Rimini, 23 agosto 2015 – Padre Douglas Al-Bazi, parroco di Mar Eillia ad Erbil, in Iraq e padre Ibrahim Alsabagh, parroco della comunità di Aleppo in Siria hanno raccontato le loro storie di martirio non solo personale ma di interi popoli a causa della fede in Cristo. Ha introdotto l’incontro don Stefano Alberto, docente di teologia all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano. Proprio nella terra dove Dio, chiamando Abramo, ha destato la coscienza dell’uomo facendosi dare del Tu – ha spiegato – si è manifestata una violenza cieca del fanatismo. “Non ci interessa qui un’analisi storico-politica – ha aggiunto don Alberto – ma quello che dicono alla nostra vita di cristiani occidentali le terribili prove dei cristiani di Siria e Iraq. E, soprattutto, perché nessuno abiura? Parlo sia di chi è costretto a lasciare la propria terra sia di chi invece rimane”.
Douglas ha esordito ricordando che fino al 2003 in Iraq c’erano circa due milioni di cristiani, oggi ne sono rimasti poco più di 200mila. “Sono nato in questo paese – dice – e ho amici musulmani, noi cristiani siamo il sale di questo paese. Oltre tutto siamo la fascia più istruita della popolazione”. Padre Douglas nel 2007 è stato rapito e torturato per nove giorni, ma non si ritiene un eroe. “Mi hanno spaccato il naso, colpito col martello in bocca e su una spalla e un disco della colonna vertebrale. Per quattro giorni sono stato lasciato senz’acqua. Tenevano alto il volume della televisione per non farsi sentire e mi colpivano ogni sera. Poi mi lasciavano incatenato con un lucchetto. Di questa catena – ha proseguito nel suo racconto – avanzavano dieci anelli che ho usato come Rosario e il lucchetto per il Padre nostro. C’erano anche momenti di calma, dove quelle stesse persone che mi picchiavano la sera poi mi interrogavano su come comportarsi con la moglie ed io dicevo loro di essere carini con lei”.
Poi il sacerdote ha posto una domanda a tutta la platea: “Vi sembro spaventato? La stessa cosa si può dire della mia gente – ha proseguito – Gesù ci ha detto di portare la propria croce, ma l’importante non è questo ma seguire, sfidare, impegnarsi. Se ci distruggeranno in Medio Oriente, l’ultima parola sarà ‘Gesù ci ha salvato’. Quello che chiedo a voi è che siate la nostra voce. Pregate per la mia gente, aiutate e salvate la mia gente”. Padre Douglas confessa di temere prima o poi di essere ucciso. “Ma non sono preoccupato tanto per me – commenta – quanto per la mia gente”.
Lunga e appassionata la testimonianza di padre Ibrahim, che in più di un punto si è anche commosso. Il religioso ha anzitutto tracciato un quadro della situazione ad Aleppo: “Viviamo nell’instabilità, mancano le risorse alimentari, l’acqua, siamo sotto i bombardamenti e le malattie si diffondono. Vengono a chiederci l’acqua in convento. E noi cerchiamo di cogliere in tutto questo i segni dello Spirito, condividendo questa esigenza e altri mille problemi e aprendo a tutti, cristiani e musulmani, le porte del convento. Un giorno stavo portando dei sacchi e un uomo mi ha avvisato: ‘Padre, ti stai sporcando l’abito’. Gli ho risposto: ‘È fatto per sporcarsi, perché questa è la vocazione del sacerdote’”.
Una donna – racconta sempre il francescano – gli confessava il suo disagio perché con tanti cristiani fuggiti, le facce del vicinato erano completamente cambiate e si sentiva spaesata. “Non è stato forse il Signore – le ho risposto – che vuole cambiare la gente intorno a noi, perché il profumo di Cristo arrivi anche a loro? Non è un disagio, ma un compito che il Signore ci ha affidato”.
Il racconto prosegue, è quasi una cronaca quotidiana. “Un giorno – dice padre Ibrahim – arriva un musulmano e mi dice: ‘A guardare come la gente viene a prendere acqua, senza litigi, senza urlare, io mi meraviglio. Da altre parti ci si picchia e si grida. Voi siete diversi’. Essere lì da cristiani, in questa pentola bollente, la Siria e tutto il Medio Oriente, è molto importante per dare il sale, il sapore a ciò che bolle in questa pentola. Molti sognano di scappare, è normale, hanno paura. Ma molti tra noi cristiani sono convinti che il Signore già ai tempi di san Paolo ha piantato l’albero della vita nel Medio Oriente. Noi non vogliamo portare via questo albero”. Non se ne andranno i francescani da Aleppo. “Amiamo di più, perdoniamo di più, ma non ce ne andiamo”.
Paradossalmente, in una situazione così tragica il miracolo può diventare un’esperienza quotidiana. “Anche la messa giornaliera senza interruzioni è un miracolo. Con tanta mancanza, non solo dell’acqua ma di tutti i generi di prima necessità, siamo sempre più pieni di gratitudine verso Dio che ci dà molto. Sentire questa mancanza ci ha resi più veri, più attenti anche ai fratelli musulmani”.
Non previsto dal programma, si è aggiunto un terzo contributo, quello del cooperatore Avsi Giacomo Fiordi, che ha presentato un video da lui realizzato, un dialogo con la famiglia di Myriam, la bambina irachena di Qaraqosh che aveva già raccontato la sua esperienza alla tv Sat7 e che oggi vive con i suoi genitori nel centro commerciale Ainkawadi di Erbil, diventato campo profughi. Commovente uno degli interventi di Alis, la mamma di Myriam: “Se fosse tutto nelle mie mani io non sarei in grado di perdonare. Però quello che vivo è che il desiderio di Gesù è dare la grazia agli uomini di imparare a perdonarsi a vicenda. È solo tramite Dio che possiamo imparare a perdonare, perché perdonarsi è una grazia che riceviamo da Lui, non è una cosa solo umana”. Perdonare gli altri è difficile, ha confessato Alis, ma non è impossibile. “E soprattutto quando perdoni gli altri ricevi una grande pace. Provare la pace ti permette di andare avanti nella vita”.
(A.Cap.)