L’innamoramento per la giurisprudenza durante un viaggio a Washington D.C., quando rimase colpito dal modo di ragionare di alcune persone che avevano studiato legge; gli anni della crisi quando era giunto il momento della law school, e il decisivo ritorno di fiamma grazie a un incontro con una professoressa. È questa in sintesi la storia accademica di Paolo Carozza, figlio di immigrati italiani e professore di Giurisprudenza alla Notre Dame University, protagonista dell’odierno dibattito del ciclo di incontri “Un caffè con…” che oggi ha avuto per protagonisti gli italo-americani. Cosa lo aveva colpito di quella professoressa? Perché ha deciso di proseguire gli studi giuridici e intraprendere la carriera accademica? “L’unità della sua persona sia in ambito professionale che nei rapporti quotidiani (molto più informali negli Stati Uniti rispetto a quanto avviene in Italia) e il significato più grande che testimoniava in tutto quello che faceva. Volevo essere come lei”.
È la dinamica del paragone, familiare a Carozza (esperto di diritto comparato) fin da bambino, quando i suoi genitori confrontavano continuamente gli aspetti della vita e della società americana con la loro esperienza di cittadini italiani, e successivamente maturata grazie all’insegnamento di suo padre, esperto dantista, diventato poi professore di letterature comparate. “Ciò che sostiene questo paragone è un’ideale di universalità”: affinché il paragone sia proficuo e non si riduca a semplice dialettica è necessario riconoscere che esiste un destino, una verità. Questa modalità di ragionare, paragonandosi, è diventata per lui una regola di vita ed è ciò che gli permette di mantenere l’unità della sua persona sia sul lavoro sia in famiglia: “Ogni cosa che faccio passa attraverso il rapporto con mia moglie e i miei figli. Ogni cosa che faccio la faccio essendo anche marito e padre”.
Prima di rispondere ad alcune domande rivoltegli dal pubblico presente, Carozza ha segnalato che nelle università americane esistono molte possibilità per gli studenti italiani, spesso penalizzati dall’immobilismo del mondo accademico locale. “In Italia c’è un’organizzazione molto rigida, quasi un dominio dello Stato sulle università: se si vuole far carriera si deve passare attraverso concorsi statali. Negli Stati Uniti c’è molta più autonomia: questo fa sì che ci siano anche università mediocri, ma consente a quelle migliori un grande dinamismo. Le possibilità che esse offrono non sono riservate agli studenti americani, ma, possono essere sfruttate, tramite progetti di studio all’estero, anche dagli universitari italiani”.
F.T.
Rimini, 22 agosto 2007