Sala C1 affollata, alle 11.15, di un pubblico selezionato per confrontarsi con un tema impegnativo affrontato da studiosi d’eccellenza: Stefano Arduini, docente di Linguistica generale all’Università di Urbino, direttore della Scuola superiore per mediatori linguistici San Pellegrino di Misano Adriatico e “traduttologo”; Pietro Barcellona, ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Catania; Andrea Moro, ordinario di Linguistica generale allo Iuss – Institute for Advanced Study di Pavia ed esperto in neurolinguistica.
“Affrontare il tema del linguaggio oggi, in questa edizione del Meeting dedicata alla certezza – ha introdotto l’incontro il poeta e scrittore Davide Rondoni – è entrare nel ‘nido’ della questione, perché il linguaggio è la sede di qualsiasi espressione di certezza”.
Spiazzante l’esordio di Andrea Moro: “Non ho risposte, ma solo domande. Il Meeting è il contrario di un congresso dove ci si esibisce: qui si viene per contagiarsi. E per una volta il contagio è positivo”. “Mi hanno chiesto di parlarvi di linguaggio, certezza e mistero: tre nozioni non necessariamente legate insieme. Ma ho un’ambizione: mostrarvi come linguaggio e certezza sono due porte verso il mistero – ha continuato lo studioso -. Nessuno è in grado di spiegare come facciano le parole e soprattutto le frasi a parlare del mondo: è una sorpresa non minore di quella del fisico che si accorge che le funzioni matematiche si applicano ai fenomeni della realtà. È la prima porta che apre al mistero”.
“Tutta la struttura del linguaggio è un riflesso della struttura del mondo ma è indipendente da essa”, ha quindi affermato Moro prima di illustrare sinteticamente il percorso che porta a dimostrare che la sintassi è patrimonio unico dell’uomo, con similitudini di struttura con la matematica. Unicità dimostrata da diversi studi scientifici che hanno analizzato il funzionamento del cervello in relazione al linguaggio che è “più simile a un fiocco di neve che al collo di una giraffa. Le sue proprietà specifiche nascono dalle leggi di natura, non sono qualcosa che si sviluppa come accumulo di fatti storici casuali”, come afferma Noam Chomsky, uno dei massimi linguisti della nostra epoca. Questa la seconda porta al mistero. “Un mistero infinito, che presenta quesiti storici scottanti. Ne voglio condividere uno con voi. Perché Gesù, che sapeva leggere e scrivere, non ha lasciato nulla di scritto? Se sia anch’esso un mistero o il segno che il linguaggio da solo non basta se non c’è il coinvolgimento che deriva dall’incontro diretto tra persone è una domanda che pongo a me per primo e a tutti voi”, ha concluso Moro.
Complementare, anche se declinata tutta su uno specialistico versante interpretativo, la relazione di Stefano Arduini che si è concentrato sull’analisi di uno dei testi centrali della cultura occidentale per quanto riguarda il problema del linguaggio e della certezza: il frammento di Parmenide Sulla natura, di cui ci sono giunti circa 150 versi, più o meno un terzo dell’originale. Ebbene, “nel passaggio centrale in cui Parmenide passa dalla via della parola fondata su alétheia (considerata tradizionalmente riguardante il mondo astratto delle certezze assolute, il mondo immobile del linguaggio della logica) a quella della parola fondata sulle esperienze degli uomini – analizza Arduini – l’espressione greca kòsmon… apatelòn è resa da tutti i traduttori, non solo italiani, con ‘ordine ingannevole’. Come si vede l’accenno è posto sull’inganno, sul fatto che passiamo dal linguaggio della certezza astratta della pura logica per entrare nel linguaggio incerto dell’esperienza. Ma queste traduzioni lasciano qualche dubbio, se non altro perché fanno apparire il testo quasi assurdo. Pertanto vi propongo un’alternativa”. “In realtà – ha proseguito il relatore – già Simplicio nel VI secolo aveva ammonito a non intepretare il logos apatelòs come logos pseudés, cioè falso, ma il suggerimento non fu accolto. Se tuttavia questa interpretazione fosse accettabile troveremmo uno dei testi che fonda la cultura filosofico-linguistica occidentale ben diverso da quello che la tradizione ci è stato tramandato, un testo che propone due linguaggi che fondano una possibile certezza: uno di natura noetica ed uno di natura esperenziale che ha bisogno di un kósmos apatelós. Due possibilità date agli uomini per penetrare la molteplicità e complessità del reale che non si escludono ma si integrano a vicenda occupando ambiti diversi. L’esperienza non sarebbe dunque condannata a favore di una conoscenza pura ma troverebbe il suo kόsmos, il suo linguaggio”. “Rileggendo così Parmenide – ha continuato Arduini – possiamo dire che esistono due vie di conoscenza della realtà: quella che utilizza il linguaggio della logica e quella che riguarda l’esperienza. Dopo Parmenide le due vie perderanno la continuità che questi aveva cercato e diverranno drasticamente alternative governando il rapporto stesso fra linguaggio ed esperienza per molti secoli”. Il linguista ha concluso il suo intervento evidenziando il paradosso del linguaggio dei mistici che “vive la grande contraddizione dovuta al suo oggetto che è in sé non dicibile. La parola referenziale, che sembra così certa, non significa come dovrebbe: l’unico modo per superare questi limiti è un contatto diretto con l’esperienza, che in certi casi è esperienza corporea”.
Affascinato dai precedenti interventi, Pietro Barcellona reagisce a quanto ascoltato e al clima del Meeting e, messo da parte il forbito intervento scritto, lo traduce da par suo, con passione esperienziale. “Se pur potessimo raccogliere tutte le possibili indicazioni di noi qui presenti e le mettessimo insieme, potremmo avere una descrizione analitica, persino totalizzante di questo evento, ma ne avremmo capito il senso? Prendiamo il verso di Dante: ‘figlia del tuo figlio’. È pieno di senso, ma fuori di ogni logica di non contraddizione. Oppure il dramma che il mio amico don Ventorino racconta all’inizio del libro sul suo sacerdozio: lo sgomento di sua madre di fronte al medico che le spiegava le ragioni della morte della sua giovane figlia incinta. Forse le parole di quel medico spiegavano il senso di quella morte?”.
Riprendendo poi un tema comune in questo tempo, quello dell’incertezza, il filosofo ne indica la causa nella “paura dell’imprevedibile, della rimozione, nell’esperienza quotidiana, dell’inevitabile presenza dell’Ignoto e del misterioso”. “Ma noi – ha continuato – non contiamo su questa sicurezza rassicurante, come chi vive in un bozzolo chiuso. Noi siamo aperti a questo insopprimibile aspetto dell’umano. E il limite del linguaggio ci spinge ad andare oltre, ad ascoltare lo spirito in momenti in cui lo spirito è stato giocato a dadi sulla ribalta dell’economia. La modalità affettiva trasforma la parola, la fa diventare simbolica”. “Il mistero – ha con impeto concluso Barcellona – apre alla parola simbolica e solo attraverso questa si cerca la parola sacramentale, che si incarna, presenza reale che ci permette di superare questo limite del mistero”.