Rimini, mercoledì 22 agosto – Alle ore 15, nella Sala Neri UnipolSai, si è svolto l’incontro con il il prof. Joseph H.H. Weiler, docente alla NYU Law School and senior fellow at the Center for European Studies at Harvard. Nel presentare il senso di questo incontro, Stefano Alberto, docente di Teologia all’Università Cattolica di Milano, ha chiarito che “non si tratta di contraddittorio, né di un dialogo a due voci, ma di una lezione vera e propria, che ci introduce a una storia che ci riguarda. E’ una storia da cui sia i cristiani che gli ebrei attingono vita e significato”.
Weiler enuncia fin da subito la sua tesi: “le forze che muovono la storia non sempre rendono l’uomo felice”. Mosè, per lui, ne è un esempio. Per il rabbino, “la vicenda umana di Mosè rappresenta come sia in gioco una delle forze che muovono la storia e che si manifesta nella scelta di Dio di porlo alla guida del popolo ebraico per farlo uscire dal paese d’Egitto. Ma dal punto di vista personale il grande condottiero ebbe una vita infelice, sia nell’infanzia, sia nella vita famigliare. E rispetto al compito ricevuto da Dio, Mosè non poté entrare nella terra promessa”.
La lezione si trasforma a poco a poco in un dialogo. Il pubblico presente in Sala interviene sollecitato dalle domande sorprendenti di Weiler, che esprime tutta la sua empatia con la figura biblica di Mosè, in una immedesimazione che non tralascia gli aspetti anche più contraddittori, perché “la Bibbia non nasconde i problemi, mostra come sono i personaggi, non vengono idealizzati”. Di qui l’interrogazione pressante del testo biblico: “Perché uccide l’egiziano? È proprio vero che non sapeva parlare? Allora come si spiega che pronunci il cantico della liberazione che si legge in Esodo 15, di grande bellezza poetica? Mosè ha avuto problemi di identità? Da dove gli deriva il senso della giustizia? È frutto del suo temperamento o, in qualche modo, riflette la concezione della giustizia di Dio, del quale vuole essere fedele?”.
Procedendo su basi speculative, nel fitto del dialogo con il pubblico, avanza le sue tesi. “Nel rapporto con Dio c’è riverenza, obbedienza, ma è come se mancasse la parte affettiva. Di fronte al sacrificio che Dio gli chiede – quello di non entrare nella terra promessa – Mosè non protesta. Sembra quasi che la durezza con cui si è posto davanti agli israeliti la viva nel rapporto con se stesso. Uno degli scopi di Mosè era trasformare un popolo di schiavi in un popolo libero. Ora che si trova sulla soglia della Terra promessa, ci vuole un uomo nuovo: Giosuè, il cui nome ha una somiglianza fonetica con Gesù”. Mosè era stato il leader adatto per comunicare la Torah. Un leader giusto è chi per servire il popolo sacrifica la propria libertà, una libertà diversa da quella che noi oggi immaginiamo, e che può passare anche attraverso la mortificazione di un’apparente sconfitta”.
Stefano Alberto, nel concludere, ha sottolineato il fatto che “incontri come questi hanno lo scopo di metterci al lavoro rispetto alla storia che ci appartiene”. In quel “ci” vi è anche la comunanza con gli ebrei, come orgogliosamente precisa Weiler. “La si può leggere, questa storia, come un già saputo, oppure come una novità – prosegue Stefano Alberto – Il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe si im-pasta con le vicende umane, tutte le vicende umane, nessuna esclusa. Non sappiamo se per uscire dal deserto che noi occidentali stiamo attraversando occorreranno quarant’anni, ma certo è rilevante la consapevolezza che aveva Mosè quando si rivolge a Dio: ‘Se tu non camminerai con noi, non farci salire di qui’ (Esodo 33,15) . E ancora: ‘Mostrami il tuo vòlto’. ‘Non puoi vedere il mio volto e rimanere vivo’. La familiarità con il Mistero non rende meno misterioso il Mistero; proprio perché familiare diventa più mistero”.