«Terrorismo: l’Islam non c’entra»

Press Meeting

Secondo Olivier Roy abbiamo a che fare con giovani nichilisti, votati alla morte, privi di una eredità religiosa e culturale. La risposta? «Dare legittimità al fatto religioso nello spazio pubblico»

Rimini, 24 agosto 2017 – «Il terrorismo di questi anni non è il frutto dell’Islam. I nuovi terroristi sono giovani nichilisti, privi di cultura araba o musulmana, votati alla morte, che hanno abbracciato un misticismo distruttivo. L’Islam come tale non c’entra». È la tesi, provocatoria, che Olivier Roy, orientalista e politologo francese, joint chair RSCAS e chair in Mediterranean studies all’EUI (European University Insitute), ha esposto all’appuntamento delle 12.30 nello Spazio Muri B2, presentato da Paolo Magri, direttore dell’ISPI (Istituto di studi di politica internazionale). Roy non ha solo analizzato il fenomeno, ma ha anche indicato il “cosa fare”, che va in controtendenza rispetto a quanto, ad esempio, sta facendo la Francia: «Per combattere il radicalismo bisogna accettare la legittimità del fatto religioso nello spazio pubblico invece che cercare in tutti i modi di cacciarlo, come fanno nel mio paese».
Roy, autore di numerose pubblicazioni sull’argomento, ha detto che il 60% dei terroristi degli ultimi venti anni è di seconda generazione, «giovani che non hanno ereditato una fede e una cultura religiosa dai loro padri, ma che sono cresciuti aderendo a sottoculture occidentali, alle “culture di strada”». Poi, improvvisamente, hanno rotto con il loro passato, aderendo contemporaneamente alla religione e alla violenza: pensano al paradiso e vogliono morire. Roy ha fatto osservare l’aumento del numero di Kamikaze e ha ricordato il terrorista di Barcellona, che aveva cinture esplosive false (per provocare la reazione dei poliziotti) e che rideva mentre gli sparavano. «Sono affascinati dalla morte, che è al centro del loro progetto terroristico. Sanno che Daesh perderà, ma il loro scopo è la morte e il paradiso». Il politologo ha spiegato che questi giovani adottano una costruzione narrativa nella quale c’è un eroe solitario che lotta contro l’ordine mondiale. «Nessuno di loro è integrato nelle comunità musulmane locali, si battono per un’astrazione universale, come facevano la Brigate rosse in Italia, che dicevano di lottare per il potere della classe operaia senza aver alcun rapporto né con gli operai né con i sindacati».
Roy sostiene che la forza di Daesh è di aver espresso questa costruzione narrativa con due registri. Il primo è la ricostituzione del califfato; l’altro è un’estetica della violenza, che usa largamente dei social e di internet per fare propaganda e proselitismo. «Il fascino della violenza è centrale nella strategia di Daesh».
Questo tipo di violenza, è dunque la tesi dello studioso, è frutto della deculturalizzazione del religioso. «I problemi sorgono, in tutte le religioni, quando si perde un’eredità. Una cultura comune, infatti, porta a condividere qualcosa con altri. Diversamente ecco che qualcuno si considera il puro in assoluto e vuole distruggere l’altro». Roy ha fatto notare la differenza fra l’immigrazione marocchina e quella turca. I primi sono largamente rappresentati in tutti gli episodi di terrorismo, i turchi invece non vanno oltre il 2%. Perché? «Perché l’assenza di cultura è massima nei marocchini, i più giovani dei quali addirittura non parlano più nemmeno l’arabo, mentre i turchi, in Germania, conoscono bene la lingua dei loro nonni».
Rispondendo al pubblico, il relatore ha detto che l’integrazione in Europa non si può dire fallita, perché in Francia e Inghilterra c’è una terza generazione che non è approdata al terrorismo e abbiamo anche classi medie di origine musulmana. Alla domanda se l’Islam sia una religione più a rischio di terrorismo, Roy ha risposto affermativamente per via di due fattori: il contesto del Medio oriente e i fenomeni migratori che accentuano la crisi culturale.
Avviandosi alla conclusione, Roy ha messo in guardia dalla statalizzazione del religioso, dalla politica che vuole organizzare la vita religiosa, in Europa come nei Paesi arabi, in alcuni dei quali le prediche degli Imam vengono scritte da funzionari governativi. La strada da lui indicata è un’altra: uno scambio, una contaminazione fra credenti. Ha suggerito, ad esempio, la necessità di favorire incontri, in Europa, fra teologi islamici e cristiani per confronti filosofici e religiosi, in modo da influenzare la formazione degli imam. Il politologo francese ha portato un esempio concreto. Ha raccontato di un curato di una parrocchia di Vienna, abitata in maggioranza da musulmani. Il sacerdote è stato in Turchia per prendere un diploma di teologia islamica. Tornato in Austria, ha chiesto, e ottenuto, dal governo e dal suo vescovo, la possibilità per tutti gli imam turchi mandati da Ankara di fare uno stage volontario e gratuito di 15 giorni in un convento francescano del Tirolo. «In questo modo», ha concluso Roy,«gli imam turchi si stanno rendendo conto che in Austria esistono cristiani con una ricca vita spirituale, con i quali è utile e proficuo confrontarsi».
(D.B.)

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