STORIE DAL MONDO: LA RIVOLUZIONE, UN SOGNO

Press Meeting

Un anno dopo il documentario “Libia: i ragazzi della rivoluzione”, girato nel febbraio 2011 agli albori delle rivolte a Bengasi (proiettato alla scorsa edizione del Meeting proprio nei giorni in cui i ribelli stavano entrando a Tripoli), Gian Micalessin torna in nord Africa (Libia, Tunisia, Egitto) per vedere come si è evoluto lo spirito post-rivoluzione. Il documentario “La rivoluzione, un sogno” (produzione Mtv News) è stato proiettato martedì 21 agosto alle 19 in Sala Neri General Electric all’interno della rassegna “Storie dal mondo”, curata dallo stesso Micalessin e da Roberto Fontolan, direttore del Centro internazionale di Comunione e liberazione. Oltre ai curatori, è presente in sala anche Francesca Ulivi, direttore Tg e responsabilità sociale di Mtv Italia, produttrice del documentario.
“Il documentario è il tentativo di capire, un anno dopo, se questo sogno della rivoluzione si è realizzato o no” dice Micalessin. Il documentario – girato tra dicembre 2011 e febbraio 2012 – ha come protagonisti esclusivi i giovani, tutti gli intervistati hanno tra i 19 e i 26 anni, ed è, come comprensibile scelta editoriale di Mtv, rivolto prevalentemente ai giovani.
Khaled, 20 anni, racconta i fatti accaduti allo scoppiare delle proteste in piazza Tahrir, un anno prima (25 gennaio 2011), mentre scorrono alcune immagini delle violenze di quei giorni. “Qui la polizia caricò, da quel palazzo sparavano i cecchini” dice il ragazzo indicando i luoghi alle telecamere. “Vedere la gente uccisa dai proiettili del nostro esercito e della nostra polizia ci ha fatto male, perché loro dovrebbero difenderci, non combatterci”. Un’amarezza che i giovani oggi conservano, una sfiducia nelle istituzioni e nella politica che non nascondono, una paura che i frutti della rivoluzione gli vengano portati via. Nonostante questo, i volti non sono tristi, sono volti di ragazzi che tuttora vivono di sogni e di grandi speranze. Una delle intervistate porta i jeans e il velo, simbolo della sua fede; Aliaa (anche lei ventenne) invece si dice anarchica e anti-religiosa, Kahled si proclama socialista. “La rivoluzione è nata con Facebook – dice Aliaa – ma non sarebbe potuta continuare senza gli altri. Fidandoci gli uni degli altri possiamo cambiare l’Egitto”.
“La rivoluzione in Egitto, cosi come a Bengasi e in Tunisia, é nata da giovani appartenenti ad una classe sociale medio-alta, giovani istruiti (tutti gli intervistati parlano inglese) e con accesso alla rete” riprende Micalessin rispondendo ad una delle numerose domande del pubblico dopo la proiezione, “ma non sarebbe continuata se dopo non avessero raggiunto la piazza anche la classe popolare e i Fratelli Musulmani, che portarono la gente dalle moschee”.
Particolarmente interessante la parte dedicata alla Tunisia. Le immagini sono realizzate a Sidi Bouzid, città dove il 17 dicembre 2010 iniziarono le proteste che incendiarono prima la Tunisia, poi l’Egitto e la Libia. Il fatto scatenante fu il martirio di Mohamed Bouazizi, piccolo commerciante di frutta e verdura che per protesta si diede fuoco. “La polizia lo multò, e lui si rivolse alle autorità comunali, ma nessuno gli dava ascolto”. “Cosa speri per il futuro?” viene chiesto ad un ex-collega del martire, anche lui venditore di frutta: “Spero che non torni tutto come prima, e che il lavoro non finisca”. “La situazione a Sidi Bouzid era disastrosa” racconta Maha (24 anni, studente in Francia), che accompagna i giornalisti nei luoghi importanti della rivoluzione dove proprio in quei giorni si celebra l’anniversario. Dai suoi racconti emerge che la rivoluzione è nata dal profondo scontento delle nuove generazioni costrette a vivere in una società immobile da decenni, dove la povertà, la disoccupazione e la corruzione toglievano spazio all’iniziativa e alle speranze dei ragazzi. Storie che valgono anche per l’Egitto e la Libia. “C’è ancora disoccupazione. Ci sono ancora molte tappe da fare. Ma gli obiettivi della rivoluzione sono la dignità e la libertà, non i soldi” dice Karim a Sidi Bouzid. “Il governo di transizione non si sta comportando molto bene – ammette Tarek a Bengasi – Abbiamo scritto i punti che devono essere realizzati – dice indicando un grande manifesto alle sue spalle – chiediamo al governo di transizione di essere onesti con noi”.
La cosa più suggestiva del documentario sono le storie, le aspirazioni e i sogni dei giovani protagonisti, ragazzi maturati in fretta e cambiati dall’esperienza della rivoluzione, ma che hanno mantenuto intatto il desiderio di fare grandi cose: Nidal, 19 anni, tunisino, aspira a diventare un grande corridore e un cantante rap. Dopo aver presentato la nonna, mostra le immagini dei suoi idoli (Bolt, Eminem, 50 Cent) appese nella sua stanza. “Al primo posto metto l’educazione, poi l’allenamento, poi il rap, perché il rap vuol dire libertà”. Splendida la scena sulla pista di corsa, dove scherza e ride con la sua ragazza. “Voglio diventare più veloce di Bolt. Perché dite che è impossibile? Lui non corre con tre gambe, giusto? Ne ha due, come me. Quindi perché no?”, dice sorridendo, ma con il realismo di chi chiede l’impossibile. “Prima mi vergognavo di essere libica – dice Yara, ventenne – ora ne sono orgogliosa. Prima volevo lasciare la Libia, ora voglio stare qui, il mio posto è qui. Voglio fare un sacco di cose e ora le potrò fare. My dreams are uncountable – dice testualmente – i miei desideri sono infiniti”.
“È interessante l’emergere di tutti questi io, che desiderano essere protagonisti del loro destino” dice Fontolan dopo la proiezione, ricollegandosi alla mostra “L’imprevedibile istante. Giovani per la crescita” presentata al Meeting. Infatti la speranza di questi giovani è stata la cosa che più ha colpito il pubblico e inevitabilmente è sorto il paragone con i giovani italiani. “Non penso che i giovani italiani siano così demotivati” risponde Francesca Ulivi ad una domanda del pubblico, mentre Micalessin avverte “c’è il rischio che i giovani europei non sappiano rispondere con altrettanta vivacità all’entusiasmo dei ragazzi del Nordafrica, e che questi gli rubino la merenda”. Comunque la preoccupazione maggiore è quella di vedere infrante le speranze di questi giovani, travolte dalla violenza e dagli interessi dei più forti. “È chiaro che dietro le rivoluzioni c’è qualcosa di molto più complesso dell’entusiasmo dei ragazzi che abbiamo mostrato” ricorda Micalessin.
“È importante considerare il fattore tempo: viviamo nell’idea che tutto deve accadere in fretta, con l’ansia di sapere cosa succederà ora. Ma pensiamo ai decenni che ci sono voluti in occidente, per esempio dopo la guerra, per cambiare la società e per costruirne una nuova” annota Fontolan. “Per esempio, adesso sull’Egitto c’è una pressione internazionale tremenda. Invece è importante dare tempo, non avere fretta, non avere paura della realtà per poterla costruire.”

(M.F.)
Rimini, 21 agosto 2012

Scarica