PERCHE’ SONO FELICE DI ESSERE EBREO, CRISTIANO, MUSULMANO?

Press Meeting

Tre uomini, tre religioni, tre “Sì” alla domanda posta dal titolo del Meeting. Alberto Savorana introduce i tre ospiti non senza aver ringraziato il nunzio vaticano in Israele, mons. Pietro Sambi, “a cui dobbiamo la possibilità di questo incontro”.

“Nel giorno di sabato, lo Shabbat, consacrato al Signore, nessuno lavora: felicemente discorriamo tra noi e cantiamo; vorrei invitare tutti voi [i circa 7 mila presenti], chiederò il permesso a mia moglie…”. Così David Brodman, Rabbino, Direttore del Centro Savyon, entra in sintonia con il pubblico del Meeting. Noi ebrei, cosa che può risultare incredibile, siamo un popolo inguaribilmente ottimista: la nostra vita è scandita dalla lettura dei salmi; nel campo di concentramento, mia madre, si premurava che pregassi prima di dormire. Il Re Davide, nonostante le grandi sofferenze patite, fa dire al salmo 23: “anche se cammino in valle tenebrosa, non temerò alcun male perché Tu sei con me”. Il principio dell’ebraismo ricorda che la Terra è stata creata per tutti i popoli, nazioni e culture; ognuno può raggiungere la grazia del Signore. Non necessariamente si deve essere ebrei per ottenere il Paradiso: noi non siamo migliori di altri, dunque, quando parlo del mio ebraismo, non c’è superbia, né senso di superiorità. Il rabbino introduce il secondo principio: quando dico di credere nel Signore e nella legge di Mosè, sono convinto di essere l’unico a dire la verità, ma mi aspetto che anche cristiani e musulmani credano la stessa cosa. È legittimo che ciascuno creda nel primato della propria fede, ciò non porta a compromessi: verrà il giorno nel quale il Signore ci dirà chi ha ragione, perché c’è solo un’unica verità. Concludendo, visto l’avverarsi delle profezie che prevedevano la distruzione del tempio, è ragionevole pensare che “anche le profezie di bene si avvereranno, con l’aiuto di Dio e col vostro aiuto, perché noi saremo tutti amici e saremo fra coloro che accoglieranno il regno di Dio, quando verrà il Messia””

Il professore palestinese Alì H. Qleibo, docente presso la Al Quds University di Gerusalemme, si emoziona per il suo ritorno al Meeting: “la felicità è una cosa personale perché si trova nei cuori delle persone; è un’esperienza interiore, che sono portato a condividere con voi”. Una persona semplice vive felicemente in grazia di Dio: la società islamica palestinese è continuamente a contatto con la cristianità; preghiamo e pratichiamo le nostre cerimonie religiose in chiese diventate moschee. Le formule rituali con le quali, per esempio, al mercato compriamo la frutta, indicano la preoccupazione di correttezza della nostra cultura, per la quale è felice colui che può andare a riposare in uno stato di grazia. Un nostro proverbio recita: “avere un senso di soddisfazione è un tesoro inesauribile”: la felicità deriva dallo stato di purezza nella quale si trova chi ha determinato e realizzato le proprie scelte.
In secondo luogo, occorre dire che la felicità è strettamente legata alla vicinanza di Dio all’uomo. La felicità dell’uomo e la conoscenza di Dio sono lo scopo della creazione; nel Corano: Adamo è il califfo, il successore di Dio sulla terra; ha un potere superiore agli angeli, sulle cose e sugli animali. Tramite la sua ragione è in grado di vedere, conoscere il significante e il significato.

A Giancarlo Cesana il compito di motivare innanzitutto la “sua” risposta “io” alla domanda del titolo. In una intervista mi hanno chiesto: “lei è felice?”, al mio sì hanno insistito: “perché?”. Perché nella vita, qualsiasi cosa accada ha un senso. Non mi sento né temerario, né sentimentale, nel pronunciare queste parole, in quanto ho presente la domanda: dove percepisco il senso della vita? Rispondo: “in un abbraccio concreto”, quello di Don Giussani, di mia moglie, dei miei figli, di chi sorprendentemente ho trovato come compagnia alla mia vita. Ci si abbraccia in due, percependo la presenza di un terzo: di Colui che apre l’abbraccio all’infinito. Appunto, sono cristiano: riconosco che Dio si è mischiato con l’uomo fino a diventare, lui stesso, uomo. Questo abbraccio è correzione (reggersi insieme), a volte sfida, percezione della diversità fra noi e la presenza di Cristo. Non si può amare l’uomo se non si ama Dio, altrimenti l’abbraccio soffoca.
La realtà – secondo aspetto – è fatta per il bene, eppure può essere dura e dolorosa, al pari di noi che siamo duri e ottusi; ce lo fa capire quell’abbraccio che ci costituisce. Il male e il dolore ci fanno capire che il mondo non l’abbiamo fatto noi: “anche se soffri, Dio ti ricostruisce”. Traendo spunto da una poesia di Rebora, afferma Cesana che “io non ho avuto visioni, ma percepisco il bisbiglio dell’infinito in questo amore di cui sono circondato, la comunità cristiana”. Ciò che è stato bisbigliato all’orecchio, dice il Vangelo, lo farete sentire a tutti: la vocazione cristiana è per l’uomo. La nostra ostinazione è voler fare a meno di questa presenza che è il respiro della vita.
“La speranza che ho mi fa crescere la speranza di essere in unità con loro [che sono intervenuti a questo incontro]. Non è Dio che vuole la guerra, ma è l’uomo.” Quando un uomo si apre al mistero di Dio, c’è meno guerra. “Noi non siamo qui per avere ragione, ma per amare”.

D. D.
Rimini, 28 agosto 2003