Dal 1996 a oggi nella Repubblica democratica del Congo guerra civile e conflitti etnici hanno causato quasi sei milioni di morti. Molti più che in Vietnam, Afghanistan o Iraq. Negli ultimi ottant’anni, solo il grande macello del secondo conflitto mondiale è riuscito a fare meglio, per così dire. Eppure è un dramma sconosciuto. Senza racconto, immagini, voce. Le telecamere del villaggio globale restano lontane da quel lembo di terra. Sul Congo è assordante silenzio. A portarlo invece sullo schermo del Meeting, con il suo documentario “Silent Chaos”, presentato martedì nella rassegna “Storie dal mondo” è il giovane film maker italiano Antonio Spanò. Un reportage, o come preferisce definirla l’autore, una “testimonianza diretta e senza mediazioni” di chi questa guerra la vive sulla propria pelle.
Siamo nella regione del Kivu, nord del Congo. La città è Butembo, 2500 km di distanza dalla capitale Kinshasa. Qui la guerra non è mai terminata. Ribelli ed esercito regolare ruandese sconfinano ogni giorno. Le forze armate congolesi non riescono a garantire nessun controllo del territorio e spesso transitano armi e bagagli tra le file delle milizie popolari locali dei Mai Mai. “Il film ci è caduto addosso – spiega dopo la proiezione Spanò – nasce da un incontro, avvenuto in Italia, con un religioso della diocesi di Butembo. Grazie a lui e al suo vescovo abbiamo ottenuto un invito nel loro Paese. Il primo giorno di riprese la nostra auto ha avuto un guasto davanti alla scuola di un missionario, dove studiano dei ragazzi sordomuti. Abbiamo scoperto un girone ultimo della disperazione e del dolore, ancora più profondo di quanto potevamo aspettarci”.
Protagonisti del film sono, infatti, gli ultimi tra gli ultimi. Persone prive di voce, senza possibilità di comunicare attraverso la parola e di udire quelle degli altri. Condizione disperante all’interno di una in società ancora basata sulla cultura orale. Una cultura arcaica dove handicap e diverse abilità sono considerate figlie del maleficio. Atroce la testimonianza dove si racconta di come i guerriglieri Mai Mai, pronti a scendere in battaglia armati di polvere e pietre magiche e solo qualche fucile, autorizzino un padre a uccidere il proprio figlio perché sordomuto.
A Butembo chi non ha la parola è rifiutato dagli altri, rinnegato dalle famiglie, vive come un fantasma. Trova una sola dimensione di vita possibile: quella con le persone che vivono il suo stesso dramma. Nelle immagini di Spanò li vediamo camminare insieme, vivere insieme. Vediamo apparire sui loro volti gli unici sorrisi ripresi dal documentario. C’è una contraddizione lacerante tra la bellezza dei luoghi e la tristezza dei visi delle persone che li abitano. “Non c’è nessun romanticismo in quello che abbiamo ripreso”, ci tiene a sottolineare Spanò, siamo lontani migliaia di chilometri dall’iconografia tradizionale della bellezza della natura africana. Anzi, questa bellezza diventa una cappa opprimente in grado di opprimere ancora di più un’umanità privata di ogni speranza.
Un uomo è inquadrato dalla telecamera, senza mostrare emozioni, quasi stranito e lontano dalle sue stesse parola racconta: “Noi stiamo morendo. Moriamo ogni giorno. Bruciano la tua casa, violentano e uccidono tua moglie e i tuoi figli e ti obbligano a dirgli grazie”. Vengono alla memoria le parole di Primo Levi in “Se questo è un uomo”. In quelle pagine le colpe più grandi non erano uccidere, torturare altre persone, ma renderle insensibili a tutto questo. Portarle ad accettarlo. Annientare l’umanità che è dentro ogni uomo.
Ma in questo panorama desolato qualcosa accende la speranza dello spettatore e speriamo non solo di quello. Spanò intervista un giovane sordomuto e lui racconta la sua storia: “Ho finito la scuola e dovevo lavorare. A casa non mi volevano. Nessuno mi voleva neppure insegnare niente. Ho iniziato a guardare ogni giorno i ciabattini lavorare e ho imparato a farlo anch’io”. Lo dice mentre la telecamera lo inquadra nel suo banchetto in una strada di Butembo. Parla a gesti, ma mentre lo fa sorride.
(C.B.)