Marta Morazzoni “Il fuoco di Jeanne”

Press Meeting

Perché una scrittrice come Marta Morazzoni, di Gallarate, due volte premio Campiello (nell’88 e nel ’97), autrice di libri come “La ragazza col turbante” tradotti in nove lingue, ad un certo punto della sua vita si occupa di santa Giovanna d’Arco (“Il fuoco di Jeanne”, edizioni Guanda)? Perché questo interesse, tanto più che la stessa autrice afferma che la figura di Jeanne non l’aveva mai del tutto conquistata? “Perché mi sembrava impossibile che una scelta miracolosa entrasse così direttamente nella vita politica e storica – ha spiegato questo pomeriggio l’autrice, che ha presentato il suo libro nel Caffè letterario dell’Eni – Un ingresso addirittura dentro una guerra. Jeanne, infatti, dice di aver preso le armi per rispondere ad una chiamata che le veniva da Dio e questo mi sconcerta”.
La Morazzoni ha chiarito di non aver trovato una risposta, nonostante i libri letti, le opere d’arte studiate, il pellegrinaggio compiuto sui luoghi della santa francese, compreso il castello nel quale, secondo una delle tante storie sul suo conto, Jeanne sarebbe vissuta altri 19 anni, lasciando sul rogo un’incolpevole, e certo non entusiasta, controfigura. In lei permane ancora il dubbio che, come ha detto Camillo Fornasieri nella presentazione, “la fede possa davvero entrare così nella storia e nella politica”.
Jeanne continua ad essere una presenza viva e inafferrabile nella vita della Morazzoni, che comunque le ha conferito l’investitura di patrona degli scrittori in cerca di ispirazione. “La scrittura – ha spiegato – ha bisogno di ispirazione e Jeanne che sente le voci è ispirata. Solo che lei ha tradotto una ispirazione non in un libro ma in un’opera. È una specie di folle di Dio, che si muove con sicurezza allegra con la sua armatura di 35 kg addosso, convinta di essere al posto giusto nel momento giusto”.
Raccogliendo una sollecitazione di Fornasieri, l’autrice riconosce che Jeanne ha sfidato l’intellettualismo arrogante e potente dei chierici, laici ed ecclesiastici, dell’epoca. “Dagli atti del processo e dall’esame sostenuto all’Università di Poitiers – ha raccontato la scrittrice – è evidente come Jeanne risponda ai suoi interlocutori con una sapienza alimentata dalle prediche ascoltate nella chiesa del suo paese, con la chiarezza elementare del messaggio cristiano”.
“La scrittura – ha poi concluso l’autrice – è il rifugio di quelli che non possono o non sanno parlare. È il tempo del silenzio individuale, il tempo lento della meditazione. È una gestazione: infatti, la fine di ogni lavoro lascia un’enorme malinconia e solitudine”.
(D.B.)

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