Sicurezza ed educazione nelle missioni di pace

Press Meeting

“È nella responsabilità dell’uomo interporsi, mettersi in mezzo, per evitare massacri”. Mario Mauro, ministro della Difesa, riassume così il senso delle missioni di pace dei nostri soldati: “Vale la pena restare in Afganistan in missione di pace per garantire la libertà e la ricostruzione di quel paese”. All’incontro in programma alle 11.15 in sala Neri, tanta gente anche in piedi. Monica Maggioni, direttore di RaiNews introduce le testimonianze. Militari di forze armate impegnate in paesi lontani e diversi dal nostro. Situazioni che i media presentano in modo spesso diverso da come realmente accadono.
Il maggiore dell’esercito Giuseppe Amato l’ultima missione l’ha vissuta a Kabul. Una terra “che la leggenda dice abbandonata dagli uomini e da Dio”. In quella terra il maggiore era impegnato a realizzare progetti di ricostruzione, per risollevare l’Afganistan. “Tra i tanti ricordi c’è quello di un ragazzo al suo primo voto per le elezioni libere. Mi ha ringraziato della possibilità che gli abbiamo dato”. Amato parla del metodo italiano, nato dalla nostra cultura: empatia per comprendere la realtà, condivisione e vicinanza, grande rispetto della tradizione che si incontra.
C’è chi in Afganistan ci ha lasciato una gamba. È Monica Contrafatto, siciliana di Gela, bersagliere decorata con la croce d’onore. Racconta che fin da piccola voleva entrare nei bersaglieri. Ci riesce, nel 2009 vola in Afghanistan “per aiutare una popolazione bisognosa e sconosciuta”. Si commuove ricordando i volti perennemente infangati dei bambini, il cielo pieno di stelle, l’alba annunciata dalle preghiere della gente. Nel marzo 2012 l’imboscata a Gulistan. Il sergente Michele Silvestri morì, lei ebbe la gamba distrutta dal ginocchio in giù. “Tornerei subito là, vorrei tornarci, per continuare a essere d’aiuto. Dare il cuore per chi non ha nulla. Essere ricambiata con il sorriso è la cosa più bella che mi potesse capitare”.
“L’Afghanistan – conferma il generale Luciano Portolano, capo reparto operazioni comando operativo di vertice interforze – è una missione insidiosa, accettata per ricostruire un popolo che oggi si avvia a vivere con maggiore sicurezza”. Da soldato e da uomo si sente legato a una terra che ha accolto l’ultimo respiro di così tanti soldati italiani. Ha lavorato spalla a spalla con forze italiane, multinazionali, afgane, e popolazione, realizzando scuole, ospedali da campo, strade, pozzi. Lavorare per rispettare la libertà dell’altro non è stato facile dove convivono fanatismo, estremismo e violenza. “All’inizio la nostra presenza non era gradita, nemmeno oggi per alcuni. È occorso molto dialogo per spiegare che le nostre missioni, volute dall’Onu, autorizzate dal Governo, sono per portare condizioni di vita degne di ogni essere umano”. Oltre al dialogo, la condivisione di una quotidianità con il popolo, dei suoi bisogni. Inizialmente nessun afgano si sognava di avvisare i nostri soldati in caso di ordigni piazzati lungo le strade. La camionetta passava e saltava in aria. È occorso tempo per conquistare la fiducia della gente. Un giorno l’anziano del villaggio vicino è andato ad avvisare di una minaccia che si trovava lungo la strada. Non è stato un episodio isolato. Gli altri anziani lo hanno imitato. “La nostra azione non è vincere, ma conquistare il cuore della popolazione. Un domani i nostri bambini incontreranno i bambini afghani, i nostri ragazzi i ragazzi afghani. Se si incontreranno da amici o combattenti dipende da quanto siamo capaci di fare anche con le missioni internazionali”.
Cinquantatré soldati sono tornati dall’Afganistan avvolti nel tricolore, moltissimi i feriti. Le missioni di pace nell’informazione occidentale vengono spesso messe in discussione, criticate. Monica Maggioni chiede al ministro alla Difesa: in che senso è importante che continuino a esistere? “Non c’è nulla che valga la vita di un uomo, e se vale la pena è una domanda che mi pongo. – risponde Mario Mauro – So dell’obiezione occidentale, che la libertà e la democrazia non è roba per islamici. Ma sento anche vivo il ricordo del massacro di Srebrenica dove siamo stati a guardare con le mani incrociate. Ci vuole qualcuno talmente responsabile da mettersi in mezzo”. Senza la logica di mettersi in mezzo si creano le condizioni per il caos. Cita la Siria, l’Egitto. Occorre andare armati, spiega, perché quando si fa interposizione è ragionevole non essere il più mingherlino. Ricorda Giuseppe La Rosa, il militare ucciso a Farah. Una granata era stata gettata dentro il mezzo dove viaggiava con i suoi compagni. Ci si è buttato sopra per impedire che l’esplosione ammazzasse tutti. Saluta Nazifa, 12 anni di Herat, in sala. È in Italia per farsi curare. E risponde che sì, vale la pena.

Scarica