Una città sotto assedio

Press Meeting

Rimini, mercoledì 22 agosto – Nel venticinquesimo della riforma del pubblico impiego introdotta dal d.lgs. 29/1993, l’Arena dell’Innovazione CdO ha avuto come ospite l’ideatore e promotore di quell’iniziativa, Sabino Cassese, professore di Global Governance alla School of Government, LUISS “Guido Carli”, assieme a Francesco Occhetta, giornalista e scrittore del “La Civiltà Cattolica”, e Bern-hard Scholz, presidente della Cdo (Compagnia delle opere).
A introdurre l’incontro Salvatore Taormina, coordinatore del dipartimento Pubblica amministrazione della Fondazione per la Sussidiarietà, che nell’aprire il dialogo, soprattutto alla luce delle dinamiche che continuano ad interessare la riformanda p.a. in Italia (ora con l’annunciato d.d.l. c.d. “concretezza”) ha evidenziato come l’amministrazione e i suoi dipendenti corrano il rischio di perdere di vista il soggetto, e quindi anche il fine costituzionale che li chiama ad essere “a servizio esclusivo della Nazione”.
Il professor Cassese introduce il tema della “città sotto assedio” mettendo in evidenza chi siano gli assedianti e chi gli assediati. “Tra i primi il Parlamento, nell’adottare leggi auto-efficaci che non han-no bisogno più della pubblica amministrazione; gli eccessivi controlli preventivi, affidati ad organi quali la Corte dei Conti e l’Anac; il mondo politico in generale, soprattutto nella logica dello spoil sy-stem”. A ciò, peraltro, si è aggiunto negli anni un forte intervento da parte della magistratura, che è intervenuta spesso su questi temi in ambito penale e amministrativo, costringendo ulteriormente i margini di azione della p.a. L’assediato è, dunque, la pubblica amministrazione stessa che conta tra i suoi dipendenti “circa tre milioni di amministrativi tra i quali pochi tecnici, motivo per cui lo stato è costretto a delegare a terzi esterni l’attività di controllo”. Complicano la situazione i criteri di scelta ad hominem dei dirigenti. Inoltre la selezione del personale avviene, giustamente, tramite concorsi, che tuttavia si svolgono alla stregua di semplici esami universitari, con prove di tipo mnemonico, a fronte mansioni che invece avranno in concreto una forte connotazione pratico-operativa. “La stor-tura deriva dal fatto che le riforme amministrative sono fatte da quelli che non conoscono l’amministrazione”. Cassese si avvia alla conclusione ponendo l’attenzione sulla distonia tra la durata in carica di chi dovrebbe fare le riforme della p.a. e l’apparato amministrativo stesso che, per sua natura, si caratterizza storicamente per la sua continuità. Arriva ad accennare alla riforma che porta il suo nome: “Il tentativo fatto negli anni del governo Ciampi andava verso l’efficienza, spostando al centro dell’azione amministrativa l’utente-destinatario”.
Segue l’intervento di Occhetta, il quale innanzitutto osserva come la p.a. non possa e non debba essere intesa come una metaidea, un’entità astratta. “Essa infatti – afferma – rappresenta una comunità di persone con una propria coscienza morale”. Sono ragioni di ordine storico, secondo l’opinione del padre gesuita, alla base dell’attuale stato di cose. “La p.a. è un transatlantico; il primo datore di lavoro a livello nazionale per numero di dipendenti. Ci si deve quindi chiedere chi tiene il timone, dove si sta dirigendo e in che rotta stia andando”, continua. “È certo causa di rammarico – dice, citando M.S. Giannini (1979) – è che lo Stato non sa di se stesso ciò che il più semplice imprenditore sa della propria impresa”. Il problema, in definitiva, sta nel trovare il senso – il “perché”, in termini di funzione e funzioni – dell’amministrazione, e di conseguenza i modi e le forme più congrue per perseguire così i fini. “In questo – conclude – la cultura cattolica ha delle responsabilità. Si è puntato molto sul costituzionalismo, lasciando l’amministrazione alla cultura laica. Il rischio che ora si corre, soprattutto di fronte al populismo, è di perdere il valore dell’intermediazione pubblica nella costruzione del bene comune a cui ciascuno è chiamato a portare il proprio contributo, il proprio “mattone””. Ed indica una serie di possibili revisioni, dagli spazi e la condivisione delle informazioni fino alla rotazione delle funzioni, nell’ottica di restaurare un’etica nel lavoro della pubblica amministrazione, secondo le esortazioni del cardinal Martini (1984).
Chiude l’intervento di Scholz, che in quest’arena si fa latore della prospettiva dei destinatari-utenti dei servizi della p.a. “Il dialogo tra pubblico e privato – osserva – è reso difficile a motivo di una reci-proca incomprensione, dovuta al fatto che spesso non si mettono a tema i problemi che effettiva-mente dovrebbero essere affrontati”. Il primo di questi, secondo il presidente della Cdo, sta nella pretesa di veder risolti dalla p.a. problemi che per la loro stessa natura non possono essere delegati in esclusiva alle cure dello Stato. “La qualità professionale di medici e insegnati – osserva, ad esempio – si determina in funzioni di variabili e caratteristiche che spesso l’amministrazione non è nella possibilità di valutare, né di incrementare” riprendendo con questo il problema delle modalità e dei criteri di selezione del personale già accennato da Cassese. In queste dinamiche, dunque, si inserisce l’apporto dei corpi intermedi, che creando e dando spazio a relazioni sistematiche e non casuali, permettono alle persone di impegnarsi contribuendo al bene comune, permettendo non solo ai singoli di interagire con lo Stato con una più chiara coscienza, ma anche – indirettamente – di ridurre le pretese rivolte alla p.a. “L’amministrazione, infatti, – conclude – è tanto più efficace, quanto più è maturo il soggetto con cui si confronta. Compito di quest’ultima, dunque, è quella di sostenere – e non limitarsi a controllare – lo sviluppo delle esperienze che rendono possibile questa crescita.”

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