Tormentati dalla gioia. La Casa Volante e L’Imprevisto. Testimonianze

Press Meeting

Rimini, sabato 25 agosto 2018 – “Che cosa vuol dire avere un cuore felice?”. Oggi, alle ore 17.00, all’incontro conclusivo della XXXIX Edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, in Auditorium Intesa Sanpaolo A3, le toccanti testimonianze di Elena K., Elena Z., Irina e Tatjana de La Casa Volante e di Anita e Martina de L’Imprevisto rispondono alla domanda di apertura, introdotta da Silvio Cattarina, fondatore e presidente della Cooperativa Sociale L’Imprevisto. Elena Mazzola, direttore del Centro di Cultura Europea Dante di Kharkov, traduce gli interventi.

Che cos’è la Casa Volante? “É il luogo dove qualcuno mi aspetta”. Sono le parole di Tatjana e definiscono l’esperienza che unisce cinque ragazze che a Kharkov hanno cominciato una nuova vita “tormentata dalla gioia”. Il “prima” di tutte è segnato da disabilità, abbandono, rifiuto da parte dei genitori – perché “così consente la legge quando un figlio nasce disabile” –, vita in un orfanatrofio. Il “dopo” coincide con un presente nuovo fatto di fiducia, relazione, amore, felicità.

La prima storia che commuove la platea è quella di Elena K.: “Ero arrabbiata con Dio, per me era un tiranno, perché mi aveva fatta nascere disabile e non mi aveva dato una famiglia, ma non potevo togliermi dagli occhi lo sguardo della persona che ha impresso in me la parola amore”. Si trattava del responsabile del progetto teatro che si svolgeva nell’orfanatrofio: “Ogni giorno trovava il tempo per abbracciarmi e per farmi capire ero importante”. È la stessa persona che si interessa affinché, una volta uscite dall’orfanatrofio, ci sia un luogo dove Elena e Tatjana possano studiare, e realizzare la loro vita.

Tatjana è nata invece in una famiglia disagiata: seconda di tre figli di cui due con disabilità. A cinque anni ha perso il padre che si è suicidato. “Penso spesso a lui e capisco che non ha incontrato persone buone che lo potessero aiutare”. Dopo aver perduto anche la madre, anche Tatjana ha conosciuto l’orfanatrofio. “È stato un luogo dove mi hanno insegnato che nella vita bisogna essere indipendenti”. Dall’esperienza della Casa Volante sta imparando invece a dipendere: cucinare, fare la lavatrice, preparare con cura la tavola per aspettare l’ospite. Elena Z. inizia: “A diciassette anni la mia vita era vuota e noiosa e non aveva un senso, però mi facevo delle domande. Mi dicevano che Dio ci ama, ma io non ne avevo esperienza, mi era indifferente”. Non era così nella famiglia che, arrivata dall’Italia, le ha mostrato che cosa sono la speranza e la fede: “C’era qualcuno per cui io ero necessaria e interessante”. Irina è stata rifiutata al terzo giorno dalla sua nascita, ma dice: “Non giudicate mia madre, non è peggiore di tutti voi che siete seduti qui, sono errori che tutti possiamo compiere quando siamo giovani e inesperti della vita”. Anche per lei la storia è la ricerca di un significato e questo avviene nell’incontro con gli amici della comunità Emmaus da cui l’esperienza de la Casa Volante. Le domande ad un certo punto hanno avuto il sopravvento e per Irina è stato indispensabile tornare al volto della persona che l’aveva accompagnata nel momento della morte della madre: “Quella persona aveva pregato per me, perché io incontrassi persone davanti alle quali potessi essere me stessa. Voi state realizzando quello che il mio cuore attendeva da tanto tempo”.

Anita è in comunità L’Imprevisto da quasi due anni per problemi di tossicodipendenza, ha cominciato con le sostanze a tredici anni, partendo con le droghe leggere e continuando con quelle pesanti. “Ma le droghe erano solo una conseguenza di quello che avevo provato fin da piccola”, spiega la giovane, i cui genitori si sono separati quando lei aveva cinque anni. Lei andò a vivere dalla madre, che però soffriva di alcolismo, e lei per tutto questo soffriva molto. Alle superiori, dove i coetanei la prendevano in giro per l’aspetto fisico, arrivò l’incontro con la droga, e nel 2016 anche la nonna venne a mancare, facendole crollare il mondo addosso. Prima di morire la stessa nonna mise in guardia i genitori sul giro di amicizie della figlia. Lei confessò tutto alla madre, dicendole che doveva farsi aiutare. Anita è stata portata al Sert e da lì accompagnata alla Comunità L’Imprevisto. “Quello che ho percepito subito è stata una grande gioia di stare insieme, e all’inizio non capivo, come mai ragazze che non si sono scelte desiderassero così tanto vivere insieme”, racconta ancora Anita. “Ma poi, andando avanti ogni giorno, ho capito che è la lotta quotidiana per le piccole cose che ci manda avanti. Ho imparato a vivere con l’essenziale, senza nascondersi dietro dei simulacri, come il trucco o il telefonino. Ho imparato che sono i rapporti a farci crescere, ed è la relazione con l’adulto che ci serve”. Ora Anita dopo due anni è rinata, ha recuperato il rapporto con i genitori e ha speranza per il futuro. “Ora posso dire di sentirmi viva”.

Dopo di lei, Martina ha raccontato della sua esperienza. “Che parla di un desiderio – spiega – che ha sempre dimorato nel mio cuore, e che per quanto fosse bramoso, in un certo periodo, l’ho divorato. Perché gli avevo dato il nome e la forma sbagliate”. Anche Martina ha cominciato a utilizzare droghe a quattordici anni, “perché mi sentivo sola e abbandonata o perché non trovavo un reale motivo per impegnarmi”. A tre anni e mezzo è andata a vivere in una comunità per problemi familiari, a quattordici si è trasferita dal padre. Si è poi ribellata, “a tutto e a tutti”. “Quando cresci in modo autoreferenziale devi attuare delle strategie per restare a galla di fronte alla tua inadeguatezza. Io avevo le sostanze, e una buona dose di presunzione”. Ma a diciannove anni Martina capì che aveva bisogno di sentirsi di nuovo a casa, ed è andata in comunità.

“Ma all’Imprevisto è stato diverso. Avevo sempre pensato a casa come un luogo consolatorio e affettivo. Qui ho scoperto che casa è dove il cuore riposa, e non ti viene tolta tutta la fatica che porti, ma viene guardata e portata insieme. E finalmente puoi essere tutta la piccolezza che sei, sentendoti comunque grande”. Lì Martina ha fatto l’esperienza di venire “privata di tutte le maschere”, così è scappata più di una volta. “Non è stato facile accettare la verità più profonda di me stessa, ma soprattutto accettare che io posso realmente conoscermi solo attraverso gli occhi di qualcun altro. Grazia, la responsabile, fa sempre un esempio che rende bene l’idea: io sto parlando, ma siete voi che mi date un volto. Ho sempre creduto che ognuno dovesse farcela da solo, con il proprio sforzo. Questo per me era essere forti e liberi”. Ma oggi, ha raccontato Martina, “ho sperimentato per la prima volta cosa significasse la libertà. Poter scegliere di vivere oltre i miei limiti ed insufficienze, consapevole che ci sono ma che sono il trampolino di lancio, la conferma che il mio essere limitata è proprio il presupposto per cercare cose grandi. Ho scoperto che siamo tutti sulla stessa strada e che abbiamo lo stesso compito: essere felici”. E “la gioia oggi, per me, è proprio quello da cui sono sempre fuggita: un rapporto”.

“Il tema della nostra vita è il cuore, il desiderio, il compimento, la felicità possibile, un imprevisto che accade e prende la vita rendendola finalmente umana”, ha concluso Elena Mazzola. “Le nostre ragazze hanno storie durissime, nei particolari straziante e disumane. Quindi su di noi hanno un vantaggio: a loro difficilmente basterebbero dei discorsi. Hanno il cuore troppo messo a nudo, troppo sveglio. Per loro, quello che corrisponde al cuore deve essere reale. Deve essere incarnato, incontrabile, in una persona e in altri uomini”. Nel lavoro educativo, ha continuato Mazzola, “cerchiamo di accompagnare le ragazze ad essere indipendenti, autonome, adulte e responsabili, sapendo benissimo che essere adulti non significa essere indipendenti, e per questo siamo i primi che facciamo il lavoro della vita. Ci educhiamo, siamo comunità in cui cerchiamo tutti insieme di imparare il mistero che siamo, che ognuno di noi è. A scoprirlo e conoscerlo, togliendoci i sandali davanti al mistero immenso e sacro che è ognuno. Insieme impariamo ad essere non indipendenti, ma dipendenti, e che la nostra natura è l’essere un bisogno e un rapporto. Che è la nostra gioia”.

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