Compagni di strada che hanno lo stesso modo di sentire la vita e la stessa urgenza di ragione, gente che non vuol vivere inutilmente. Così Luigi Amicone, direttore di Tempi, ha descritto l’assortita compagnia sul palco della sala A3: un sacerdote, don Stefano Alberto e un laico e giornalista come Giuliano Ferrara, irriducibile alle tante etichette coniate apposta per lui: superlaico, ateo devoto, teo con, stranocristiano … Una compagnia (“sono qui per affetto”) nella quale Ferrara ha detto di trovarsi più che a suo agio. “Con voi – ha riconosciuto – c’è la possibilità di stupirsi vicendevolmente, nei cosiddetti ‘dibbattiti’, dove tutti dicono alla fine la stessa cosa, no. Dentro CL c’è un bel pluralismo e che Dio ve lo conservi”. Riconoscimento che ha allargato all’intera Chiesa, giurando di non aver trovato tra comunisti e liberali così tanta passione per la libertà come “nel mondo ‘oscurantista’ e fideista cattolico”. E da laico ha rivendicato la libertà di “pensare che monsignor Caffarra è più intelligente di Umberto Eco e che il teologo Ratzinger è più significativo di Vattimo”. Ferrara ha tenuto a precisare che questa compagnia non ha un’origine ideologica ma è una storia quotidiana che ha visto tanti laici come lui e cattolici come Amicone condividere giudizi e scelte, prima fra tutti quella di guardare la realtà e partire da essa, per decidere il proprio comportamento e prendere una posizione. L’esempio più evidente è stata la battaglia combattuta insieme per il referendum sulla fecondazione assistita che ha visto Ferrara ed Amicone girare l’Italia in lungo e in largo. “Cosa è successo, infatti, col referendum? – si è chiesto – Che la gente ha considerato irrazionale e contrario all’esperienza l’idea che si possa disporre a proprio piacimento di un pezzo di vita esistente. Per questo, e non per motivi fideistici o irrazionali, ha dato retta a chi diceva di astenersi”. Ferrara ha tenuto a parlare anche dell’aborto, partendo dall’affermazione di alcuni medici americani secondo cui il feto, prima di un certo tempo, non proverebbe dolore. “A parte che è tutto da dimostrare – ha replicato – ma io, laidamente, dico che a soffrire, davanti ad un aborto, oltre al feto, è la madre, sono i fratelli di quel feto che avrebbe potuto essere uno di noi, siamo io e don Pino, siete tutti voi e la società intera perché l’aborto è uno scandalo moderno”. Detto questo, ha subito precisato che l’aborto deve essere comunque legalizzato, “ma – ha aggiunto – un conto è consentire che un dramma si compia per evitarne uno peggiore, un conto è che si voglia cancellarlo, trasformandolo in uno strumento di regolazione delle nascite”. Poi ha regalato una manciata di battute frizzanti. L’equiparacion delle unioni omosessuali alle famiglie? Una sceneggiatura almodovariana più che un laico contributo al progresso civile. Darwin idolo dei superlaicisti? Meglio lui che Veronesi che ci vuole tutti scimmie. La crisi demografica? A 25 anni si abortisce e a 40 si vuole un figlio in provetta; ma è un problema che non riguarda voi: il mio vice, un ciellino, ha 5 figli e Amicone è a quota 6.
Ferrara ha detto di essere a Rimini perché ama la libertà “ed è molto difficile combinare questa libertà con l’idea che non esista un principio intelligente dentro l’evoluzione biologica e mi sembra ovvio che, alle 15 di un pomeriggio di estate, il vostro essere qui non possa essere riconducibile al caso o alla necessità”. Il direttore de Il Foglio ha concluso ricordando che lui non ha la fede ma che “i cristiani hanno qualcosa di più e non di meno” e che “incontrarsi affettuosamente con i cristiani è un po’ come ricostruirsi in quanto uomini laici”.
Don Stefano Alberto, docente di Introduzione alla Teologia alla Cattolica di Milano, ha ripreso, in maniera rigorosa, il discorso dove Ferrara l’aveva lasciato, indicando una strada che questa compagnia può ancora percorrere insieme. Richiamandosi continuamente all’insegnamento di don Giussani, don Alberto (meglio conosciuto come ‘don Pino’) ha detto che la questione fondamentale è la ragione e l’uso che se ne fa: ragione non misura di tutte le cose, come vorrebbe l’oligarchia dei soliti potenti, pronti a schematizzare tutto e chiusi alla novità, ma ragione come apertura alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori. “Sono 50 anni che siamo impegnati in questa battaglia per l’umano, per la ragione – ha affermato don Pino – e l’urgenza più grande per il nostro popolo è l’educazione, non come indottrinamento ma introduzione, innamoramento della realtà, un andare alla radice delle cose”. Una ragione così intesa, attenta a tutto il reale, non può, ha detto don Pino, non cogliere quel punto di fuga che è il Mistero, quasi un soffio di aria pura dentro una stanza buia. Ogni uomo, da solo, può arrivare a scoprire che siamo fatti per altro, per l’infinito. Per questo, ha ricordato, Benedetto XVI invita tutti, credenti e non, a vivere come se Dio ci fosse.
Don Pino ha messo in guardia dai desideri indotti dalla propaganda, che tendono a sostituirsi “alle urgenze ultime e all’ideale presentito”. “L’unità fra gli uomini, dunque – ha aggiunto – può essere costruita solo sulle risposte alle proprie domande e questa è la collaborazione della convivenza veramente democratica, laica. Dobbiamo riconquistare tutti i giorni il fattore fondamentale della democrazia: il senso dell’uomo in quanto è, fattore irriducibile a qualsiasi progetto di potere. In questo sentiamo veramente acuto il problema della nostra umanità”.
Avviandosi alla conclusione, don Pino ha richiamato la valorizzazione che Giussani ha fatto dell’inno “Alla sua donna” di Leopardi, nel quale il poeta intuisce che ogni bellezza ha in sé un segno supremo, è indice di un’altra cosa più grande. Una poesia che si conclude con una invocazione alla bellezza misteriosa e perfetta perché riceva l’inno di un ignoto amante. Giussani ha sempre fatto osservare che il genio di Leopardi si abbraccia con il genio di San Giovanni che, insieme ad Andrea, sente parlare quell’uomo, Gesù, e che poi prorompe nel grido del Prologo del suo Vangelo:” Il Verbo (cioè la giustizia, la bellezza, la verità) si è fatto carne” è un uomo presente tra noi. Milleottocento anni dopo questo fatto, Leopardi, profeta come tutti i geni, si incontra con chi, per grazia, senza merito, questo fatto lo ha incontrato. “Questa è la drammaticità della nostra vita, del nostro cammino – ha indicato don Pino – Nell’attesa sincera di questa risposta, camminiamo verso l’ideale, certi perché una strada è tracciata e curiosi di scoprire ogni giorno, sotto l’orizzonte del cielo, una risposta alla nostra vita, al grido del nostro destino, alla nostra fatica di amare il destino dei fratelli uomini, di rispettarli. La parola “rispetto” insegna Giussani, vuol dire, infatti, guardare attentamente l’altro avendo nello sguardo un’altra presenza”.
D.B.
Rimini, 25 agosto 2005