LIBIA: I RAGAZZI E LA RIVOLUZIONE

Press Meeting

Una testimonianza di attualità estrema quella riportata nel documentario di Gian Micalessin (prodotto da Mtv News) che è stato proiettato lunedì 22 alle 19.00 in sala Neri nel secondo appuntamento del ciclo “Storie dal mondo”. Oltre all’autore del documentario e a Roberto Fontolan, responsabile del Centro internazionale di Comunione e liberazione, all’incontro ha partecipato anche Francesca Ulivi, direttore Tg e Responsabilità Sociale di Mtv Italia. Come ha commentato Fontolan prima della proiezione, nessuno poteva immaginare che sarebbe stato proiettato proprio nei giorni in cui le forze dei ribelli stanno prendendo il controllo di Tripoli decretando la fine dell’ultra quarantennale regime del colonnello Gheddafi.
Il documentario è stato girato a Bengasi (e nei dintorni) nei primi giorni dopo l’inizio della rivolta, che è cominciata “ufficialmente” il 17 febbraio (anche se già il 15 c’erano state le prime manifestazioni) quando le forze di polizia hanno represso con la violenza – causando alcune vittime – una manifestazione di protesta contro il governo. La situazione è degenerata nei giorni immediatamente successivi: il 19 febbraio l’esercito, che è di stanza nella caserma di Katiba, spara dall’interno delle mura sulla folla che tornava manifestando dai funerali delle vittime. Il giorno successivo i ribelli sfondano i cancelli di Katiba e la conquistano. Così è cominciata la cosiddetta rivoluzione libica, da una “successione fortuita di eventi” – come ha commentato lo stesso Micalessin – che ha portato a ciò che nessuno pensava possibile: che gruppi, coraggiosi ma disorganizzati, di giovani manifestanti potesse rovesciare il controllo dei militari nella città di Bengasi.
Il documentario si rivela prezioso nel comprendere alcuni aspetti dell’umanità dei primi protagonisti della rivolta (a quanto si capisce dai commenti di Ulivi, questo era un obiettivo importante della produzione): anzitutto i giovani intervistati sono studenti universitari poco più che ventenni, parlano inglese, hanno idee e desideri assolutamente comprensibili e sono – con le dovute differenze di cultura e religione – simili a giovani di qualsiasi parte del mondo. Come è accaduto anche in Siria e in Egitto, la rivolta e cominciata e si è organizzata in principio su Facebook. Nel documentario i ragazzi dicono che desiderano una società più giusta, una università migliore, un’economia libera e vogliono liberarsi dal tallone di Gheddafi che da 42 anni tiene soggiogata la loro città. Mohammed, 21 anni, una delle principali guide del reporter, mostra con orgoglio quasi ingenuo le tende dove abitano i ragazzi insorti, sul lungomare di Bengasi: “Potremmo andare anche a casa a dormire, ma preferiamo stare qua, a protestare, fino a quando il governo non sarà caduto, anche se ci volessero tre mesi”. Colpisce ascoltare queste dichiarazioni sapendo cosa è successo dopo quei giorni. Le ragazze intervistate parlano dei diritti delle donne, di come sognano il futuro, della questione del velo e di come organizzano i pasti dei volontari. Si respira un’aria di grande fermento e di collaborazione fraterna. La violenza che hanno visto, durata pochi giorni, ha lasciato il segno ma non ha ancora spento la speranza e l’ideale nei loro occhi.
“Gheddafi odia Bengasi da tempo. A Tripoli magari stanno meglio, ma qui le strade sono a pezzi e la scuola fa schifo”. Si intuisce che a Bengasi tutta la popolazione è contro Gheddafi. Un altro fattore per capire la rivolta, infatti, è che la Cirenaica, cioè la parte orientale della Libia, è da sempre un popolo rivale, dal punto di vista tribale, rispetto a Gheddafi, come ha spiegato Micalessin rispondendo alle domande.
Un altro elemento che colpisce lo spettatore e che ha suscitato le domande del pubblico è la religiosità di questi ragazzi: “Il primo motivo per cui combatto è la religione, poi vengono la libertà e la democrazia” dice un ragazzo sorridente diretto al fronte. “Io spero di incontrare presto una ragazza con cui sposarmi” dice un altro ventunenne. Talvolta nei dialoghi si riferiscono ai compagni insorti chiamandoli mujaheddin. “La Cirenaica è una società molto legata alla tradizione e alla religione” spiega Micalessin. Questo non significa affatto che sono fondamentalisti o terroristi, anche se esiste una piccola minoranza tra loro che è effettivamente jihadista nel senso più tradizionale del termine e che, purtroppo, è quella maggiormente in grado di combattere e di sfruttare le armi e gli aiuti forniti dalla comunità internazionale.
Dopo il crollo del regime, che appare ormai imminente, la Libia dovrà affrontare un periodo molto critico, spiega il reporter nella fase conclusiva dell’incontro, in cui sarà concreto il rischio di una “somalizzazione” del paese. Quello degli insorti è un popolo per certi aspetti ancora immaturo, e questo si è già visto nei mesi successivi della rivolta. I ribelli hanno mostrato scarse capacità organizzative e di autogestione, nonché numerose divisioni interne. Riferendosi alla risoluzione Onu, che ha permesso di fatto la continuazione e il recente successo della rivolta, si evince dai commenti del reporter che la comunità internazionale non ha saputo riconoscere che quella in atto non era una rivoluzione di un popolo unito contro un tiranno, quanto piuttosto una rivolta interna alla Libia.

Scarica