Bruno Sacchini già direttore artistico del Meeting e autore di numerosi testi teatrali rappresentati nelle varie edizioni della manifestazione, ha fornito un ulteriore prova del suo eclettismo di autore con il saggio dantesco “Piccarda c’est moi” (Società Editrice Fiorentina, pp.96, €10) presentato oggi nella Sala Eni Caffè Letterario A3 alle 17. Camillo Fornasieri introducendo l’autore ha posto in evidenza la motivazione che ha mosso Sacchini, a partire dalla propria esperienza di insegnante, a raccogliere e cercare di dare una sua personale interpretazione, anche filologica, di alcuni passaggi controversi della Divina Commedia, definiti dalla critica “croci dantesche”.
L’autore ha sviluppato una serie di esempi partendo dal Canto XIII dell’Inferno, nel quale i suicidi trasformati in alberi sono collocati nella foresta pietrificata e dai cui rami spezzati fuoriesce sangue. Dante resta pietrificato da questa visione anche se esteriormente il luogo è meno “orrifico” di altri paesaggi infernali: infatti comincia a balbettare (“Cred’io ch’ei credette ch’io credesse” v.25) da non riuscire più a parlare e questo è quanto di peggio possa capitare ad uno scrittore, perché se perde la parola è la fine.
Sacchini continua con il Canto V, famoso per la presenza di Paolo e Francesca e il celebre motto “Amor ch’a nullo amato amar perdona” (v.103). Secondo la critica, con queste parole Francesca vuol giustificare il suo amore adulterino, sostenendo che non è possibile non riamare chi ci ama. A giudizio di Sacchini “questa è un’idiozia che non troviamo neppure sui biglietti dei baci Perugina” e propone invece questa interpretazione: “Amore che non permette a nessun amato di approfittare della situazione (per possedere chi egli stesso non ama)”. Lo svenimento che prende il poeta al termine della narrazione di Francesca rappresenta la sua nuova reazione ai principi dell’amore cortese che ha già vissuto come propria esperienza e che ora è costretto a rivedere. “Galeotto fu il ‘l libro e chi lo scrisse” (v. 137), la lettura del libro, fatta “senza sospetto” cioè senza distanza critica, fa precipitare la situazione come quando ce ne appassioniamo talmente tanto da immedesimarci nel libro stesso.
Dopo un cenno a Farinata degli Uberti (l’ammonimento virgiliano “le parole tue sien conte” è una messa in guardia contro la parziale unilateralità della pura contrapposizione politica), l’autore prosegue per arrivare al Canto XXVI dell’Inferno, nel quale troviamo gli orditori di frode, ossia condottieri e politici che non agirono con le armi e con il coraggio personale ma con l’acutezza spregiudicata dell’ingegno. Tra questi c’è Ulisse, suo alter ego, nei confronti del quale Dante prova grande emozione forse non solo per la sua morte epica da naufrago avendo confidato nella sola ragione umana ma anche perché il poeta si rende conto di rischiare la sua stessa fine essendo accompagnato da Virgilio che rappresenta la ragione umana.
“Con quest’opera Sacchini va dritto al cuore delle più spinose questioni dantesche e, nonostante secoli e secoli di speculazioni, riesce ad offrire nuove prospettive e a far vivere di nuovo quelle parole”. Il giudizio è di Filippo Gianferrari docente all’Università di Notre Dame, autore della postfazione di Piccarda c’est moi. “È un lavoro di rilievo indubbio – prosegue il critico – difficilmente ignorabile dalla contemporanea critica dantesca: esso propone vie nuove o alternative per praticare un criticismo al servizio dei lettori, non eliminando lo storicismo, ma impedendo allo storicismo di eliminare l’uomo che si cela dietro i versi della Commedia”.
“Noi abbiamo una particolarità, siamo l’unica nazione che riesce a leggere e a parlare dei suoi classici” questa la conclusione di Alessandro Masi, segretario generale della Società Dante Alighieri, che ha preso parte all’incontro dialogando con Sacchini. “Dante è inevitabile – ha detto ancora Masi – e leggerlo significa non tradurlo, ma interpretarlo”.
(C.R., M.T.)