Rimini, 19 agosto – «Vedere, incontrare uno sguardo può provocare un cambiamento». Con questa frase, Stefano Gheno, Cdo Opere Sociali, ha introdotto l’incontro che si è tenuto in Arena Cdo for Innovation D3, intitolato “Vedendo, scopriamo. Farsi prossimo”.
Il primo intervento è stato di Maria Muscherà, dell’associazione Famiglie per l’Accoglienza e preside di una scuola di Messina, che ha introdotto da subito l’importanza del concetto di accoglienza. A lei, infatti, venne affidato un ragazzino eritreo dal padre poiché nel paese di origine non c’era la possibilità di curare la malattia infettiva che aveva colpito il figlio. Dopo questa esperienza, essendo preside di un istituto, Muscherà capì che con l’arrivo di numerosi profughi si imponeva la necessità di rispondere all’ambito educativo per aiutarli a inserirsi nella società. Coinvolgendo gli assessori dei comuni vicini, la Caritas e alcuni centro di accoglienza ha quindi iniziato a organizzare dei corsi professionalizzanti che hanno permesso a molti ragazzi di integrarsi e trovare lavoro. «Attraverso il progetto “nessuno è straniero a scuola” », ha continuato Muscherà, «ho voluto presentare lo straniero come ricchezza in quanto portatore di esperienza e cultura diversa» e l’effetto di quest’iniziativa è stata l’avvenuta integrazione tra i ragazzi stranieri e i compagni italiani con la sensibilizzazione di alcuni insegnanti che hanno cominciato ad ospitare nelle loro case i giovani.
In seguito è intervenuto Niccolò Ceccolini, cappellano dell’Istituto penale minorile Casal del Marmo di Roma, il quale ha riportato diversi esempi tratti dalla sua esperienza all’interno di questa realtà. I giovani detenuti, in particolare quelli stranieri, che vengono in Italia con la speranza di una vita migliore «si ritrovano a fuggire da un deserto, il loro paese, e purtroppo però poi si ritrovano a vivere in un altro deserto, di affetto e di figure di riferimento e di significato, per cui vale la pena vivere» ha affermato Ceccolini. Tutti i ragazzi detenuti sono accomunati da una ferita che li porta a sminuire la loro vita con affermazioni come «siamo degli scarti » o «perdona mamma questo figlio sbagliato» e questa inadeguatezza deriva da un mondo adulto che «ha fatto loro credere che il valore della loro vita non sta nel fatto che loro esistono». Ceccolini ha riportato poi un episodio in cui dice a un giovane che si autolesionava per sfogare la rabbia sentita nei confronti della famiglia che lo aveva abbandonato «tu per me non ti tagli più perché io ti voglio bene». Il giovane sorpreso da questa frase gli ha confessato che nessuno gli aveva mai detto prima «ti voglio bene» e da questo Ceccolini ha compreso che i ragazzi hanno bisogno di qualcuno che glielo dica, qualcuno che abbia la pazienza di ascoltare le loro storie.
L’ultimo intervento è stato di Yankuba Jacobarteh, rifugiato e volontario del Banco Alimentare della Calabria, che ha raccontato di essere giunto in Italia nel 2016 con la moglie incinta per trovare un luogo per dare alla sua famiglia una vita migliore e a Reggio Calabria ha trovato delle persone che lo hanno accolto e, lavorando come volontario per aiutare i bisognosi ha affermato di aver capito che «lavorare come volontari è una cosa bella per aiutare chi ne ha veramente bisogno» anche come riconoscimento a chi gli aveva dato una mano quando era lui ad essere bisognoso. «Da questo incontro si evince l’importanza della restituzione» ha concluso Gheno «perché quando riconosci ciò che hai ricevuto non puoi che ricambiare».
(S.F.)
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