Testimonianze dalle periferie: un soggetto per lo sviluppo

Press Meeting

“Ci interessa scoprire come nel lavoro di Avsi stiano nascendo persone nuove, soggetti, non oggetti capaci di assistenzialismo”. Così Davide Perillo, direttore della rivista Tracce, introduce l’incontro ‘Testimonianze dalle periferie: un soggetto per lo sviluppo’. Ne parleranno Stefania Famlonga, responsabile di Avsi in Ecuador; John Waters, giornalista e curatore della mostra ‘Generare bellezza. Nuovi inizi alle periferie del mondo’ presente al Meeting in piazza C1.
Stefania Famlonga lavora nella favelas ‘Invasione’, a tremila metri, su una collina “invasa da quindicimila persone che volevano costruire casa, cercare lavoro abitando in strutture senza fognature, acqua, luce”. Segue cinquecento famiglie, accompagnando i genitori nel compito educativo, soprattutto le mamme. Quando è arrivata in Ecuador, undici anni fa, pensava di sapere già cosa fosse la povertà “perché avevo già lavorato con i poveri in Romania, ero di Cl, ero europea e perché come Avsi avevamo i soldi. Eppure vedevo un’umanità molto genuina, senza maschere. Molte non avevano terminato la scuola elementare eppure avevano una umanità che io non possedevo”. Iniziano gli incontri del lunedì mattina dove leggono insieme scritti di Giussani o Carrón, mettendo a tema tutto ciò che accade loro: gli affetti, l’essere donne, il desiderio di riprendere gli studi.
“Ho visto cambiare me stessa e loro, e insieme a loro i loro fogli, mariti, vicini di casa: persone rinate, non schiacciate”. Cambia lo sguardo: nella periferia ha trovato se stessa. Stampano cinquecento copie in formato tascabile de ‘Il rischio educativo’ di don Luigi Giussani: “Era commovente vedere le mamme sulle strade polverose del quartiere Pisulli con il libretto in mano, loro che fino a qualche anno fa non sapevano né leggere né scrivere”. Donne protagoniste della propria vita capaci di dire: “non ci basta che voi insegniate ai nostri figli, vogliamo imparare a farlo noi”. Pensava di aver terminato il suo compito, invece scoprì che “il bello veniva ora. La vita è più condivisione che riuscita; possiamo camminare insieme, davanti al Mistero, alla pari. Siamo tutti poveri, bisognosi”.
“Sono nato nell’Irlanda occidentale – racconta Waters – eravamo in quattro in due stanze, ma non avrei mai usato la parola ‘poveri’ per definire la mia famiglia”. Avsi lo incarica di guardare da esterno i progetti in Ecuador, Kenya, Brasile per farne una mostra: “Non avevo i criteri per cui ci si considera poveri, perciò per me era molto interessante capire la questione”. I bambini delle favelas hanno un volto sorridente perché gli è stato detto il vero: ‘Tu sei speciale, puoi realizzare i tuoi sogni’”.
Waters incontra mamme ferite dai sensi di colpa per non essere in grado di nutrire adeguatamente i figli e si accorge “che la povertà non è solo materiale, porta con sé una ferita: vergogna, umiliazione”. Il giornalista comprende così che “il denaro non serve a nulla se non c’è un abbraccio, perché la povertà è una ferita dell’io che si trasmette di padre in figlio. È la differenza tra la mia famiglia e queste, noi non ci siamo mai sentiti poveri perché non c’è mai stata umiliazione”. Non basta portare il denaro: “Occorre incontrarti, tu sei come me, siamo insieme. Quello che avevo in mente era che chi visitasse la mostra sentisse questa promessa: io ti prometto che cambierò”. Una promessa di parità.
(M.G.D’A., D.T.)

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