Oggi alle ore 15 in sala Mimosa B6 si parla ancora di lavoro, tema caro alla CdO in quanto investe un argomento che tocca più o meno tutti: sia chi lo cerca sia chi, per varie ragioni, lo ha perso o teme di perderlo.
Diventa sempre più difficile oggi immaginare un lavoro statico che duri per sempre. Con queste premesse inizia l’incontro presentato da Alessandro Ramazza, presidente di Obiettivo Lavoro spa. Non esiste più una conoscenza valida per tutte le stagioni. Non solo la crisi, ma la realtà globalizzata impone di ripensare al modello lavorativo, così come è stato concepito nell’ultimo secolo. Ma a questa situazione si può rispondere attraverso politiche attive del lavoro. Ramazza porta l’esperienza della sua società la quale, malgrado la crisi, è riuscita negli ultimi anni a ricollocare una percentuale rilevante di lavoratori (tra il 54 ed il 70 per cento). “Questo è stato possibile” – ha sottolineato – perché l’attenzione si è accentrata sul singolo e così si è passati da un’astratta ricerca ad un lavoro attento alla persona e quindi capace di rispondere alle sue esigenze concrete. Non un lavoro generico, ma adatto a quel singolo individuo”. Non sfugge certo al manager che per far ciò ci vogliono incentivi ed è quindi necessaria una nuova educazione perché lo Stato possa concretamente rispondere ad una realtà mutata e tuttora in fieri.
Del medesimo avviso è Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidarietà, il quale da subito sottolinea che il nostro paese è leader delle politiche passive, mentre con molta difficoltà sta introducendo quelle attive. Eppure è proprio la mutata realtà sociale che impone di guardare in modo differente la realtà. Non si tratta di ideologia, il mondo sta cambiando rapidissimamente: questo è un fatto. Vittadini citando Marco Martini, ricorda che dopo appena cinque anni di lavoro si può parlare di obsolescenza. “Diventa necessario investire nella conoscenza e accompagnare il lavoratore nella riqualificazione. Si deve dare un senso al lavoro, capirne le ragioni, motivare l’individuo, aiutarlo anche a comprendere che non sempre può pretendere le stesse condizioni che si avevano prima”. Messaggio molto netto e chiaro: si può accettare una condizione diversa persino peggiorativa, purché se ne diano le ragioni alla persona, “ciò è sicuramente migliore del non fare nulla”. Tutto deve far leva sulla persona: si dialoga con lei, si guarda la sua storia, la si accompagna perché la perdita del lavoro porta con sé non solo una difficoltà economica, ma anche un disagio psicologico ed una sofferenza morale. Inoltre, annota Vittadini, “diventa sempre più necessario superare la rigidità della struttura statale a favore dell’agenzia, la quale strutturalmente è più capace di guardare il lavoratore ed il territorio in cui è posto”. Con un nota bene: sono necessari anche un dialogo tra agenzie ed una continua interazione tra pubblico e privato.
Olivier Labarre, condirettore generale del gruppo francese Bpi – una delle più grandi agenzie del mondo di ricollocamento – parla da subito della sua esperienza in azienda descrivendo con orgoglio il suo continuo sviluppo, “realizzato grazie alle politiche attive”. L’evidenza della crisi ha mostrato la necessità di intervenire nel mercato attraverso riqualificazione del personale, professionalità, personalizzazione dei servizi. “Alla chiusura di una ditta – dice Labarre – devono seguire ristrutturazione, aiuto economico ai dipendenti, ma anche sostegno al territorio con obbligo di re-industrializzazione perché la chiusura di un’impresa è un danno per tutta la collettività e chi riduce la crescita deve partecipare a riorganizzare lo sviluppo”.
Eppure le politiche attive che stanno dando buonissimi risultati in tutta Europa stentano a decollare nel nostro paese. Giuliano Cazzola, vicepresidente della commissione Lavoro della Camera esordisce ricordando un incontro sulle riforme che lo vedeva quale relatore in una piccola città emiliana. “Ho incontrato un panettiere che si rammaricava di dover lasciare il lavoro perché nessuno della sua famiglia voleva svolgerlo e poi un cassaintegrato che mi chiedeva quando avrebbe potuto andare in pensione. Allora mi sono chiesto: perché il cassaintegrato non può andare a fare il panettiere?” Rilanciando la necessità delle politiche attive Cazzola afferma senza mezzi termini che “non si può più passare dalla cassa integrazione al pensionamento: è una prassi che il sistema Italia non può più permettersi”. Il parlamentare difende poi l’operato del governo convinto della bontà dei contratti di somministrazione del lavoro, ma anche della necessità di andare avanti dando maggior impulso alle politiche attive, “le soli capaci oggi di rispondere concretamente alle esigenze del mercato”.
Del medesimo avviso Tiziano Treu che interviene in qualità di vicepresidente della Commissione Lavoro e Previdenza sociale del Senato. Anche Treu ha un aneddoto da raccontare. Il senatore ricorda quando, qualche tempo fa, ospite in un paese scandinavo, gli fu offerto un ottimo pasto cucinato da cuochi cinquantenni tutti riqualificati. “In Italia – prosegue – c’è una resistenza alle politiche attive, una resistenza di pancia. Le politiche attive rappresentano un valida risposta alle esigenze del mercato del lavoro, ma si fa fatica a farle entrare nel vissuto del nostro paese”. Treu concorda sulla necessità di un percorso che accompagni il lavoratore, lo aiuti a ricollocarsi e sottolinea anche l’importanza della riqualificazione del territorio, citando l’esperienza di Treviso dove questo è stato possibile, anche se, confessa al pubblico del Meeting, che “gli imprenditori italiani non sono troppo contenti quando si parla di mettere mano al portafoglio”. Sebbene oggi nel nostro paese lo Stato spende per le politiche passive più del doppio di quelle attive, conclude il professore, “è necessario continuare ad investire, puntare sulle agenzie, guardare al futuro tenendo presente il problema dei giovani… sebbene in Europa questo sia l’anno degli anziani”.
(M.L.A.)
Rimini, 23 agosto 2012