L’incontro in Sala Neri delle 11 è stato un lungo itinerario linguistico-filosofico attraverso “l’idea di libertà in Grecia e a Roma”. Si sono alternati, in una doppia tornata di interventi, il prof.r Moreno Morani, docente di Glottologia presso l’Università degli Studi di Genova e presidente del comitato scientifico di Zetesis, la prof.ssa Marta Sordi, docente emerito di Storia Romana presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e il prof. Alfredo Valvo, docente di Storia Romana presso la stessa università milanese.
Il percorso svolto dai docenti si è presentato come una ricerca sulle radici antiche e classiche della parola e sui contenuti della libertas romana e della eleuteria greca. Anche se i due termini appaiono così diversi, ha precisato Morani, la radice indoeuropea è la medesima e si ritrova nella parola leud, termine che ha a che fare col popolo: quindi la qualità di liber o di eleuteros ha a che fare col popolo. Appartenenza a un popolo e a una gente, ha aggiunto Marta Sordi che ha sottolineato la questione con un riferimento particolare alla storia greca. In Grecia l’idea di libertà, in particolare con le guerre persiane, si carica di una valenza politica. La non libertà è tutto ciò che non appartiene al popolo. Ciò che differenzia il greco dal barbaro è proprio quest’appartenenza, che lo indica come cittadino della polis. È nel corso del IV secolo, comunque, che il concetto di libertà passa dall’ambito del popolo a quello dell’uomo, per cui si distingue una natura (physis) ed una legge (nomos): si è liberi o schiavi per natura, non per legge. In questo ambito si differenzia la concezione romana, per la quale uno non è libero o schiavo per natura, ma per legge. Tanto che, ha esemplificato il professor Valvo, lo schiavo liberato, il liberto, diventa cittadino a tutti gli effetti. A Roma la connotazione prevalente del termine libertas è quella giuridica: il termine indica, infatti, il godimento in pienezza di alcuni diritti. Questo è proprio del civis romano. La pienezza della libertas è nella respublica. Il concetto di libertà, dunque, implica quello di cittadinanza: i primi liberi sono i filii delle prime gentes, i patrizi, che hanno per l’appunto un pater. La libertà allora non si qualifica in termini di autonomia, ma di rapporti sociali. Non solo. Non è un caso che il qualificativo liberi, le persone libere, coincide lessicalmente col sostantivo liberi, che significa figli. Quindi l’idea di libertas si connette da un lato all’idea di appartenenza a un popolo e dall’altro a quella di dipendenza da una paternità, cioè da una identità. Tanto che il contrario di libertà, a Roma come in Grecia, implica concetti quali la licentia o l’autadia (presunzione): il disordine che mina alle radici la società, dal momento che non ne rispetta identità e tradizione; il mos maiorum direbbero i romani. Non è stato difficile in epoca postclassica, se questi erano i concetti in gioco, arrivare all’idea che l’uomo è sacro all’uomo (Seneca e gli apologisti cristiani). Leggi non scritte cominciano ad emergere a livello di consapevolezza e la libertas, carica di connotazioni giuridiche, comincia a far spazio a valori come la dignitas, che precede qualsiasi legislazione statale. È per questa strada che il politeismo classico perde la propria intolleranza e, dal 313, con l’editto di Milano, entra nell’idea di libertà anche quella di libertas culti. Libertà religiosa e diritti del singolo sono definitivamente collegati.
E. P.
Rimini, 22 agosto 2005