Hanno partecipato al simposio dedicato all’informazione in tempo di guerra Renato Farina, vice direttore di Libero; Stefano Folli, direttore de Il Corriere della Sera; Wadah Khanfar, direttore generale di Aljazeera Channel; Gad Lerner, giornalista; Pedro J. Ramirez, direttore di El Mundo. Ha introdotto i relatori Alberto Savorana, direttore di Tracce.
Savorana ha ricordato come don Giussani, in una sua intervista con Farina, abbia parlato dei giornalisti come portentosi provocatori della vita della gente del nostro tempo, carichi di responsabilità per la loro possibilità di comunicare la realtà delle cose in modo che sia possibile farsene un giudizio. In un momento come questo, tempo di guerra, armi e inimicizie, la responsabilità di chi racconta i fatti si fa ancora più grande.
Folli esordisce con un paradosso: forse non esiste un rapporto diretto tra guerra e informazione, o meglio esiste solo all’interno del rapporto generale tra giornalismo e potere. Se in normali condizioni di pace tale dialettica è inserita nel quadro delle regole istituzionali e costituzionali in cui il potere si esercita ed è la libertà di stampa a permettere al giornalismo di contrastare il potere, in tempo di guerra il potere si esercita senza bilanciamenti e controlli, imponendo verità “assolute” e il concetto di guerra giusta. Come dice Giussani, il giornalista è al contrario un esploratore di fatti, un ricercatore di notizie, non di verità assolute. Il rischio che corre in condizioni di guerra è quello di sposare la propaganda di una causa o rinunciare a svolgere il proprio ruolo. Va considerata la natura della guerra moderna e del terrorismo, entrambi spettacolarizzati ed esistenti solo in quanto appaiono in televisione. Inoltre, la fonte militare si sta rivelando sempre più l’unica fonte di notizie per i giornalisti: questo fatto produce una standardizzazione e un conformismo sempre maggiori. Una soluzione a questi problemi è il richiamo alla funzione etica del giornalista, che dovrebbe andare oltre la superficialità di “verità assolute” per ricercare i fatti. Il giornalista deve evitare di trasformarsi in militante di una causa ed assumere un distacco critico per vedere con gli occhi e col cuore.
Ramirez ha ricordato come tra il 2001 e il 2003 la redazione del suo quotidiano abbia perso due dei suoi migliori reporters, uccisi entrambi mentre cercavano la verità: non una verità patriottica, religiosa, etnica o politicamente corretta ma “una verità di fatto, il cui obiettivo non era beneficiare nessun altro all’infuori dei lettori”. Il direttore di El Mundo ha aggiunto che “l’informazione non deve essere uno strumento al servizio di questo o quel progetto di sviluppo nazionale, etnico o religioso ma un diritto di ogni persona in qualità di essere umano”. Al di sopra di tutto devono prevalere due criteri fondamentali: i pregiudizi devono essere subordinati alla verità dei fatti; non si deve mai stimolare l’odio né verso chi la pensa diversamente né verso l’avversario. Grande è inoltre la responsabilità nell’uso del linguaggio e delle parole, che non devono esprimere un’interpretazione particolare, ma dei valori assoluti: “Un assassino non è un liberatore o un martire. Un assassino è un assassino qualunque uniforme vesta, perché uccide deliberatamente delle vittime. Per i giornalisti che credono nel valore della persona, la motivazione degli assassini non deve fare alcuna differenza.”
Per Wadah Khanfar l’informazione non solo comunica ma anche influenza i fatti. Di conseguenza la responsabilità, l’integrità e la ricerca della verità sono le caratteristiche più importanti per un inviato di guerra. Come giornalista occorre sempre esaminare la giustificazione morale della guerra, l’attenzione non va rivolta solo al campo di battaglia. Bisognerebbe interrogarsi sul perché quella guerra è stata iniziata e se i politici l’hanno dichiarata per una giusta ragione o per interessi personali. Non ci sono formule o leggi che regolano il giornalismo, perché si tratta di un’arte, non di una scienza. Occorre considerare che l’oggettività obiettiva non esiste ed è sempre presente il pericolo di cogliere solo una fetta di verità che potrebbe non corrisponde alla realtà vera e propria. Inoltre, se è vero che il giornalista non può essere un militante è ugualmente vero che laddove necessario non deve rimanere indifferenti al male.
Gad Lerner ha preferito soffermarsi sul rapporto tra i giornalisti e il loro popolo, piuttosto che sul rapporto giornalismo-potere. Gli ultimi avvenimenti ci hanno dimostrato che non esiste un Villaggio Globale né un Pubblico Mondiale: il nostro mondo si è spaccato, ma questo deve fare i conto con l’istintiva propensione a semplificare, propria specialmente della comunicazione televisiva. Il linguaggio della guerra che possiamo elaborare da una o dall’altra parte non parla solo a noi stessi ma anche a quelli dell’altra parte, come nel caso degli uomini bomba, il cui scopo è rivolgere un messaggio più chiaro possibile per terrorizzarci. La tentazione è rispondere colpo per colpo e riproporre il proprio senso di superiorità. Al contrario, dobbiamo fare la fatica di riconoscere quello che abbiamo in comune e capire cosa c’è in fermento in quel mondo, prima di giudicarlo. Non esiste un Dio su misura. Come scrive Pamuk nel suo romanzo “Neve”: Allah è uno solo.
Per Farina il paragone tra culture e religioni diverse non si fa tra teorie sul senso religioso ma tra esperienze e fatti di vita reale. Anche raccontare il Meeting è un fatto di giornalismo di guerra: esistono delle esperienze reali, il mondo arabo o quello occidentale non sono dei fantocci ma cose che vale la pena conoscere. Non bisogna occuparsi solo delle decisioni dei governi, bisogna parlare anche di una realtà come quella del Meeting, non nichilista ma portatrice di un modo nuovo di rispondere all’umano: se le parole esprimono il motivo per cui viviamo, questo può essere compreso da tutti. Tutto è guerra, la responsabilità del giornalista è dimostrare che l’uomo non è fatto per questo. Il rischio è ritenersi troppo furbi e diventare noi stessi strumento di guerra: in molti casi le telecamere sono più importanti delle armi e bisogna esserne consapevoli. Occorre partire dall’esperienza cui si appartiene, non da regole astratte: non si può trasformare il giornalista in un insieme di regole da rispettare a prescindere dalla realtà.
L. L.
Rimini, 23 agosto 2004