Incontro con Paolo Rumiz
Rimini, 21 agosto – Triestino, Paolo Rumiz ha per natura nel sangue incroci e frontiere, ha sottolineato Davide Perillo, direttore di Tracce, introducendo all’Arena Percorsi A2 l’incontro con il noto scrittore e giornalista, editorialista di Repubblica. Rumiz ha viaggiato anche per raccontare guerre come quelle nei Balcani e in Afghanistan , reportage diventati di grande successo. Il suo ultimo viaggio in Europa si è però trasformato in un percorso attraverso 14 monasteri raccontati con il titolo “Il filo infinito”, quello che lega il monachesimo benedettino all’Europa di oggi.
«Ho incontrato recentemente Rumiz a Camerino», ha detto Perillo, «impegnato in collaborazione con l’Orchestra dei Giovani d’Europa, che ha accompagnato la lettura di suoi testi con l’esecuzione di brani di Ravel, Beethoven. Perché Rumiz ha sentito l’urgenza di cercare questa radice che ha fatto nascere e crescere l’Europa?».
«Ѐ un’idea che si sviluppò quando ebbi occasione di viaggiare lungo la linea di faglia di un paesaggio sismico, ma unico al mondo per la bellezza, gli Appennini», ha raccontato Rumiz. «E scendendo a Norcia, a Camerino, vidi l’oscenità di queste case sventrate, ancora aperte nella loro intimità. Fui folgorato dalla celeste bellezza piegata dalla forza del sottosuolo. Ma la più grande impressione fu vedere, nel cuore di Norcia distrutta, la statua del santo con la scritta “Patrono d’Europa” ergersi ancora intatta. Cosa mi indicava, era forse un gesto come per dirmi cosa potesse essere utile per questa Europa allo sbando? Quella notte non feci altro che approfondire la storia di quest’uomo, e la sua opera mi apparve come qualcosa di straordinario e di inaudito in quel VI secolo, il più buio della sua storia, in cui l’Europa era attraversata da milioni di barbari, non “quattro gatti” come quelli che oggi attraversano il mare».
San Benedetto, ha aggiunto Rumiz, veniva quindi da una terra sismica, ed era un uomo abituato a lasciare la propria residenza. Fece nascere una rete civiltà, costituita dai monasteri che erano luoghi d’eccellenza, collegati tra loro da cammini atti anche alla sosta, luoghi dove si pregava, si lavorava e si viveva con gioia. Nelle immagini più antiche dell’Ordine San Benedetto è pertanto mostrato con la zappa in mano, a riconoscere la santità del lavoro. La sua fu una visione “tellurica” del sacro, uno spaesamento tra il celeste e il buio più profondo che fece nascere una visione del mondo che attuava in pieno il Cristianesimo.
«Cosa ha quindi scoperto di attuale anche per l’oggi?», ha chiesto Perillo. «Ad esempio l’accento posto nella valorizzazione del paesaggio sul “genius loci”, che fosse quello dell’agricoltura, della produzione vinicola, o della salvezza dei codici antichi», ha replicato l’ospite. «Anche se forse non ce ne rendiamo conto, siamo immersi in un paesaggio benedettino. Tutti, bussando alla porte dei monasteri, potevano essere accolti. Erano migranti loro stessi. San Colombano venne dall’Irlanda agli Appennini. La rinascita dell’Italia è stata frutto di una risistemazione razionale e perfetta della linea di faglia che attraversa l’Appennino. Anche il canto, insieme alla semplicità dei gesti, era un elemento importante che colpiva i barbari, perché attraverso la voce si sentiva che c’era un mondo nuovo e faceva pensare a coloro che venivano da lontano; “iI Dio di questi uomini è un Dio che funziona”. Un santo perimetro che non era chiuso in sé stesso, ma fatto per accogliere “Colui che viene”.
(M.T.)
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