascoltare la sua storia è iniziare a capire».
Un vero e proprio lavoro di costruzione assieme, realizzato da Hatleberg insieme all’editore Schiek, creatore di libri fotografici che sono veri e propri gioielli d’arte. Quest’ultimo ha raccontato con passione la propria esperienza editoriale, spiegando come il suo lavoro sia guidato dall’amore per l’arte e dalla volontà di creare libri che sopravvivano al tempo.
«I libri che realizziamo ci sopravviveranno, dureranno nel tempo e rimarranno documenti importanti non solo del nostro passaggio sulla terra, ma soprattutto del modo in cui abbiamo scelto di vivere», ha affermato Schiek, spiegando in maniera tecnicamente precisa come ogni libro pubblicato da TBW Books sia il risultato di un processo meticoloso, in cui nulla viene lasciato al caso, dalla scelta della carta al layout, fino al formato del libro stesso. Schiek ha inoltre descritto come il suo percorso personale, iniziato come fotografo, sia via via divenuto un’esperienza lo ha aiutato a sviluppare una sensibilità particolare nel lavorare con altri artisti, perché la realizzazione di un libro non è solo un processo tecnico, ma un percorso condiviso, in cui l’editore e l’artista lavorano fianco a fianco per dare forma a un’opera che rifletta al meglio la visione dell’artista.
«Il libro diventa un contenitore per dare corpo al romanzo della vita», ha detto Schiek, riferendosi a uno dei suoi progetti più recenti, “Family Car Trouble” di Gus Powell, che esplora il tema dell’evoluzione della famiglia attraverso la metafora dell’automobile. Ha inoltre sottolineato che la qualità delle immagini dipende dalla qualità delle relazioni umane che le sostengono, e che l’arte, in tutte le sue forme, è un processo di costruzione condivisa, in cui la collaborazione è essenziale per raggiungere risultati significativi: «Mi piace pensare alla realizzazione di un libro come un atto sacro», ha dichiarato Schiek, sottolineando l’importanza di creare un prodotto che non sia solo esteticamente bello, ma che riesca a trasmettere l’essenza dell’opera dell’artista.
Fiore ha chiuso l’incontro ringraziando i relatori e il pubblico, e invitando tutti a riflettere su come l’arte possa essere un mezzo per superare le divisioni e costruire relazioni basate sulla fiducia e sulla reciproca comprensione.